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In famiglia
RAB - 30-04-2004



In Italia ai 2,5 milioni di famiglie povere si aggiungono altri 2,4 milioni di nuclei a rischio. Aumentano divorzi e single, in crescita le nascite. Le stime dell’Eurispes in un convegno a Torino di Federcasalinghe e Provincia.


In Italia oltre alle tradizionali 2milioni 500mila famiglie povere (pari a circa 8 milioni di soggetti), contabilizzate dalla statistica ufficiale, occorre aggiungere altri 2milioni 400mila nuclei familiari a rischio povertà (corrispondenti a 7milioni e mezzo di persone). E’ quanto stimato dall’Eurispes, utilizzando i parametri riferiti alle fasce di reddito, in merito al numero di famiglie italiane che sono seriamente a rischio povertà. Non solo: secondo l’istituto di ricerca il quadro si fa ancora più drammatico se si pensa che, tra le famiglie povere, nel 2002, il 33,3% delle famiglie monogenitoriali, il 21,1% delle coppie con due figli, il 33,9% delle coppie con 3 o più figli, non hanno avuto, spesso o qualche volta, i soldi per comprare cibo necessario, per pagare le bollette per l’abitazione (luce, gas, telefono, ecc.) o per sostenere spese per cure mediche.
I dati, preoccupanti, sono contenuti all’interno del dossier dal titolo Le famiglie italiane tra crisi, bisogni e nuove tendenze demografiche, illustrato oggi a Torino, in occasione del convegno relativo alla presentazione del primo rapporto sui servizi di informazione alla famiglia e monitoraggio dei bisogni, promosso da Donneuropee-Federcasalinghe e Provincia di Torino.
Nella stessa occasione viene presentata una ricerca sulle nuove richieste di servizi dei nuclei familiari, curata da Fita-Confindustria e un’analisi sui servizi già operativi completata da Sint. Federcasalinghe, che sta organizzando la propria trasformazione verso una Holding di supporto alle donne e anche alla famiglia nelle loro difficoltà quotidiane, intende con l’analisi di questi studi diversi, ma sinergici, porre le basi di una forte strategia sociale, culturale e politica.
Nell’occasione, presentati anche gli strumenti informativi, dedicati alle famiglie già attivi e operanti su tutto il territorio nazionale. Ma torniamo allo studio sulle famiglie, realizzato dall’Eurispes.

La ricerca non tralascia aspetti che evidenziano il cambiamento della famiglia nel corso degli anni. Lo studio rileva che se dovessero risultare corrette le ultime previsioni delle Nazioni Unite, in Italia nel quinquennio 2045-2050 il tasso di fecondità totale dovrà essere di 4,2 figli per donna nell’ipotesi media, e questo per poter assicurare una popolazione costante ossia una popolazione a crescita zero. Ma, si evidenzia, “una crescita della fecondità che porti in tempi così ridotti a triplicare i livelli di fecondità attuale è da considerare un evento assai improbabile”. E questo anche se la serie storica delle nascite della popolazione residente mostra come, a partire dal 1998, ci sia stata una leggera crescita nelle nascite: da 532.843 unità si è raggiunta la quota di 538.198 secondo i dati del 2002. Il confronto tra il numero di figli per donna all’interno di un più vasto arco temporale, in particolare quello tra gli anni 1960 e 1995, mostra un forte calo delle nascite in tutte le zone di Italia, al Nord, al Centro e al Sud. Le famiglie più numerose continuano a vivere al Sud mentre quelle costituite da padre, madre e figlio si concentrano nel Centro e nel Nord-Italia.
Se si analizza l’andamento del tasso di fecondità totale per regione, si osserva come le regioni più prolifiche risultino essere quelle del Sud: la Campania ha un Tft pari a 1,49; la Sicilia pari a 1,42. Unica regione del Nord che si discosta dall’andamento atteso è il Trentino Alto Adige che ha un tasso di fecondità totale pari a 1,47. In Sardegna, Liguria e Abruzzo si registrano i livelli più bassi: 1,04 nella prima, 1,11 in Liguria e 1,15 in Abruzzo.

