L'Aquila, (seconda parte)
Annalisa Rossi - 28-04-2004
- “Sciur diretur, l’è masch” (11) - gli disse il dottore ( “Ma da quando si fa venire il dottore, per una faccenda di donne?”- diceva intanto la Genta, di sotto)
- “ Sua fumna a l’à dime ch’a völ ciamelu cun en nom da baraba” (12) - scandalizzò il prevosto, in fretta accorso( i bambini si battezzavano subito, perché tanti ne morivano in fasce. Lui intanto pensava ai suoi tutti marciti in terra africana: di sicuro all’inferno del preive (13), perché mai battezzati!)
Girandosi, Francesco lo fulminò cogl’occhi. Aveva ancora dei lampi efficaci. Si ritrasse il prevosto.
Dolores entrò col bambino dicendo “La mamma lo vuole chiamare Raoul, come il suo fratello defunto.”.
“ E sia” - annuì Francesco, irridendo il prevosto.
Fu in Municipio che non gli accettarono il nome perché era straniero . Così il piccolo fu Raoul in Chiesa e Antonio al Comune. Che beffa! Francesco, da buon romagnolo, aveva sempre amato le beffe!
E anche adesso, che vedeva sua figlia, la Ada, che s’era poi laureata, dopo la guerra e insegnava alle Medie, che non s’era mai fatta suora, ma camminava ingrugnita - gli pareva una beffa: Una beffa a quel dio- boia d’un mondo! ( perché boia d’un cane!, non l’avrebbe mai detto! ) che gli aveva giocato così tanti tiri mancini.
Ada si fermò e bussò ai vetri “ Non vieni a casa a mangiare?”. “No, resto. Ho da fare. Dì a tua madre che vengo alle quattro per il caffè!”
Francesco la vide annuire e riprendere il passo.
Non andava più a casa per pranzo, da quando Giacobbe era morto
Si massaggiò la nuca là dove il rostro durissimo del pappagallo l’aveva incrinata e quei cretini dei medici dell’ Ospedale per prima cosa avevano ucciso l’uccello, ancora col becco piantato ben dentro alle ossa del cranio, che era soltanto impaurito.
All’Ospedale in sei l’ avevan portato: la Pina che urlava; Oreste il meccanico delle lambrette che aveva messo l’Ape; suo figlio, che teneva ferme le ali all’uccello; la Genta che gli asciugava il sangue che gli colava nel collo con duemila Madonne, mentre Ada, agganciava il telone dell’Ape - perché come sempre pioveva - e poi si sedeva davanti, vicino all’Oreste. Nessuno riuscì mai a capire come fece il piccolo Franco - il figlio del General Rota, che stava nell’alloggio lì sopra - a salire anche lui su quell’Ape.
Così finì Giacobbe con un colpo alla nuca , infante, di sessantatre anni. Francesco se la cavò con trentasei punti in testa e un altro sogno morto in braccio. La Pina fece caffè per tre giorni.
La Genta sostenne che tanto più matto non poteva diventare.
Giachino veniva ogni giorno, da bravo sergente, a portare i dispacci a firmare al sciur diretur.
Fu in quei giorni d’oblio che Francesco sognò l’aquila napoletana. Fu allora che prese forma il suo piano. Fu allora che ricordò la promessa.
Dopo tre giorni s’alzò. La suora l’aveva detto alla Pina : “ Con un colpo alla testa così, non si può dire: ci voglion tre giorni. O va o sta! “
Francesco s’alzò, urlò di caffè e canarini, chiamò a sé i cani, mise in moto le donne.
La Genta da sotto commentò dignitosa: “ L’è sempe sta mat, d’ pi, a ven nen!” (14).
Boglione, il padrone di una conceria , con cui ogni tanto Francesco parlava di fotografie (perché fin dalla Libia amava quest’arte e nel grande alloggio di Bra aveva allestito una camera oscura: scattava e sviluppava da solo. Fotografava, ovviamente, solo i cani e gli uccelli. Una volta la Pina da giovane, una volta tutti i suoi figli) venne a trovarlo.
