Danae
Annalisa Rossi - 21-05-2004

Della storia di Perseo, figlio di Zeus e di Dànae. già ho parlato nello scritto Medusa.
Ci basti ora sapere che suo nonno materno, Acrìsio re di Argo, ammonito dall'oracolo che sarebbe stato ucciso per mano del figlio di sua figlia, fece rinchiudere Danae in una torre di bronzo, dove Zeus penetrò e, sotto la parvenza d'una pioggia d'oro, la fece madre di Perseo che, poi, uccisela Medusa e il liberò Andromeda, figlia di Cefeo e Cassiopea,che poi ebbe in moglie.
Tornato presso l’isola di Serifo, nelle Cicladi, dove il re Polidette aveva accolto lui e la madre, uccise quest’ultimo ed infine, per sbaglio, durante una gara,, colpì in fronte il nonno Acrisio. Per questo scambiò col cugino Metapente il trono di Argo con quello di Micene.


Qui, Danae, tornata ad Argo con Metapente, scrive a suo figlio.





Ti scrivo, figlio mio, poiché a lungo ho taciuto dopo la tua affrettata partenza.
All’interno del palazzo di Argo, in questa giornata di luce straniante, i banchieri che vengon da Joppa(o Jaffa, come la chiamano loro), han discusso di strane alleanze con tuo cugino, Megapente, sfoderando sorrisi come lame d’amianto.
Ho presenziato all’udienza, in quanto, unica figlia d’Acrisio, sarei io a dover sostener la corona.
Nessuno, però, di quei feroci serpenti, accetterebbe mai di trattare con me, così femmina, oltre che donna.
Servo da coreografia per legittimare un potere.
Per dire che l’uomo che siede sul trono sta lì, ché ha nel sangue qualcosa d’Acrisio, mio padre, e io ne sono la prova evidente.

ESIBITA.

Una nuova Mary Stuard , mediterranea soltanto. Per me, tuttavia, non si raccolgono uomini o eserciti, né si tagliano teste: non c’è un Dio di mezzo.
Sono io la suppellettile preziosa, ma muta, affascinante, ma solo cortigiana del Dio, madre d’un uomo, un eroe selvaggio, tatuato nel cuore, Harley Davidson e ruote cromate, domatore di mostri, conoscente e figlio di Dei, mago degli effetti speciali. Uno pieno di fans, un eroe mediatico grande, le cui gesta percorrono il mondo, che salvò da morte sicura una donna d’esotico volto, fragile statua di marmo, un gran macho che ardì raccoglierne la bellezza nell’incunabolo delle sue larghissime mani.
Tu, gaucho dei cieli, mio figlio, in groppa al cavallo di piume tornasti da me, subito dopo l’impresa, con lei, la bella, l’Urì nera, sogno di pietra, su cui ammaccasti la tua voglia d’onori.
Che dire ad un figlio lontano?
Che ho saputo di te dagli squali di Jaffa.
Raccontarono a lungo la storia del mostro del Mare che voleva Andromeda, vergine di spuma pura, per placare la sua sete di uomini.
Raccontarono a lungo di te, ammaliante San Giorgio, splendente nel cielo, che compivi il miracolo arcano dell’uccisione del satanico drago.
Compiaciuti, sfregandosi molto le mani, ricordarono anche che le azioni della banca di Cefeo,il re, salirono fino alle stelle, quando portasti la vergine intatta con te per farne tua sposa!
Non sapevano che dopo tornasti da me, uccidendo, da distruttore qual sei, Polidette, che fu l’unico uomo fra tutti gentile con questa tua madre sfuggente.
Cosa credi che, forse, invece, mi fosse importato poi tanto quando a Larissa per sbaglio - così almeno dissero tutti! - col disco, mio padre, tuo nonno hai ucciso, durante la gara?
Finsi - è vero ! -sgomento e t’esortai ad andare a Micene, scambiando il trono e la terra con Metapente, il cugino di letto, facendoti credere che gli Argivi non t’avrebbero voluto, poiché eri l’uccisore del re.
Credevo che, tornando da sola, insieme a un estraneo,il popolo m’avrebbe acclamato prima donna del regno, ed io, senza più pregiudizi o paure, avrei governato con saggezza e materna virtù.
Il mattino del giorno arrivai in testa al corteo, col cavallo biondo di pelo, indorata regina, uno sfolgorio nel sole, io, la scelta da Zeus.
S’inchinarono tutti davanti al nuovo sovrano, guardando sottecchi la straniera gitana che era con lui.