Altro aspetto studiato: l’andamento del matrimonio. In Italia il numero dei matrimoni risulta essere in forte diminuzione: a partire dalla fine degli anni Ottanta in cui si è raggiunto il numero più elevato delle celebrazioni – 321.272 nel 1989 – si sono registrati sempre meno eventi tanto che nel 2002 i matrimoni celebrati sono stati pari a 265.635, l’unica eccezione nell’andamento decrescente si è verificata nel 2000 con 280.488 riti celebrati. Il numero dei matrimoni religiosi risulta essere nettamente superiore a quello dei matrimoni civili (con un rapporto di tre a uno), anche se la percentuale di tali celebrazioni è costantemente diminuita dal 1986 ad oggi: nel 1986, infatti, la percentuale di matrimoni religiosi sul totale delle unioni registrate era pari all’85,8% mentre nel 2000 era pari al 75,6%.
Ci si sposa di meno, ma anche più tardi. L’età media delle donne al primo matrimonio risulta avere un andamento non costante anche se, a partire dalla metà degli anni Settanta, risulta essersi alzata: nel 2000 le donne si sposavano, in media, a 26,5 anni ossia quasi tre anni in ritardo rispetto a quanto avveniva mediamente nel corso degli anni Settanta.
Le forti asimmetrie delle coppie in termini di età, di livello di istruzione, di status economico sono decisamente mutate: gli uomini e le donne hanno raggiunto un livello di parità, le scelte dei singoli non dipendono più dal loro sesso. Dal 1969 al 1998 la percentuale delle coppie in cui le donne hanno un livello di istruzione più elevato dei loro partner è cresciuta dal 10% ad oltre il 20%. Nella maggioranza delle coppie, il 65% circa, i due membri della coppia hanno la stessa istruzione.
Inoltre, ogni unione coniugale ha un inizio, una durata ed una fine. Lo scioglimento del legame ha una grandissima rilevanza sociale e sul piano dell’incidenza nella dinamica demografica. Nella nostra legislazione il divorzio è stato reso legittimo solo nel 1970, anno in cui sono state riconosciute le nuove unioni che prima non avevano valore legale. Lo scioglimento del legame matrimoniale consta di due momenti: la separazione seguita dal divorzio. Il numero delle separazioni e dei divorzi è cresciuto molto dall’inizio degli anni Novanta ad oggi: da 44.018 separazioni nel 1990 si è raggiunta la quota di 75.890 nel 2001. Mentre i divorzi, con un andamento non lineare, sono passati da 27.682 a 40.051, aumentando di oltre 12.000 unità.
Infine, la famiglia di ieri e quella di oggi. Dal 1951 ad oggi il numero delle famiglie in Italia è cresciuto di quasi dieci milioni di unità: nel 1951 si avevano, infatti, 11.814.402 famiglie mentre nel 2001 ben 21.810.676; la crescita è costante, circa due milioni di unità ogni dieci anni. L’analisi della distribuzione delle famiglie per ripartizione geografica evidenzia una crescita omogenea nelle diverse aree del Paese. Vi è una prevalenza di nuclei familiari nella zona nord-occidentale dell’Italia dove nel 2001 vi erano 6.217.200 unità. Nell’Italia meridionale, invece, ci sono, nello stesso anno, 4.748.274 unità.
Come era prevedibile, però, le famiglie del Nord sono meno numerose: 2,4-2,5 componenti in media per nucleo, mentre al Sud si è prossimi ai tre componenti in media. In Italia si è passati dai 3,9 componenti nel 1951 ai 2,5 nel 2001. I dati evidenziano una realtà in continuo mutamento: le famiglie crescono in valore assoluto ma diminuiscono per numero dei componenti. Se analizziamo nello specifico la distribuzione percentuale delle famiglie per numero medio di componenti, infatti, possiamo notare come dal 1961 al 2000 si è riscontrato un consistente aumento delle famiglie costituite da persone sole; nel quarantennio considerato, infatti, la loro prevalenza è più che raddoppiata passando dal 10,6% al 24,9%.