Fumarono a lungo profumati toscani. Al Boglione sembrava di essere fuori dal tempo. A Francesco di non essere vivo. L’indomani andò a lavorare.
Scoprì dai giornali che avevano aperto un processo in quel di Norimberga ai gerarchi nazisti.
La notizia lo lasciò indifferente. Quando, invece, aveva letto di piazzale Loreto a Milano, aveva provato pietà per Claretta. Aveva sempre pietà per i deboli, lui.
Arrivò come un turbine all’Ufficio Postale.
“ A la sta mei, sciur diretur?” (15) gli chiese Giachino guardingo, a nome di tutti.
“ Ma certo! Ma certo! .Ci vuole ben altro a piegar uno come me!”
Annuirono tutti, un po’ compiaciuti di lavorare per un così incredibile uomo: anche loro rivivevano nell’aura di lui.
Controllò ogni cosa. L’esperienza e gli anni gli consentirono di fare più in fretta.
Si rinchiuse in ufficio. Studiò la piantina del Comune di Bra e decise per la salita degli Orti: un punto un po’ in alto, sufficientemente a strapiombo, ma con dentro, per forza, un ciabot
“ Giachino!”- tuonò.
Il malcapitato, che nell’ultima settimana d’assenza del sciur diretur (16), s’era appropriato di quattro sacchi di Coke, tremò al pensiero che lui, il direttore - che nemmeno ‘sta bottazza alla testa aveva ammazzato! - li avesse contati ‘sti pezzi di Coke ed ora chiamava a rapporto.
Quell’aprile ancor si gelava. Pioveva. Giachino entrò nell’ufficio smanicato, grondante sudore e paura.
Da dietro la scrivania, lo sciur si girò, vestito di nero, la benda alla testa ancora intrisa di sangue, un buon metro e ottanta d’altezza, gl’ occhi che mandavano lampi. Giachino tremò, sicuro che questa volta l’avrebbe mangiato. Ma Francesco sorrise e gli disse, quasi mellifluo:” Voglio un utin sulla salita degl’ Orti, con un ciabutin. Lo compro. Subito. Vai!”
Giachino richiuse la porta. Sentì per la prima volta nella sua vita un freddo tremendo. Si mise il pastrano. Uscì in silenzio, benedicendo il signore. S’incamminò in via San Rocco. Raggiunse via Umberto. Salì verso la Croce.
Tornò, però, subito indietro in Via Vittorio. Gli era venuto un lampo di genio. Giorni prima al mercato qualcuno diceva che Magliano della ferramenta voleva disfarsi d’ un pezzo di terra - ma ch’a valia mica gnente! (16) - abbarbicato com’era in mezzo ai roveti, là su, sopra il Piroletto.
Giachino, arrivato alla porta della ferramenta, si fermò un poco incerto. E se era una storia? Il vecchio Magliano, sanguigno com’era, l’avrebbe mangiato anche lui!
Tra i due mali scelse il minore. Entrò e, rispettoso, chiese al vecchio canuto e curvo, al di là del bancone, del pezzo di terra.” Te, i soldi, mica ce li hai, Giachino!”- lo irrise il Magliano.
“Ah!, mica parlo per me E’ lo sciur diretur che lo vuole!”
A Magliano luccicarono gl’occhi.. “Digli che venga, che ne parliamo!”.
Fu uno scontro di Titani. Giachino assistette, senza forze, in un angolo, dentro il buio negozio.
Si lasciarono a sera, Francesco e il Magliano, con una stretta di mano, dopo mille scintille.
Zavattaro, il notaio, ratificò l’atto, scuotendo la testa e pensando “A sun tüti mat, propî mat!!!” (17)
I soldi passaron di mano davanti al notaio, rigorosamente in contanti.
Francesco, radioso, s’arrampicò, il giorno stesso, fin su, da dietro, arrivandoci da sopra al Balau.
AH! , un vero nido d’uccello. Non un rumore. Limpidissimo il cielo.
Cominciò a ripulire le erbacce e i roveti. Alla sera era stanco. Faticò a ritornare. Ci vollero almeno quattro caffè della Pina a rimetterlo in sesto.
