Cittadinanza e appartenenza
Piero Di Marco - 20-09-2003
Tra tutti gli articoli comparsi su Fuoriregistro recentemente, compresi quelli che costituiscono lo speciale, il più determinate è quello di Giuseppe Aragno su cittadinanza e appartenenza - anche se è certamente il meno spettacolare, il più sommesso e apparentemente tutto interno alle vicende sindacali.

Il problema che pone Aragno è forse il più essenziale che sia dato nei tempi attuali della nostra esistenza, ancorché sia un problema antico e mai veramente risolto.
Lo è oggi più che mai, poiché oggi più che mai ciascuno di noi - cittadini e militanti politici, o sindacali - è lasciato solo con la propria coscienza, e oggi più che mai la democrazia di massa e le mille maschere dell' Universale Finzione hanno il potere di riassorbire, confondere, rendere afoni i linguaggi delle antiche appartenenze.

La nostra coscienza come extrema ratio. Da qualche parte in queste pagine compare fuggevole il nome di Ulisse, perfettamente appropriato, con la sua ostinata fede in se stesso, con le sue orecchie tappate, legato all'albero della sua barca, e con la sua stizzita pietà per i compagni impauriti, confusi, sempre sul punto di tradire più se stessi che il loro capitano.
La differenza non stava nella genialità dell'uno rispetto agli altri, o nella sua regalità.
Ulisse era un viaggiatore, i suoi compagni navigavano: questa era la differenza.
Non era questione di strategia, ma di orizzonti interiori.

Credere alle virtù di una grande organizzazione - o di un'organizzazione in quanto tale - è sempre stato assai arduo, e quando lo abbiamo fatto sapevamo sempre di commettere una sorta di "ingenuità necessaria". Chi non aveva questa consapevolezza semplificava di molto la propria vita, la propria appartenenza e spesso anche la propria carriera.
Tutto ciò non appartiene alla categoria dello scetticismo generico, o a quella del cinismo, ma a quella dell'onestà e della coscienza critica.
Ogni organizzazione è una forma di esercizio del potere, che come tale ne segue almeno alcune delle regole essenziali, perché viene messa in atto proprio allo scopo di aumentare il potere individuale. Nell'aumentarlo, nel renderlo più efficace, dilata però anche i vizi di coloro che ne fanno parte, ne mette in evidenza i limiti caratteriali, culturali e intellettuali.
Questo succede nei partiti ed è successo anche nei sindacati. Errori veniali mescolati ad errori drammatici.
Spesso queste grandi organizzazioni non hanno neppure una speciale colpa, ma sono solo dei sintomi, ossia s'incaricano di trasmettere l'incapacità di un' intera generazione, di un intero organismo sociale a capire e gestire una serie di problemi.

Tutto questo fa parte della tela connettiva sostanziale del concetto stesso di organizzazione - di partito, di sindacato - ma molto più spesso ciò che appare in maggiore evidenza è la serie dei limiti e degli errori commessi dai dirigenti, o che si incarnano in certe decisioni, in certi indirizzi che risultano dall'equilibrio degli interessi.
E, in questo senso, entra in gioco una delle caratteristiche più discutibili, che sembrano segnare la vita di queste formazioni: la selezione dei quadri e dei dirigenti.
Ogni organizzazione dovrebbe in teoria obbedire ad una logica dei meriti, o a quella della passione, o a quella della democrazia: sappiamo però che ciò è molto raro.
Avviene in realtà che si facciano strada una serie di persone che hanno doti assai diverse da queste, o che ne sono in possesso solo per caso e in misura molto controllata: ciò che serve per acquistare potere sono le doti adatte ad acquistare potere, non altre. Tautologicamente semplice e ampiamente verificato.

Eppure la retorica della democrazia, così come quella della militanza, impone di credere che tutte le barche seguano un piano di viaggio trascendente, un sogno riformista, destini ultimi di giustizia e libertà: afferra il remo, tendi la schiena, svuota la sentina, tappati il naso per non sentire la tua stessa puzza di navigante, perché la tua fatica disillusa è in realtà un contributo al grande viaggio.
In una parola, l'appartenenza. In una parola, la coscienza di far parte di un'organizzazione e di subordinare la propria coscienza a quella dell' organizzazione.

Sarebbe già un grosso problema, se anche la "coscienza dell'organizzazione" fosse caratterizzata dalle istanze teoriche di idealità e di merito, perché anche nell'idealità le idee possono divergere e la coscienza può esigere la propria libertà, e quanto ai meriti ciascuno può a buon diritto difendere i propri.
Ma questa coscienza di partito - o di sindacato - è in realtà fortemente influenzata, o spesso dominata, dalle sue logiche di potere, di governo di se stessa, di prevalenza di tesi utili all'esercizio stesso del potere, perché ogni organismo assume rapidamente in sé la necessità prima della propria esistenza, poi della propria espansione. Non c'è perversità volontaria in questo, si tratta di un preocesso fisiologico, e non c'è neppure bisogno di evocare le suggestioni più diaboliche del "potere".

Quanto spazio rimane, in definitiva, per la libertà di coscienza, per quella intellettuale, dentro le organizzazioni nate per esaltare sia l'una che l' altra?
Poco, ma soprattutto assai incerto - spesso più una concessione che un diritto.
Il rischio incombente, la minaccia più aspra è quasi sempre quella per cui la propria libertà di coscienza andrebbe a minare l'unità, e dunque il potere dell'organizzazione, indebolendela e mettendone a rischio l'efficacia dell'azione.
In genere non sono mai coloro che la pensano diversamente ad agitare queste minacciose evenienze, ma quelli che non pensano, ossia quelli che si sono assunti le responsabilità più "politiche", in altre parole quelli che gestiscono il potere dentro l'organizzazione.

Ecco la ragione per cui succede che la "propria" organizzazione diventi in effetti la prima controparte di ogni libertà di coscienza. Una contrparte con la quale s'ingaggiano dure battaglie a corpo a corpo, laddove le battaglie con gli avversari dichiarati sono battaglie di posizione, di disposizioni strategiche, che prevedono esiti forse più tragici, ma meno drammatici nel loro svolgimento.
Diciamo pure che il vero problema della libertà di coscienza esiste proprio all'interno della propria organizzazione, più che nel confronto con le idee e la forza dei nostri avversari dichiarati.
Il coraggio soprattutto di non subire il ricatto dell'appartenenza - che ha come degenerazione ultima il nazionalismo, "ultimo rifugio dei delinquenti".

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 Pierina Dominici    - 22-09-2003
Sono contenta di questo intervento perchè rinforza e chiarisce ulteriormente la "voce del dissenso".
Sono così stanca di andare a votare tappandomi il naso (e pure gli occhi e le orecchie, come la scimmietta di Fuoriregistro). Voto una sinistra che non mi rappresenta. Una sinistra che a livello locale pone ai vertici persone mediocri per senso civico e cultura, grandi solo nella tracotanza e negli orizzonti ristretti.
Uomini che non si differenziano da quelli di destra. (Per dirla con Totò "più caporali che uomini").
Non avrei alcun problema di appartenenza se le organizzazioni sindacali e di partito ponessero a fondamento non "le logiche di potere", ma l'onestà intellettuale, la libertà di coscienza, il senso etico.