Pierangelo Indolfi - 09-06-2004 |
Il Manifesto Un pensiero rapito alla storia 10 giugno 1924, ottanta anni fa l'omicidio a opera degli squadristi La singolare sfortuna, se non rimozione, anche a sinistra della figura di Giacomo Matteotti, schiacciato sul martirio a discapito dello spessore politico della sua opera. Parla Stefano Caretti, curatore dell'edizione critica delle «Opere» di Matteotti MICHELE NANI «Bisogna che picchiate sodo sulla testa di Matteotti e non permettergli [sic] [di] venire a Ferrara. Egli è il maggior colpevole delle violenze rosse»: così nel gennaio 1921 un'anonima penna scriveva al segretario del Fascio ferrarese, testimoniando del clima in cui si svolse la prima aggressione al deputato socialista. Matteotti aveva rinunciato a partecipare ai lavori del congresso di Livorno del Psi per accorrere a Ferrara a sostituire i dirigenti locali arrestati: trovò una provincia sotto l'urto dell'offensiva delle «squadre» di Balbo, dalla quale fu tutelato solo per opera delle «guardie rosse». Si inaugurava così un crescendo di violenze contro la sua persona, destinato a un tragico epilogo tre anni dopo. Il destino di Matteotti fu una metafora del crollo dello Stato liberale, ma anche, più concretamente, il segno della sconfitta - «militare», certo, ma anche e soprattutto politica - delle classi lavoratrici italiane e delle loro organizzazioni. Alle elezioni del 1924, grazie alla combinazione di violenze e brogli, il «listone» fascista ottenne la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Matteotti tenne un infiammato discorso contro le manipolazioni e le intimidazioni, ma alla vigilia di un nuovo intervento, in cui avrebbe denunciato le menzogne del governo sul bilancio (un deficit enorme spacciato per pareggio), il 10 giugno 1924 il segretario del Partito Socialista Unitario venne sequestrato e ucciso da un gruppo di squadristi. Il corpo venne ritrovato solo due mesi dopo, ma nel frattempo il paese era stato scosso da quello che sarebbe rimasto il suo ultimo sussulto. La divisione delle opposizioni, ovvero la fiducia nutrita da socialisti e popolari in un'eventuale iniziativa del re (quel Vittorio Emanuele III che due anni prima aveva consegnato il governo a Mussolini dopo la «marcia su Roma»), impedì di fermare il fascismo. L'individuazione delle responsabilità personali di Mussolini nell'assassinio del suo implacabile avversario originò invece una vera e propria rivendicazione, nel discorso del 3 gennaio 1925, che costituì il prologo alle «leggi fascistissime», alla cancellazione di tutti gli spazi di libertà, alla costruzione di un nuovo tipo di regime dittatoriale. Di Matteotti parliamo con Stefano Caretti, docente di storia contemporanea all'università di Siena, presidente dell'Associazione «Sandro Pertini», curatore dell'edizione critica delle Opere di Matteotti e autore di molti studi sul socialista di Rovigo. Dieci anni fa l'anniversario fu celebrato dalla presidente leghista della camera Irene Pivetti, con parole vacue e demagogiche scambiate per antifascismo da gran parte delle sinistre. Allora come oggi imperava Berlusconi: a ottant'anni dall'assassinio, cosa resta di Matteotti? Pochi uomini politici hanno ispirato intere generazioni e suscitato echi così profondi e duraturi anche all'estero. Dopo il 1945 a Matteotti sono state dedicate oltre 3.200 fra strade e piazze. Eppure pochi uomini politici sono stati al tempo stesso più glorificati e meno conosciuti. La storiografia si è mossa con ritardi e incertezze, nonostante le iniziative di Gaetano Arfè (come, ad esempio, il tentativo, fallito, di un'edizione delle opere presso Einaudi). Solamente negli anni Settanta, a partire dall'edizione dei discorsi parlamentari voluta dall'allora presidente della camera Sandro Pertini, Matteotti venne progressivamente sottratto alle suggestioni del mito per essere consegnato al giudizio della storia. Anche a sinistra si può parlare di una singolare sfortuna, se non di una vera