Il giorno dopo convocò in ufficio Giachino, a gran voce: ”Va a reclutarmi qualcuno che m’aiuti all’utin!”. Giachino obbedì. Un mese dopo - e dieci pappagallini del Madagascar in meno - Francesco prese pieno possesso del ciabot e della terra. Tre mesi dopo, cioè sei mesi prima d’adesso, fu informato dal figlio di Boglione, il Giovanni ingegnere, che a Torino, nella Gran Biblioteca, si potevan vedere i disegni del grande Leonardo.
Telefonò a suo figlio Vittorio. Lo spaventò a morte. Erano anni che non gli scriveva ed ora si serviva di quel mezzo moderno solo per dirgli che sarebbe stato a Torino da lui due o tre giorni!
Partì, solo, in treno, in un mattino nebbioso dell’ottobre del millenovecentoquarantanove, dopo aver bevuto una cuccuma intera del caffè della Pina.
Il suo figlio più piccolo aveva lasciato quell’anno il Liceo, per andare a fare il “cronista alla radio”. Che andasse!, il cretino! Francesco cominciava a stancarsi del mondo.
Arrivò a Porta Nuova. Erano anni che non vedeva così tanta gente. Si perse in mezzo alla folla: almeno qui nessuno lo guardava perché portava un paltò anziché un tabarro!
Lì vicino c’era subito via Della Rocca. S’orientò in fretta, lui che il mondo l’aveva girato.
Suonò. Venne ad aprirgli sua nuora : quella gelida donna alta, la fronte aggrumata in eterni pensieri di beneficenza. “Sta bene, signore?”. “Papà - la corresse Francesco -”o, meglio, se vuoi, anche babbo!”
“Ma neh?, che stranezza?- lei gli rispose, cantilenando la frase- Siam parenti, eppure non ci conosciamo.” Francesco - la colpa era sua - non parlò.
Entrò, un poco a disagio nell’attico pieno di fiori. Almeno aveva buon gusto, sua nuora!
Suo figlio, tutto ben impomatato, lo fece sedere.
“ Devo subito andare- disse, adagio, Francesco - “Tornerò per la cena”.
“Ma, babbo, sei appena arrivato! Un caffè?”
“ No. Lo sai che prendo solo il caffè di tua madre!”.
“T’accompagno - che diamine! - . Ho giusto qui sotto la mia topolino”- s’offrì, premuroso,Vittorio.
Francesco, angosciato, s’alzò, quasi di scatto.
“No, no. Ti ringrazio, ma devo andare vicino!”.
Lei, la ricca borghese, lo guardò di traverso, un po’ sospettosa.
“ Te la sistemo io la roba, allora, babbo. O meglio, lo farà la Michela!”.
“Ah! Sì, grazie. Ma non darti disturbo, tornerò per la cena”
Scese di corsa le scale, e poi via, alla Gran Biblioteca. Sapeva la via, gliela aveva spiegata bene il Giovanni Boglione, ingegnere.
“Torino è una grande città”- pensò svelto Francesco, mentre quasi correva per via Carlo Alberto.
E poi ci fu solo l’emozione dei libri.
Lui era sempre stato convinto che i libri parlasser tra loro, di notte, raccontandosi insieme le storie di tutti. Là, nel silenzio dell’antro grigio, si fermò, reverente, come in un tempio.
“Signore! La posso aiutare?”- domandò assai gentilmente un ragazzo.
“Sì, grazie. Vorrei vedere i disegni del grande Leonardo. Sa quelli sull’ala!”
“Oh! Certo! Li abbiamo solo fino alla fine del mese.”
Seguendolo dentro il sancta sanctorum , Francesco si chiese come non facesse quel giovane a non sentirsi schiacciato dal peso di così tanta sapienza.
Arrivarono dentro una piccola stanza, con un tavolo e lampade strane.
“Li può consultar solo qui, dove c’è questa luce speciale. Allora che le porto?”
“Solo quelli sull’ala!”
Seguitò a copiar per tre giorni, zitto del suo segreto copiare, la sera, a cena, con quei due. Fu vago.
“Pratiche qui, in direzion regionale”.
“Ho cercato un collegio per Raoul, che vuole abbandonare la scuola.”
