breve di cronaca
Quel presente così difficile da digerire
Repubblica - 19-06-2004

Il tempo dei padri, della noia che detta la sua legge

di MARCO LODOLI

I ragazzi italiani si muovono lentamente. E´ strano, alla loro età io ero sempre di corsa, volevo sempre scappare da qualche parte, altrove, comunque lontano da dove mi trovavo. E invece loro camminano piano piano, anche quando la campanella suona l´ultima ora e si tratterebbe solo di scaraventarsi in fretta fuori dalla scuola, anche all´uscita dagli esami. Sono come pitoni impegnati a digerire un topo: qualcosa li ingombra, li appesantisce, li rallenta. Da bambini scattano come trottole, poi acquisiscono un passo da alpini. Più che andare, stanno. Più che fuggire, rimangono. Sono totalmente impegnati a digerire il loro topo, cioè il tempo presente. E il presente è grasso, supernutriente.
Il presente è la stagione dei padri, della noia, dell´ingiustizia, della rassegnazione. Non qui e non ora, non così, questo c´era scritto sulla bandiera della giovinezza. Ma adesso il presente regna incontrastato, si è sbarazzato del prima e del dopo e detta la sua legge. Sono così pieni gli scaffali del presente, c´è talmente tanta merce da smaltire, merce che si rinnova giorno dopo giorno, che non rimane alcuna possibilità di guardare indietro o avanti. Questo è un tempo saturo, senza finestre né vie di scampo. Chissà, in questo dimorare totalmente nell´oggi forse c´è anche una saggezza, in fondo tanti illuminati consigliano di vivere intensamente l´attimo che scompare, di raccogliere la goccia mentre cade. Forse noi che siamo stati ragazzi in un´altra epoca ci siamo consumati inseguendo nostalgie e chimere, idealizzando attimi lontani, artisti morti e sepolti, esperienze irraggiungibili. Forse hanno ragione i ragazzi che accettano le cose per quello che sono, senza tradirle, che istintivamente hanno scelto di amare il destino che gli è capitato. Di certo una conseguenza di questa fedeltà incrollabile al presente è la cancellazione della memoria come strumento di ricerca. Il passato è una stanzetta chiusa a chiave dove stanno ammucchiati i busti polverosi di Mussolini e Petrarca, Pertini e Michelangelo, i Beatles e Chaplin, Fellini e Giulio Cesare, e a volte persino di ET e Kurt Cobain. Non c´è differenza tra un evento o un personaggio di mille anni fa e uno dell´altroieri: è tutta roba in bianco e nero, infeconda, abbastanza noiosa, che appartiene al tempo inutile in cui questa mattina di sole, musica e traduzioni non esisteva ancora. Può essere materia di studio, una ricerca in biblioteca, un esame da superare, ma non è quasi mai linfa vitale. Non si saprebbe proprio dove farla colare, qui e ora è tutto già pieno, per i vecchi e i morti non ci sono più neanche posti in piedi.
A volte provo a spiegare che il tempo dell´arte è assolutamente un altro da quello del calendario, che Marco Aurelio e Shakespeare prima di essere statue nel museo sono stati dei ragazzi come loro: ma c´è poco da fare, non li convinco. L´industria dello spettacolo, della moda, dell´attualità e del frastornamento chiude tutte le prospettive. I giovani sono un mercato troppo importante, non è possibile lasciarli andare verso mondi lontani, gratuiti, senza scontrino. E così li vedo camminare fuori scuola trascinando un po´ i piedi, schiacciati dal carico del presente, affaticati da una digestione infinita.

Segnalato da P.I.

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 Pierangelo Indolfi    - 22-06-2004
Sempre Marco Lodoli, su Repubblica del 22.6.2004