NON UNO, NON UNO capì chi io fossi.
D’altro canto, appena bambina, mio padre mi rinchiuse nel chiostro con la vecchia nutrice.
NON UNO avrebbe mai potuto vedermi.

Giocavo solo con bambole vestite da suora. Una vecchia sdentata mi parlava del mondo ed io, usignolo solitario, cercavo i sentieri fioriti di là del muro di malta.
Il mio sangue bolliva, impotente di rabbia, di fiamme rosate che arroventavano le passioni del cuore.
Acrisio, mio padre, tenne lontano da me ogni sforzo d’amore, il suo e l’altrui.
Gabriele, anche lui, per Maria, fu come una sagoma d’ombra, onirico messaggero d’ un amore divino?
Forse, fra tutte, noi prede di un Dio, solo lei, però, lo perse nel sangue.
No, non è vero.
Tutte noi lo perdemmo o nel sangue, o nell’onta o in una sorte da comparse.
Tuo padre, non so quale sogno fu, tra i tanti che s’agitarono a lungo, sospesi ai trapezi del cuore notturno.
Mi svegliai un mattino,appagata da un dolore di luce.
Chi può dire d’averlo mai visto?
Don Giovani divino, inondò col suo seme il mio corpo passivo, in un dormiveglia d’eternità.
Inutile, adesso, che racconti quelle immagini bianche e i percorsi sospesi dietro ai miei occhi, a quell’uomo che viene ogni giorno- lo so che sei tu a mandarlo!-
a quel medico, interessato soltanto ad aprire il mio cuore, per cercarci le onde riflesse del Sole del Dio, a quel…. quel Freud !
Non c’è medicina di uomo che tenga davanti al mistero o all’inconscio.
Per questo sei nato.
Per essere figlio divino, ma non voluto da un uomo. Ce ne sono a migliaia. Non sei unico, Tu!, come hai sempre creduto: di illustri bastardi è piena la storia!
L’avventura di quel delittuoso container dove Acrisio rinchiuse te e me, affidandoci al mare, fu un trauma d’orrore.
Gemevi di freddo, ed io ti cullavo, senza sapere che saresti diventato chi sei.
Non lo seppe nemmeno Giulia Farnese d’allevare il Valentino, il terribile duca, il figlio del Borgia, che mise a fuoco l’Italia.
Avevi riccioli colmi di sospiri di vento ed io ti amavo con cuore di tigre.
Il giorno e l’isola ci accolsero, poi, come la figlia del Faraone, Mosè; come la Lupa, Romolo e Remo.
Polidette, quel re d’altre acque, m’amò.
Tu ne eri geloso.
Crescevi, bellissimo e torvo, un principe ombroso nel palazzo con me.
Volevi di più.
Non ha mai limite, chi, come te, sceglie d’andare.
Non ti fui mai molto vicina - lo so - nei giorni della tua adolescenza inquieta.
Lavoravo a palazzo, col re, sua segretaria privata.
Lo facevo per te, perché potessi goderti il meglio di tutto.
Te ne andasti a cercare il tuo mostro, che eri solo un ragazzo insolente per gli anni e per il sangue aggrumato della tua essenza divina.
Tornasti, uccidesti Polidette con lo sguardo della testa mozzata del mostro, che divenne il tuo sguardo.
Trascinasti con te la tua sposa e tua madre, benché non volessi.
Stasera, lasciati gli onori della corte di Argo, ti scrivo per ricordarti che nessun cielo o campo mi metterà le catene.
Tornerò al mio chiostro.
Non scriverà un ennesimo uomo col suo gesso una storia non sua.
Addio, Perseo, non cercarmi.
Non scrivermi lettere col sigillo del re.
M’eclisso nel silenzio di gelsomino e di limone della mia antica prigione.
Goditi Andromeda, che ha imparato ad annuire da donna.
Tornerò dal mio Dio, farò donazioni al convento per tutte coloro che, fuggendo da un uomo, cercheranno il riposo muschioso della casa di un nume.
Almeno fino a che voi uomini avrete il potere!

DANAE, tua madre.


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