Ritornò col cervello in poltiglia per tutte quelle menzogne.
Ritornò coi regali di Laura e Vittorio per la Pina, per Ada e per Raoul, che furono aperti con gran gridolini. “Oh, mio dio! Un profumo francese!”. “Un paio di calze di seta!”. “Un portafoglio di pelle!”.
Lui zitto. Carezzò uno ad uno i suoi cani dal muso prognato. Spazzolò loro i peli. Pulì i canarini. Dormì come un ghiro. Il giorno dopo era domenica. Partì con grandi cartelle, con dentro i disegni, Cavour alle costole. S’arrampicò fino all’utin. L’inverno non lo spaventava. Anzi sognava di essere l’aquila napoletana, finalmente libera, nel suo nido elevato, e , al di sotto, un mondo di nebbia.
La Pina gli aveva preparato frittelle di zucca e torta di mele: da un po’ d’anni si trovava di nuovo di tutto!
Cavour avrebbe mangiato del pane raffermo, aveva ingiunto la Pina: i cani e gli uccelli costavano come un’intera famiglia.
Cavour mangiò le frittelle, Francesco la torta: il pane raffermo fu sbriciolato per i passeri, fuori al ciabot.
Francesco quel giorno studiò bene i disegni. L’ala, per sollevare un uomo di sessantotto chili, avrebbe dovuto misurare almeno 12 metri, ammesso che il peso totale non avesse superato quello del doppio dell’uomo: quindi anche lei al massimo doveva arrivare a sessantotto chili. Francesco doveva perderne almeno sei.
Come un rapace - ah! i falchetti della sua infanzia! - Leonardo le aveva pensate fisse le sue ali, perché veleggiassero in su alle correnti. Il pilota sarebbe stato, invece, appeso, sotto l’ala fissa, controllabile con delle funi.
Francesco si rilassò: due cose gli restavan da fare, studiare i materiali e trovare l’aquila.
Tornò più tardi, mezzo congelato. Ci vollero otto caffè della Pina per fargli riprender colore.
L’inverno, però, lo fermò. Morì Cavour in febbraio, tossendo sangue.
Francesco lo seppellì con Dulcinea e gli altri due nel giardino di Giachino. Piantò su di lui un glicine viola, procurato dalla madama Genta.
Arrivarono, finalmente, alle due, gli impiegati. Francesco sentì la via rianimarsi un poco. Guardò fuori e s’accorse che il sole era finalmente spuntato. La bella stagione sarebbe arrivata presto.
Quel giorno tornò a casa allegro. Bevve il caffè alla vaniglia alle quattro in punto, ma rifiutò i biscottini al cacao che gli piacevano tanto. Aveva deciso di cominciar la sua dieta.
Le donne si guardarono, costernate. Quattro giorni dopo madama Genta sentenziò che à smiava nen pusibile, ma ün mat, a pudia mni ancu pi mat (18)
Di nascosto Ada fece venire il prevosto a benedire la casa, e, poi l’Ufficio Postale, dopo aver concordato con Giachino, un’azione notturna.
Niente da fare, quel diavolaccio che s’era impadronito di suo padre, non se ne andava, anche se tutti ‘sti chilometri che faceva ogni giorno, a piedi o di corsa – quell’ armamentario d’un vecchio! -, lo rendevano sempre più giovanile d’aspetto.
“A smia pì bel - commentò la Genta -Ma l’è mac pì mat!” (19)
A metà maggio si presentò in Ufficio il Tonio Fissore, cercando il monsu.
Adesso a Francesco non mancava che l’aquila. Stava sveglio di notte a pensarci.
Ci voleva soltanto un miracolo.
A Tonio disegnò un trespolo grande da costruire.
Alla fedelissima postina Teresa fece fare incetta di garze al mercato. Gli servivan per l’ala.
Tonio, che voleva portare a termine in fretta il lavoro, perché cominciavano le feste di piazza, consegnò a metà giugno.
Giachino e Oreste con l’Ape trasportarono tutto all’utin (l’ultimo pezzo lo fecero a braccia), dopo solenne giuramento di non farne parola a nessuno e , meno che mai, alla Pina o all’Ada.