La parola chiave: vivere praticamente

Le persone della generazione a livello di, nella misura in cui, pertanto e nonostante ciò, rifacendoci a e tenendo presente che, quelli che si sono consumati in assemblee e dibattiti, spulciando ogni ragionamento e spaccando il capello in quattro fino a rimanere calvi, probabilmente oggi si trovano in difficoltà quando debbono parlare con un ragazzo di diciott´anni. Se una volta la parolina chiave era cioé, trampolino che rilanciava il discorso sempre più avanti, oggi il termine dominante è praticamente. Qualsiasi discorso inizia con questo avverbio: anche se si tratta di commentare la poesia più rugiadosa o il sogno più sgangherato, il diciottenne attacca sempre con un fragoroso praticamente. Il linguaggio, si sa, è una spia implacabile, certi tic verbali rivelano molto dello spirito del tempo. Oggi i ragazzi hanno bisogno di riportare ogni vaga elucubrazione sulla terra, debbono per forza trovare la sua traduzione concreta. Chi si compiace di fumisterie e bizantinismi è perduto, chi crede di ipnotizzare i serpenti solo con il piffero delle frasi verrà inesorabilmente morso. I ragazzi non hanno tempo da sprecare, non si fanno incantare dalle parole vuote. A volte questo è un rischio, perché non tutto si può convertire in moneta immediatamente spendibile nella realtà, a volte il pensiero fa giri larghi, abbraccia il cielo e le nuvole, rasenta l´ineffabile e l´invisibile: però è certo che le parole alla fine debbono calarsi nella vita, altrimenti sono solo suoni fastidiosi. I miei allievi hanno qualità che io, spesso ebbro di chiacchiere, assolutamente non ho: quelli del turismo sanno organizzare un torpedone per cinquanta giapponesi che desiderano visitare la città; quelli della moda sanno disegnare e confezionare gli abiti più arditi; quelli del grafico impaginano qualsiasi testo, e lo presentano con una copertina che non fa una piega; quelli del chimico sanno costruire con i pezzi di una vecchia lavatrice un depuratore perfettamente funzionante. E quasi tutti sono in grado di riparare il motorino o il computer, da quando hanno dieci anni sanno prepararsi una cena, e in città non si perdono mai, neanche nei quartieri più sconosciuti. La vita per loro è un sudicio marchingegno fatto di rotelle, fili, ganci, incroci, un motore oleoso che bisogna saper smontare e rimontare. Ogni discorso deve essere un´istruzione per l´uso, anche i temi più vaporosi alla fine debbono produrre uno schema di funzionamento. «Praticamente, professore, Leopardi vuole farci capire che...», oppure: «Praticamente ieri al Luna Park mi sono abbastanza divertito, praticamente Marzia mi ama e io la amo...». E´ una porta stretta dalla quale restano fuori le obesità mentali, i cincischiamenti ideologici, l´affettazione di chi perde troppo tempo a pulirsi scarpe e pensieri sullo zerbino. Insomma, se vogliamo farci spiegare ombre e penombre dell´universo rivolgiamoci a un cinquantenne, ma se qualche cosa nella nostra vita non funziona come dovrebbe, stiamo tranquilli: questi ragazzi sapranno come aggiustarla e farla ripartire.

 milena pasquini    - 22-06-2004
Le riflessioni esposte nell'articolo rendono tristi e fanno sentire colpevoli e sconfitti.
Ma è solo questa la realtà giovanile?
Uno dei miei figli (anni 31), quando il padre o la sottoscritta rievocano un episodio dei loro "tempi" giovanili o di un passato più lontano, ascolta con aria canzonatoria e commenta "...ma era l'uno! (1901)". Però non ritiene inutile il ricordo, non insignificante il racconto o il personaggio, perché sollecita particolari ed emozioni.
Forse bisogna aspettare con pazienza che i ragazzi diventino "grandi" e da soli, secondo i loro tempi e sensibilità, si approprino di una realtà passata che appartiene anche al loro presente: posto ce n'è.
E noi, genitori e insegnanti e adulti stiamo attenti, percepiamo le reali esigenze dei ragazzi, refrattari, indolenti e menefreghisti, ma che in realtà hanno tutte le paure, i bisogni e le attese che avevamo noi alla loro età.
Diamo loro fiducia; ciò che potranno essere dipende anche da noi, se riusciremo ad accompagnarli senza forzature.

 Anna Di Gennaro Melchiori    - 23-06-2004

A proposito di "digerire il presente", segnalo volentieri l'ultimo articolo di Vittorio Lodolo D`Oria tratto da proteofaresapere.