Ma torniamo ad un problema senpre più impellente, quello della povertà delle famiglie. Afferma il presidente dell’istituto di ricerca, Gian Maria fara: “La ridefinizione dei meccanismi di protezione e assistenziali in un modello welfaristico che sta divenendo sempre più residuale e selettivo, in una fase di congiuntura negativa, sta assumendo contorni piuttosto complessi e di difficile regolazione. Lo spettro della povertà– così come emerge dai dati - si sta allargando e le cause sono molteplici: lo smantellamento progressivo del Welfare, la caduta verticale della qualità dei servizi – dalla sanità ai trasporti –, la trasformazione del mercato del lavoro che impone un nuovo darwinismo sociale, l’impoverimento dei ceti medi costretti, per la prima volta dopo decenni, a difendersi dal pericolo di una incalzante proletarizzazione ”.
Il dossier dell’Eurispes evidenzia che l’Italia dedica appena lo 0,9% della ricchezza nazionale alle politiche familiari. Tutti gli altri Paesi dell’Unione a 15 spendono molto di più per la famiglia, a partire dal Portogallo e dai Paesi Bassi che destinano l’1,2% del loro Pil alle politiche familiari. Seguono (in ordine crescente): Irlanda 1,9%, Grecia 2,1%, Regno Unito 2,4%, Belgio 2,6%, Austria 2,9%, Francia e Germania 3%, Lussemburgo e Finlandia 3,4%, Svezia 3,5%, Danimarca 3,8%. L’Italia, evidenzia l’Eurispes, è pertanto abbondantemente al di sotto della media dell’Unione Europea, che è pari al 2,3%. Solo la Spagna sta peggio con lo 0,4% del Pil.
La difficoltà delle famiglie italiane a concepire figli (il tasso di fecondità medio per la donna italiana è pari a 1,2: il più basso d’Europa) a causa degli scogli economici e della latitanza delle politiche a sostegno della famiglia. La Francia invece spendendo il 3% del Pil della politica familiare, pari a 80 miliardi di euro, può permettersi il più elevato tasso di fecondità, con 1,9 bambini per donna.










Le famiglie italiane secondo l'Eurispes. Sussidi inadeguati e ''rilevante carenza'' dei servizi per la prima infanzia: asili privati coprono un quinto della domanda; un terzo dei bambini italiani in lista di attesa


Ancora dati estrapolati dalla ricerca Eurispes su “Le famiglie italiane tra crisi, bisogni e nuove tendenze demografiche”, presentato a Torino nel corso del convegno promosso da Donneuropee-Federcasalinghe e Provincia.

Uno dei principali strumenti a sostegno della famiglia, viene ricordato, è di natura fiscale. Il sistema fiscale italiano prevede infatti diverse misure di detrazioni Irpef per familiari a carico, in relazione al reddito del contribuente e al numero dei figli. I familiari sono considerati a carico se il loro reddito complessivo è inferiore ai 2.850,41 euro. “I sussidi monetari, attualmente in vigore a sostegno delle famiglie, appaiono del tutto inadeguati al mantenimento dei figli
– precisa l’Eurispes -: l’arrivo del primo figlio comporta mediamente una diminuzione del reddito a disposizione tra il 18% e il 45% ed una spesa aggiuntiva compresa tra i 500 e gli 800 euro mensili, variabili in relazione all’età e alla collocazione geografica.
È plausibile pensare
– continua - che laddove le condizioni legate alla collocazione geografica, allo stato occupazionale e alla dimensione familiare si sommano negativamente, la probabilità di trovarsi in una situazione di indigenza economica assuma contorni drammatici: basti osservare che mentre nelle regioni settentrionali la povertà interessa l’11,6% delle famiglie con cinque o più componenti, nel Mezzogiorno, a parità di dimensione familiare, la percentuale sale vertiginosamente, raggiungendo il 32,4%”.