Un amico di Giachino procurò i giunchi. Francesco a fine giugno raggiunse i sessantasette chili di muscoli nodosi.
Era assolutamente e totalmente felice.
Rimaneva, però, il problema dell’aquila.
Luglio passò con i cani, all’utin, a costruire l’ala.
Pina faceva caffè sempre più buoni a Giachino, che li prendeva, taceva e la notte non dormiva più.
Ada arrivò a cinque messe al giorno.
“ Ma che fa?”- chiese una sera a sua madre.
“Quien sabe?”- rispose la Pina. (20)
Si fecero, quella sera, tutta la cuccuma di caffè. Fu lì che decisero di dire tutto a madama Genta.
La sguinzagliarono come un segugio. Lei non le deluse.
Fu un mistero come corruppe il piccolo Franco Rota e come quest’ultimo convinse Francesco a portarlo una domenica, coi cani, all’utin.
Tornò, raccontando dell’ala, coperta da un telo enorme, comprato a carissimo prezzo dal Borri.
Madama Genta, costernata, ma questa volta davvero preoccupata, non disse niente a nessuno.
Comunicò la notizia alla Pina, assente l’Ada, sorseggiando il secondo caffè.
Quella sera la Pina aspettò, sveglia, Francesco. Alle finestre i canarini dormivano, mentre i cani, accaldati, cercavano un po’ di fresco di sotto l’androne.
Francesco arrivò alle dieci. Salì le scale con passo pesante. Aprì la porta.
La Pina accese la luce e lo squadrò furiosa. Francesco capì che sapeva.
Non si chiese nemmeno chi l’avesse tradito.
L’aggredì per primo: “Non è come pensi: è solo il capriccio d’un vecchio, che si diverte a reinventare e a realizzare i progetti degli altri. Lo sai come sono!”.
Lei si quietò per incanto. Gli fece il caffè. lui si sedette un po’ stanco. Lei lo guardò, poi gli disse: “Nessuno, neanche Dio, può farti un caffè come il mio!”.
Francesco si vide costretto a darle ragione.
S’ era a fine di luglio. Allora nessuno andava ancora in vacanza.
Di sera la gente, però, usciva sugl’usci o in mezzo alle piazze.
Francesco continuava a non sapere dove recuperare l‘uccello.
Ci voleva un miracolo.
E accadde:
Si presentò, un mattino di martedì dell’ultima settimana di luglio del millenovecentocinquanta, direttamente all’Ufficio Postale, con le sembianze del molto giovane, ma già assai rispettato, dottore Panero.
“Ca senta (21), monsu, son stato ier sera dal padrone del circo che è fermo a Cherasco, per vedere un bambino. Mi ha chiesto se m’intendevo anche di bestie, perché avevano in gabbia un uccello malato. Ho detto di no- mi sun en medic!, ma d’omini (22). Poi mi son ricordato che Giachino, una volta, m’ha detto che Voi conoscete bene gli uccelli. Chissà, se volete andare a vedere?”
Francesco partì in bicicletta alle due. Arrivò dopo l’Arco, a Cherasco, alle quindici giuste.
Si presentò come l’esperto d’uccelli del dottore Panero.
Lo accompagnarono in mezzo alle gabbie. Francesco non alzò mai gli occhi da terra: non voleva incontrare quegl’occhi dietro le sbarre. Era anarchico in cuore.
Arrivarono. Lui la vide. Capì subito che quella era un’aquila: malconcia, decisa a morire, molto più piccola di quella napoletana. Tremò come colpito.
Il padrone del circo pensava che stesse morendo, poiché non mangiava da giorni. Francesco s’offerse di cominciare a curarla, ma era essenziale portarla in un posto che a lui fosse comodo. “Può venirla a riprendere da qui a un mese, se sopravvive”- propose. L’uomo si disse d’accordo.
Il giorno dopo si fece imprestare l’Ape da Oreste e, tutto solo, andò a prender l’uccello.
Lo liberò, a trenta metri dall’utin, dopo avergli legato una zampa con un laccio di cuoio. Sugli occhi, già al circo, gli avevano messo un cappuccio di pelle.