rimozione, della figura di Matteotti: legata al prevalere di una dimensione etica, alla svalutazione - anche da parte comunista - della tradizione del riformismo, alle lotte interne fra gli stessi socialisti. Al di là del mito del martire, Matteotti fu una vittima politica della violenza extralegale del fascismo e incarnò esemplarmente l'opposizione fra diritto e dittatura. Si era laureato in giurisprudenza a Bologna nel 1907, con una tesi sulla recidiva, tema al quale dedicò nel 1910 un importante volume, elaborato nel corso di intensi soggiorni nei principali paesi europei e considerato tuttora un classico. Quel lavoro lo impose all'attenzione del mondo giuridico italiano: della statura intellettuale di Matteotti è testimonianza il volume di Scritti giuridici uscito lo scorso anno con una presentazione di Giuliano Vassalli. Quando maturò la scelta dell'impegno? Socialista militante, sulle orme del fratello Matteo, sin dall'adolescenza, proprio nello stesso anno in cui Bocca stampò La recidiva, il venticinquenne Matteotti mise al servizio del partito non solo la passione dell'organizzatore, ma anche le competenze giuridiche, economiche e amministrative: fu uno dei tanti artefici della stagione del «socialismo municipale», felice matrimonio fra intellettualità e politica, applicazione sul terreno locale della strategia riformista. Un riformismo che si alimentava delle lotte dei lavoratori ed era capace di giungere a posizioni assai radicali. Come mostra l'esempio dello stesso Matteotti, che ebbe un senso fortissimo dell'autonomia di classe. Fra queste posizioni vi è anche l'atteggiamento verso il colonialismo, che resta fra i motivi dell'attualità del suo socialismo. Quando il Regno d'Italia dichiarò guerra all'Impero Ottomano per conquistare l'attuale Libia, Matteotti, a differenza di tanti altri democratici e socialisti italiani, assunse una posizione ferma: convinto, come scrisse più tardi, che in quel conflitto i combattenti per la «libertà della patria» si trovassero oltre le «prime dune di sabbia» (cioè fra le fila degli arabi), organizzò numerose manifestazioni di protesta contro l'aggressione italiana. Queste posizioni ressero anche di fronte alla prima guerra mondiale? Matteotti contestò la necessità dell'intervento in una guerra imperialistica, le retoriche patriottiche che mascheravano gli interessi delle borghesie europee: vi oppose un irriducibile rifiuto, auspicando la sollevazione delle masse e polemizzando contro «traviamenti» e «titubanze» dei compagni di partito. Da «buon riformista», ritenne che dinanzi al «maggior male» rappresentato dalla guerra occorresse fare appello alla «possibilità» e alla «necessità» di un'insurrezione popolare. Denunciato e poi condannato per «grida sediziose» e «disfattismo», venne subito dopo richiamato alle armi, benché riformato. Fu spedito in Sicilia, più lontano possibile dal fronte, ove avrebbe potuto esercitare un'opera di agitazione fra le truppe. Nemmeno Caporetto giustificò ai suoi occhi l'adesione alla guerra. Durante gli anni siciliani Matteotti aveva ripreso gli studi giuridici e meditava di intraprendere la carriera universitaria. Non giunse in cattedra, ma allo scranno parlamentare... Subito dopo il congedo tornò alla politica in pieno «biennio rosso», contribuendo alla grande ondata di lotte contadine. Grazie alla sua opera il Psi conobbe un vero trionfo alle elezioni amministrative del 1920, conquistando tutti i 63 comuni della provincia di Rovigo. Eletto a più riprese deputato dai voti dei braccianti del Polesine e del Ferrarese, fu attivissimo in parlamento («sono uno dei pochissimi che lavorano, che studiano» scrisse alla moglie Velia dopo l'ennesima giornata trascorsa alla camera fino a tarda sera) e si occupò soprattutto di questioni economiche e finanziarie. Una competenza riconosciuta anche a livello europeo: per l'Internazionale socialista Matteotti scrisse una memoria fortemente critica sull'imposizione di ingenti debiti di guerra alla Germania