Anche sul fronte del sostegno al costo dei figli e alle madri lavoratrici, la ricerca evidenzia come l’talia si caratterizzi per una “rilevante carenza” dei servizi per la prima infanzia. È possibile osservare, infatti, come i servizi privati coprano, a livello nazionale, oltre un quinto dell’offerta complessiva: 604 asili su 3.008 sono infatti di tipo privato. In alcune regioni e province autonome, l’incidenza del privato sul complesso degli asili nido è particolarmente rilevante, come nella provincia autonoma di Bolzano (43,7%), e in Veneto (52,2%), Campania (52,9%), e Calabria (45%).

L’insufficienza di strutture sostenute da risorse pubbliche – si rileva nello studio - può essere solo parzialmente compensata dalla presenza di asili nido privati. L’elevato costo dei servizi di tipo privato impedisce infatti di considerarli una valida alternativa. Inoltre, la percentuale di domande d’iscrizione agli asili nido, pubblici e privati, rimaste inaccolte è molto elevata, anche nei territori caratterizzati da una maggiore presenza di servizi privati”.

Infatti, un terzo dei bambini italiani è in lista di attesa per entrare in un asilo nido: si tratta del 32% delle domande di iscrizione che risultano in stand-bay. Le maggiori carenze si riscontrano in Trentino Alto Adige, dove la percentuale sfiora il 60%, in Liguria (55,8%), e in Valle d’Aosta che, con il 51,7% di domande inaccolte, chiude il gruppo di regioni in cui la percentuale di bambini che attendono di andare all’asilo supera quella delle domande accolte. Il tasso di copertura degli asili nido è inferiore alla media anche in Veneto (dove la percentuale di domande accolte è pari al 58,5%), Friuli Venezia Giulia 62,2%, Lazio 63,5%, Toscana 65,1% e Sardegna 66,3%.
L’incertezza e la precarietà dell’odierno mercato del lavoro, l’individualizzazione spinta delle traiettorie lavorative, il valore attribuito al successo professionale, l’impossibilità quasi di ottenere un flusso di reddito da lavoro costante in grado di progettare un futuro pensionistico solido, l’innalzamento del numero delle separazioni e dei divorzi, - afferma il presidente Fara - hanno generato un fortissimo sentimento di insicurezza materiale, che sta investendo anche donne e madri di famiglia che hanno sinora goduto di uno status socioeconomico elevato”.

La multidimensionalità dei bisogni familiari è anche di tipo culturale. Non esistono soltanto i bisogni primari; la necessità di mantenere uno status sociale e di fruire di quote crescenti di consumi culturali in una società basata sulla conoscenza e sull’informazione rappresentano elementi centrali ai fini della comprensione della complessità dei bisogni della famiglia di oggi.
In questo senso, marginalità è oggi, anche l'impossibilità di soddisfare quei bisogni umani indotti dal sistema socio-culturale e dall'organizzazione consumistica. Per questo, tra i vari criteri di valutazione del benessere economico delle famiglie, l’Eurispes comprende quelli che riescono a misurare meglio la maggiore o minore inclusione/esclusione dei nuclei familiari nel sistema sociale complessivo. “Questo significa – evidenzia l’istituto di ricerca - anche rimarcare con forza il carattere processuale, multiplo e complesso della povertà oggi in Italia, il suo consistere non sempre in situazioni di mera carenza materiale ed economica. Un fenomeno, quello della povertà, che necessita, quindi, di una nuova definizione, perché si origina e si sostanzia sempre più in percorsi di esclusione/emarginazione rispetto a opportunità decisive nel contesto odierno, come la fruizione di servizi educativi, socio-sanitari, scolastici e universitari”.

Conclude Fara: “Il bisogno di continuare ad assicurare una dignità di esistenza e una tutela a chi non è più autosufficiente all’interno del nucleo familiare, la necessità di assicurare elevati standard formativi ai propri figli in un mercato del lavoro sempre più selettivo e competitivo, l’obiettivo di proteggere la sicurezza e l’equilibrio psicologico dei bambini e degli adolescenti a fronte dei rischi dovuti all’uso delle nuove tecnologie dell’informazione, devono entrare obbligatoriamente all’interno di una nuova mappa dei diritti e dei doveri della famiglia”.
















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