Trascinarla al ciabot fu un’impresa tremenda. Ci impiegò più di due ore. Là, il trespolo pronto, la issò quasi a peso, le legò la striscia di pelle al bastone. Adagio gli tolse il cappuccio. L’uccello era molto prostrato. Cominciò con la carne tritata e pietrine.
Gli ci vollero quindici giorni perché si fidasse di lui. Non portò mai più i cani. In ufficio era quasi febbrile.
Giachino diceva che per star bene, stava bene e sembrava anche un po’ rinsavito: aveva cominciato a mangiare tutti i giorni la carne!
“Ma va?”.
“Vun mi tüti i dì, dal maslè” .(23)
Il giorno di ferragosto la Regina aprì le ali e sbatté un poco il becco, quando Francesco arrivò.
Tutte le sere Francesco la ritirava dentro al ciabot. Al mattino, prima di andare in Ufficio, la portava già fuori. Arrivava sempre in ritardo. La tota impiegata sosteneva che avesse un’amante.
Giachino negava: “Ma a l’à stantequtrani!” (24)
“E lu sai, ma a l’è ‘l monsu o nèn?”
(25)
Arrivò l’otto settembre. A Bra era festa. Tutti andavano al grande Santuario della Madonna dei Fiori, patrona di quella città.
Nello spazio adiacente alla Chiesa, nel campo di marte, bancarelle e giostre: un fiera di colori e di voci.
Ada e Pina, insieme alla Genta, partirono presto, eccitate. Francesco, prima che uscissero, le baciò entrambe. Salutò i cani e partì.
Era arrivato il gran giorno. In quella settimana aveva lasciato a Giachino una lettera da spedire a Vittorio: era il più vecchio dei figli e le tradizioni andavano ancora rispettate.
Gettò un occhiata al Pasch. Un vento leggero, non freddo, ma già un poco autunnale, scuoteva i platani antichi. In tanti lo salutarono dal Pasch ai Battuti Bianchi, la chiesa di mattoni rossi, secentesca, bellissima, che s’apriva, prima del Piroletto.
Salì con il solito pacchetto di carne, meditando che tra lui e la Signora, alla fine, solo quello sarebbe stato diverso. Francesco non mangiava mai carne.
Quando arrivò, la Regina gracchiò quel suo verso tra il rauco e l’acuto, ch’era il suo saluto.
Lui trascinò fuori il trespolo. Poi scoprì l’ala.
Con estrema fatica l’alzò. S’imbracò, con le gambe all’ingiù, com’era nel disegno del grande Leonardo. Prima aveva sciolto il laccio di pelle alla grande Signora.
“Andiamo”- le disse, invitandola da dietro la grata di giunchi, legati con garze.
La Regina stupì. Sbatté l’ale. Provò, timorosa, a distender gl’artigli. Lo guardò proprio dritto negl’occhi e, forse, vi colse l’invito
Francesco avanzò incespicando verso la rocca già immersa nel sole. Guardò su verso il cielo, e, muovendo le funi, con uno strido d’uccello felice, si slanciò nell’azzurro. La Regina non si fece pregare. S’alzò in volo a raggiunger quel “coso” sospeso.
Lo fissò allargando le ali. Ben ferma. Francesco aveva beccato una giusta corrente.
Volò qualche minuto con lei, che a lui sembrò eterno, prima di precipitare.



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NOTE

11.”Signor Direttore, è un maschio”
12. “ Sua moglie m’ha detto che vuole chiamarlo con un nome da senza Dio”
13.Prete
14. ”E’ sempre stato matto, di più non viene”
15. ”Sta meglio, Signor Direttore?”
16. "Signor Direttore”
17. ”Sono tutti matti, ma proprio tutti matti”
18. "Non sembrava possibile, ma uno matto poteva diventarlo ancora di più"
19. ”Sembra più bello, invece è solo più matto”
20. ” Che ne so” - spagnolo
21 ” Senta, signore….
22. -Io sono sì un medico, ma d’uomini!-
23. “Sono io che vado dal macellaio tutti i giorni”
24. ” Ma ha 74 anni”
25. ” Lo so ma è o no il Signor Direttore’”




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