sconfitta e sull'occupazione della cruciale zona industriale della Ruhr. Va ricordato che quella «pace punitiva» concorse a radicalizzare e diffondere socialmente il nazionalismo tedesco, creando un terreno favorevole all'avanzata del nazismo. Sebastiano Timpanaro ha sottolineato l'eccezionale capacità di Matteotti di misurarsi con tutti gli aspetti della situazione politica che avrebbe condotto al regime, senza tacere le connivenze dello Stato verso il primo fascismo e le radici classiste del movimento (cfr. la raccolta di «scritti militanti», Il Verde e il Rosso, a cura di Luigi Cortesi, Odradek 2001). Dal suo osservatorio in qualche modo privilegiato - la pianura padana, che vide nascere lo squadrismo - quale analisi offrì del fascismo? Le violenze antibracciantili che distrussero il controllo sindacale sul mercato del lavoro, ristabilendo l'arbitrio padronale e diffondendo fra le classi dirigenti e i ceti medi la fascinazione per una soluzione di forza dei conflitti sociali, furono giudicate uno strumento del «peggiore incivile squadrismo agrario»: per Matteotti, «il capitalismo aggredito nella borsa, diventa una bestia feroce». Fu forse il primo politico a comprendere la vocazione totalitaria del fascismo, a intuirne i caratteri di novità rispetto a precedenti esperienze autoritarie, la sua essenza di reazione moderna. Pagò caro la sua lucidità, espressa in numerosi interventi e discorsi, ma anche in due importanti scritti (Un anno di dominazione fascista e Il fascismo della prima ora): alle minacce degli organi di stampa fascisti fecero puntualmente seguito le aggressioni fisiche. Queste non lo intimidirono, ma lo spinsero a radicalizzare la risposta: «Voglio la lotta contro il fascismo», scrisse nel suo ultimo abbozzo di intervento per la rivista socialista «Critica sociale», consapevole che «per vincerla bisogna inacerbirla», nel nome di una «resistenza senza limiti»: citava esplicitamente la «legittima difesa» e l'impossibilità di confidare in uno spontaneo ritorno alla legalità. All'ultima minaccia mussoliniana dalle pagine del Popolo d'Italia, che dopo il discorso del 30 maggio auspicò «qualcosa di più tangibile» a danno del deputato socialista, non seguì l'ennesima aggressione, ma l'assassinio. ----------------------- Un disubbidiente GIANPASQUALE SANTOMASSIMO Il capitolo della sfortuna di Matteotti è tutto da scrivere, e si possono solo suggerire alcuni spunti. Non si sta parlando della notorietà esteriore: è forse tra i personaggi laici del Novecento italiano il più ricordato nella toponomastica delle città, dei paesi e dei borghi. Ma è, appunto, l'omaggio a un «martire» di cui tutto si ignora tranne il sacrificio stesso. Se a volte si riaccende l'attenzione della grande stampa è solo per presunte nuove e fantasiose «piste» attorno alla vicenda dell'assassinio, di per sé chiarissima nella dinamica, nelle motivazioni e nello svolgimento. La sfortuna editoriale è presto riassunta nella circostanza di Opere pubblicate da un piccolo e coraggioso editore pisano, Nistri Lischi, dopo il rifiuto di tutte le principali case editrici nazionali, comprese quelle più vicine alla memoria e, anche, al vero e proprio culto della tradizione antifascista. Di una tradizione che, però, sembra incontrare qualche problema nel valorizzare un personaggio come Matteotti, al di là della dimensione sacrificale. Non è un caso che l'unico intellettuale della sinistra che si sia cimentato più volte con il personaggio di Matteotti sia stato Sebastiano Timpanaro, a sua volta ignorato e negletto dai grandi editori. Per affinità e vicinanza, si può forse ipotizzare nel caso di Timpanaro, con quel mondo del socialismo umanitario e classista di cui Matteotti fu parte integrante e per diffidenza nei confronti dei «superatori» prossimi al liberalsocialismo o all'attivismo rivoluzionario. Di certo il personaggio Matteotti non è facile da classificare in base agli schemi ereditati e lungamente acquisiti. Un riformista-rivoluzionario