Vacanze

Sarà meglio non illudersi. Torneremo stanchi, depressi, accaldati, ma non certamente ritemprati. L’illusione durerà pochi attimi; il tempo di renderci conto che il solo uscire dalle nostre “ambasce” e dai nostri riti quotidiani ci crea nuova ansia. Mettere in bella mostra le nostre “ciambelle” sotto l’ombrellone sarà il colpo di grazia per frustrarci definitivamente, tanto più se il vicino è un palestrato. La prospettiva – lo so – non è allettante, così come il rientro a scuola. Da piccolo odiavo quelli che sorridevano felici correndo sulle scale per rientrare anzitempo nelle aule. Oggi continuo ad odiarli. Domani si vedrà. A ben riflettere la nostra vita oscilla tra illusioni e disillusioni. E’ tutta un sabato del villaggio di leopardiana memoria. Da dove mi deriva tutta questa vena filosofica? Semplice. Sono rientrato da una vacanza di una settimana. Figurarsi se si fosse trattato di un mese. La famiglia è rimasta al mare e ciò mi deprime ulteriormente. Non posso sgridare nessuno dei miei quattro figli. La casa è maledettamente in ordine e la cucina – contrariamente al solito – sembra una sala sterile per i trapianti di midollo. La notte fila liscia senza che nella stanza riecheggi come al solito il verso della ghiandaia ogni 5 minuti, ma solo dalle 3 del mattino in avanti (si tratta dell’ultimo nato di nove mesi alle prese con le imitazioni dei corvidi). La televisione è spenta, il game-boy giace inerte su un fianco, la cassetta del gatto è vuota (quasi mi viene voglia di riempirla del mio). Per fortuna si è rotta la caldaia ed è dovuto intervenire il tecnico. Gli preparo un caffè, lo invito a sedersi, mi scuso di averlo importunato e mento spudoratamente asserendo che è una persona onesta quando mi presenta il conto. Ovviamente non ha con sé il pezzo di ricambio: “ma non si preoccupi”, “torni quando vuole che mi farà piacere”. Lo saluto – ma avrei voglia di abbracciarlo - nella speranza di rivederlo presto, pur di infrangere quel fragoroso silenzio che mi circonda minaccioso tra le mura domestiche. Scopro mio malgrado che sono nato per soffrire. La tranquillità non fa per me. Forse tutto ciò accade perché siamo frastornati da avvenimenti che si susseguono senza sosta, da ritmi di vita esasperati, da continui stimoli di ogni ordine e grado, dalla regola del fare incessantemente. Il silenzio mi disorienta, l’immobilità mi inchioda al muro, la solitudine mi costringe a interrogarmi sulla vita, a riflettere sul senso di esistere. La cosa non mi va. Tutto ciò mi fa però capire che la relazione è vita, che la mia famiglia è gioia vera; che lo slogan pubblicitario del tutto intorno a te - seppure pronunciato da un’avvenente fanciulla - è una vera bufala (e non si tratta di mozzarella), perché seppure possedessi tutto ma non avessi con chi condividere sarei un nulla. Ed è proprio quando hai tutto intorno a te che ti siedi, ti annoi, ti ripieghi su te stesso. Ti capita di sentirti come gli adolescenti – ombelico del mondo - descritti dal bell’articolo di Marco Lodoli comparso ieri su Repubblica: “I ragazzi italiani si muovono lentamente…Sono come pitoni impegnati a digerire un topo: qualcosa li ingombra, li appesantisce, li rallenta. Da bambini scattano come trottole, poi acquisiscono un passo da alpini. Più che andare, stanno. Più che fuggire, rimangono. Sono totalmente impegnati a digerire il loro topo, cioè il tempo presente. E il presente è grasso, supernutriente. Il presente …regna incontrastato, si è sbarazzato del prima e del dopo e detta la sua legge.
E la conclusione dell’autore è addirittura più mesta della premessa: “A volte provo a spiegare che il tempo dell’arte è assolutamente un altro da quello del calendario, che Marco Aurelio e Shakespeare prima di essere statue nel museo sono stati dei ragazzi come loro: ma c’è poco da fare, non li convinco. L´industria dello spettacolo, della moda, dell´attualità e del frastornamento chiude tutte le prospettive. I giovani sono un mercato troppo importante, non è possibile lasciarli andare verso mondi lontani, gratuiti, senza scontrino. E così li vedo camminare fuori scuola trascinando un po’ i piedi, schiacciati dal carico del presente, affaticati da una digestione infinita”.
Quello che però manca nell’articolo è l’appello alla speranza. Speranza che potrà scaturire solo dal rifiuto di succulenti mele (la storia – biblica – si ripete) che il mercato ci offre attraverso suadenti Eve. Ed una volta che avremo imparato a rinunciare saremo chiamati – solo attraverso l’esempio – a testimoniare quest’unica formula di vita alle nuove generazioni come genitori e insegnanti.