che crede nella costruzione graduale di un socialismo dal basso, fondato sull'autonomia dei lavoratori, e che perciò diffida della imposizione autoritaria dall'alto di un socialismo elargito da una élite ristretta di rivoluzionari. Su questo si innestano le dispute nominalistiche che accompagnano la sua «fortuna» nel secondo dopoguerra e che contribuiscono a circoscriverne la dimensione a quella esclusiva del martirio. «Socialdemocratico», e perciò avvertito distante dalla tradizione comunista, a sua volta conteso a lungo dalle anime contrapposte del socialismo italiano che ne rivendicano l'eredità, ma entrambe ne forzano e attualizzano la figura senza offrire gli elementi di una effettiva riscoperta del suo spessore politico. Che è quello dell'unico dirigente del movimento operaio italiano che comprese fin dall'inizio novità e pericolosità del fascismo, senza indulgere nell'abbaglio ricorrente, in quasi tutti i socialisti e comunisti dopo la marcia su Roma, per cui «un governo borghese vale l'altro», e senza lasciarsi scappare sciocchezze su Mussolini che è comunque preferibile a Giolitti, come fanno all'epoca alcuni dei più illustri protagonisti del futuro socialismo liberale. Ma oggi comprendiamo chiaramente che c'è un altro - e fondamentale - motivo, che lo rese così ostico e distante. La sua opposizione alla guerra, nelle forme del pacifismo più militante e intransigente tra i suoi contemporanei, che lo portava a proporre atti insurrezionali contro la guerra (bloccare i treni che portavano armi al fronte), a contrastare lo stesso «non aderire né sabotare» del suo partito, che gli pareva compromissorio e troppo corrivo nei confronti dello «straccetto patriottico» che veniva agitato dai «militaristi» («Noi non neghiamo l'esistenza della patria, ma essa non è la nostra idealità; un'altra e più alta assai è la nostra aspirazione»). Che lo faceva sentire vicino a Karl Liebknecht, «solo, contro tutto un parlamento che vaneggia nel patriottismo barbarico e sanguinario». Questa dimensione di Matteotti lo rende un «sovversivo» e «disfattista» inviso a tutto il mondo dei «benpensanti» italiani, ma lo rende anche distante e quasi incomprensibile per il filone maggioritario della cultura antifascista italiana, che si mosse in rapporto di filiazione diretta o mediata con la tradizione dell'interventismo democratico, dei suoi miti, delle sue buone intenzioni e dei suoi nobili propositi, purtroppo naufragati in esiti catastrofici. Una attitudine ricorrente da cui pare non ci si riesca a vaccinare. E' questa la «colpa» fondamentale di Matteotti, che spiega la sua sfortuna, ed è anche per questo che oggi lo sentiamo molto più vicino. |
Anna Pizzuti - 12-06-2004 |
Da qualche tempo, le date hanno cominciato ad assumere un significato particolare. Sono diventate simbolo, oltre che memoria. Non “da qualche tempo” avrei dovuto scrivere, ma “di questi tempi” e non può essere altrimenti, visto che qualcuno sta costruendo per noi un tempo immemore e vuoto. Il dieci giugno 1924, il delitto Matteotti. Il dieci giugno 1940, la dichiarazione di guerra. Una coincidenza di date – una beffa della storia – sicuramente presente alla coscienza di chi aveva avuto la forza di tenersi stretto al di cui ci parla Giuseppe Aragno. In America, raggiunto dalla notizia dell'intervento dell'Italia contro una Francia che stava capitolando, Roosevelt rilasciò a Charlottesville, in Virginia, una dura e amara dichiarazione alla radio: "In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino ". (1) Un riferimento del tutto casuale, forse, che però mi ha colpito. Come mi ha colpito l’immagine di Velia Titta, la moglie di Matteotti. (2) Che, all´indomani del delitto, commissionò al più famoso fotoreporter italiano dell´epoca, Adolfo Porry Pastorel un rischiosissimo reportage privato sulle indagini: decine di scatti rubati, eccezionali per contenuto informativo, di un dinamismo sconosciuto al fotogiornalismo coevo, tranne ai grandi pionieri: le macchine coi magistrati e i carabinieri che corrono sulle strade polverose, i sopralluoghi dei magistrati, il ritrovamento della giacca insanguinata, il recupero pietoso della salma, i leader socialisti Turati e Treves convocati per il riconoscimento, la simulazione giudiziaria del rapimento, i ritratti dei testimoni: alcune immagini apparvero nei giornali antifascisti dell´epoca, ma l´intera sequenza, un fotoracconto eccezionale, viene ricomposta solo oggi. Ma per Velia, che le raccolse in un album istoriato d´oro, erano documenti per i posteri. L´ora dei posteri è arrivata, e quelle foto, assieme a documenti e memorie, escono per la prima volta dagli archivi familiari dove dormivano avvolte in delicate veline nere, ciascuna etichettata con cura certosina, (3) esposte nella mostra Giacomo Matteotti storia e memoria ricordata da Gaetano Arfè. Velia Matteotti comprese subito in quali ambienti fosse stata presa la decisione di eliminare il marito. Ed agì di conseguenza. Dovette anche difendersi da un’operazione di “disinformazione” messa in atto contro di lei, a proposito di un suo incontro con Mussolini, quattro giorni dopo il rapimento. Quell'incontro suscitò sorpresa negli ambienti antifascisti e per anni continuò a far discutere. E questo anche perché il "Giornale d'Italia" fece un resoconto – dettato da Mussolini - a tratti strappalacrime. Una lettera inedita della vedova Matteotti a Gaetano Salvemini ristabilisce la verità dei fatti, dimostrando come il quotidiano avesse falsificato tutto su richiesta del Duce, il quale quel 14 giugno era già a conoscenza dell'omicidio di Matteotti. Sollecitata da Salvemini, intellettuale riformista in esilio a Londra, su come effettivamente si erano svolte le cose quel 14 giugno 1924, Velia Matteotti smentiva che l'invito le fosse arrivato da Mussolini che l'aveva scorta " alla tribuna dei deputati " e quindi accolta " scattando sull'attenti ". Come definiva falso il resoconto che voleva il Duce commosso davanti al suo racconto, promettendole di riconsegnare " il marito vivo " e facendola infine riaccompagnare a casa con un'auto ministeriale. " Io non ero presente a Montecitorio, né Mussolini mi fece chiamare, ma andai da me in compagnia di mia sorella. Mussolini non scattò in piedi mettendosi sull'attenti, né io scoppiai in singhiozzi ", scriveva, tra l'altro, Velia Matteotti a Salvemini rassicurandolo sul fatto che mai aveva chiesto niente al dittatore fascista. La vedova del deputato socialista smentiva anche nettamente che l'incontro fosse stato preparato fin nei minimi particolari, al punto che si svolse in piedi e " senza alcun protocollo ". Insomma, nel colloquio non si registrarono silenzi né gesti teatrali da parte del Duce, mentre si respirava " una completa atmosfera di colpa di fronte al delitto ". Quanto a Mussolini, egli non era affatto commosso: "Era uno spettro di terrore ". E Velia Matteotti non implorò il capo fascista né lo ringraziò per un eventuale interessamento per la sorte del marito. Anche il particolare della macchina della presidenza del Consiglio che riportò a casa la moglie affranta non corrispondeva alla verità. " All'uscita dal colloquio - scriveva la vedova a Salvemini - si cercò di farmi salire sull'automobile governativa, ma per la sveltezza di mia sorella questo per fortuna non avvenne e partimmo sopra un'automobile di piazza. Ecco la verità ". (4) Ed a Velia Gatano Salvemini scrisse " Detestavo i fascisti e non avevo fiducia negli antifascisti. Me ne stavo tra i miei libri, risoluto a non entrare più in politica…quando lui fu ucciso mi sentii in parte colpevole. Lui aveva fatto tutto il suo dovere, e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere, e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l'Italia non sarebbe stata calpestata e disonorata da una banda di assassini. " (5) Fonti (1) anpiroma (2) Associazione Italiana Autori Scrittori Artisti "L'ARCHIVIO" (3) DS Milano (4) Storiainrete (5) Il C.O.S. in rete |