Arrivederci a Settembre.

 Pierangelo Indolfi    - 28-06-2004
Sempre Marco Lodoli, su Repubblica del 28.6.2004

La nuova sincerità del parlare a vanvera

Bisogna educarsi a pensare e a esprimere la propria verità dopo aver riflettuto
MARCO LODOLI


Nessuna filosofia catalogherebbe mai la sincerità tra i difetti degli esseri umani. Le persone sincere sono anzi le migliori, le più oneste, ci ispirano un´istintiva fiducia. Sull´altra trincea ci sono i falsi, gli ipocriti, gente che fa della menzogna un´arma sottile per avvantaggiarsi meschinamente. Tutto chiaro, dunque? Il bene sta con i sinceri e il male con i falsi? Se dividiamo il campo tra questi due avversari, non c´è alcun dubbio. Però, almeno qui da noi, nell´Italia di questi anni, mi pare che la sincerità abbia un nuovo nemico, la riflessione, e che sia diventata la cara sorella della faciloneria e della supponenza. Tanti giovani, ma non solo loro, sono stati educati da cento programmi televisivi a dire la prima cosa che passa loro per la testa, senza fermarsi un minimo a meditare. «A professò, io sò sincero, a me sta poesia de Leopardi me fa veramente schifo», oppure, cambiando settore: «Della guerra e della pace me ne frega pochissimo, glielo dico col cuore in mano». La sincerità è diventata una scorciatoia per evitare ogni sforzo del pensiero. Per questo agli esami orali i ragazzi faticano a organizzare un discorso fluido. Sarebbe il momento di una comunicazione ponderata, invece le parole escono a stento, i raccordi si sfilacciano, spesso gli argomenti s´afflosciano a mezz´aria.
Bisognerebbe parlare di altro da sé e non si è più abituati. D´altronde in televisione vediamo di continuo gente che senza esitare racconta a mezza Italia i suoi problemi sentimentali, che si rinfaccia qualsiasi cosa, che dichiara senza arrossire: «Ti voglio bene» o «Mi fai schifo». Una volta la sincerità era il risultato finale di un percorso difficile, anche sofferto.
Chi esprimeva la sua verità aveva prima riflettuto a lungo, scelto con curale parole per sputare il rospo. Sapeva di rischiare e rischiava. Anche una dichiarazione d´amore derivava da nottate trascorse nella trepidazione. Oggi non è più niente, solo un gargarismo per sciacquarsi la gola, un narcisismo sciocco. Protetti e autorizzati dal potere di questa parolina, i nuovi italiani hanno cominciato a parlare a vanvera, a esporre allegramente le proprie budella, cambiando idea ogni momento perché non hanno più nessuna idea, solo tanta sincerità. Siamo diventati come quei bambini che per un certo periodo parlano con infinita gioia della loro cacca. «Professò, devo andare al bagno», e io rispondo: «Mancano due minuti alla campanella, per favore aspetta la fine della spiegazione», e inevitabile arriva il commento: «Vabbè allora la faccio qui nell´angolo, mi dispiace, ma io non reggo, glielo dico sinceramente». E´ lo stesso che sinceramente afferma di odiare la poesia, «che non serve a niente e non fa guadagnare una lira». Tanti cardinali del video hanno fatto di questa rude e volgare schiettezza un nuovo valore. Ovviamente non sto qui a rimpiangere una società castigata, timorosa di prendere la parola: è giusto che tutti dicano senza paura ciò che pensano. Non desidero affatto che gli studenti siano degli «acustici», cioè persone che fino a quando non imparano debbono solo ascoltare, come accadeva nelle scuole stoiche della Grecia antica. Però mi pare che aprire bocca e darle fiato non sia la cosa migliore. Bisogna sempre essere sinceri, ma prima bisogna educarsi a pensare, dubitando almeno un poco che ogni nostro prurito sia una verità assoluta da grattare in pubblico. «Parliamo tanto di me», scriveva Zavattini: d´accordo, ma impariamo un poco a parlare anche del resto, almeno agli esami.