In un angolo buio
Giuseppe Aragno - 08-08-2003
Nascosi rabbia, vergogna e disperazione in un angolo buio del cervello e andai avanti senza un’idea precisa. Per un po’ confusi il passato col futuro e vissi senza presente. Il tempo della vita non coincideva col tempo della logica e il modo della certezza presentava evidenti paradossi.
Imparai a diluire la tristezza nelle fatiche ostinate di traduzioni notturne e quando la mia Lesbia mi sostituì col più odioso scienziato del liceo, piansi più volte con Catullo e non volli mettere in versi italiani il suo lacerante “fulsére tibi quondam candidi soles”.


Cercai un lavoro - quale che fosse, tre soldi per non sentirmi un peso - e mi disposi a cogliere in ciò che m’accadeva solo i toni di rosa: questione di sopravvivenza. Iniziai dallo sportello d’una “sala corse”, raccogliendo scommesse, e ci conobbi un “grossista” distributore di medicinali che “non scommetteva per soldi” e cercava un “ragazzo sveglio” per un suo ufficio al centro. Alto, snello, elegante, coi capelli crespi sotto il cappello scuro, aveva un viso tagliente che incuriosiva per il contrasto tra le labbra sottili e il naso largo e schiacciato in mezzo agli occhi neri e un po’ assenti, i modi spicci di chi si è “fatto da sé” ed un’aria vagamente schietta che lo rendeva affidabile. Mi feci avanti e lui non perse tempo: referenze, competenze, titolo di studi: nulla di tutto questo. Non giunsi a dirmelo, ma andò così: per un po’ sentii vacillare le mie convinzioni sugli imprenditori – “razza padrona” a qualunque livello – e pensai a “sistemarmi”.
Pochi giorni, quanto bastava per mettermi alla prova, poi il “grossista” annunziò:
- Nessuna carta scritta. Sia ben chiaro!
Mise in fila gli impegni da rispettare, le multe per le inadempienze e chiuse con la paga: molto più che alla sala corse, molto meno di quanto mi sarebbe spettato per fatica e responsabilità. Non ci fu trattativa ovviamente. Avrei accettato per molto meno e, in ogni caso, poter mettere in ordine i conti con me stesso fu un sollievo. Non avevo più dubbi: un vero pescecane, pensai mentre si faceva d’un tratto paterno e mi dava un consiglio:
- Ricordatelo bene e mi ringrazierai. Guarda più in alto che puoi e impara la scienza sociale: prima di tutto te stesso, così non pesi su nessuno. E’ bene solo quello che ti va bene.
- Una regola d’oro
– replicai e soggiunsi ironico – diffonderla però è uno strappo pericoloso.
Finse di non cogliere e lasciò che gestissi da solo vendite e consegne in un bugigattolo d’ufficio situato sopra un ampio locale sotterraneo nel quale giacevano accatastati in un ordine approssimativo medicinali d’ogni tipo.
Di dove giungesse la merce non ebbi mai idea.
- Si “carica” di notte per evitare fastidi e perdite di tempo Traffico, parcheggio. Questa città è impossibile.
Andava bene così. Lavoro nero, certo, sei giorni alla settimana per otto e più ore, ma in perfetta autonomia. La mattina ricevevo telefonate, scovavo la merce, preparavo conti e il pomeriggio facevo brillantemente fronte all’andirivieni di ragazzi in camice nero che ritiravano i pacchi di medicinali in cambio di ricevute da firmare. Il sabato veloce rendiconto: il titolare giungeva dopo pranzo, allegro e puntuale, intascava le ricevute firmate e mi pagava.
Durò tre mesi.
Un sabato l’uomo non venne e non chiamò. Il lunedì, mentre aprivo, si presentarono due agenti e mi ritrovai in questura. Un interrogatorio rapido e ironico. Ero solo un idiota: me lo ripeterono per ore poi mi lasciarono tornare a casa. Per qualche tempo sui giornali tennero banco indagini su medicinali rubati e farmacie implicate in non so quale scandalo presto soffocato. Attesi a lungo il mandato di cattura, ma nessuno mi cercò.


Quando i giornali presero ad occuparsi di altro, uscii da un incubo e mi guardai attorno con gli occhi del bisogno.
La città mi sembrò subito diffidente e pericolosa: tutta domande e mai una risposta. Un’anima scura ovunque mi girassi ed una consapevolezza disperata: non è vero che il mondo cambia, siamo noi che lo vediamo diversamente.
Non me n’ero accorto. La gente, che fino a poco tempo prima m’era parsa uguale a sempre, aveva messo sul viso lineamenti spigolosi, labbra sottili, occhi scaltri e indifferenti. Gli uomini tozzi e franchi, calati in tute d’ogni foggia e giacche di panno militare, erano tutti spariti e spariti erano pure quelli spicci e decisi, infilati in camicie larghe con le maniche risvoltate fino a metà avambraccio, il cappello di giornale in cima al viso rugoso e abbronzato.
Spariti, come gli altri, quelli che incontravo al tramonto con le mollette dei panni strette sulla piega dei pantaloni e le vecchie biciclette cigolanti che ancheggiavano, scansando i solchi centenari scavati dagli antichi carri nel vecchio basolato di piperno.
Sotto il cemento colato a fiumi sulle antiche cave, sui materiali di risulta che colmavano i valloni, lungo gli impervi canaloni creati da secoli di pioggia erano sparite persino le ferite della guerra. Strade e veicoli, gente e palazzi sprofondavano però dalle colline al mare. Ferita ben più che dalle bombe, Napoli era irriconoscibile. La destra della speculazione edilizia ne aveva fatto un’altra città. Sconosciuta. L’attraversavo ogni giorno in lungo e in largo senza un progetto di vita, incrociando i senzatetto sloggiati a forza, i disoccupati minacciosi, gli operai delle fabbriche in lotta e le cariche sempre più violente della polizia. Dall’angolo buio del cervello una rabbia scura mi prendeva alla gola, ma imparavo a filtrarla con la sapienza di chi distilla liquori.

Maturavano scelte.
Lo sentivo nell’aria, me lo dicevano i poveracci che chiamavo “compagni” nel fuoco di uno scontro che bruciava, quando presi a seguire i cortei senza badare al perché. Era un mondo nuovo, che la cronaca tradiva: ci aspettavano al varco ed erano i candelotti tirati dai moschetti a provocare gli scontri. L’umanità dolente dei disoccupati espulsi dal processo produttivo, che lottavano per non scivolare fuori dalla società civile, il dramma di sfollati e senzatetto in guerra tra loro per le case popolari, le manifestazioni degli studenti senza scuola, degli operai serrati in file strette e fitte per difendere il posto di lavoro erano un magma incandescente nel quale mi tuffavo gridando slogan, reggendo striscioni, respingendo l’urto sempre più cieco della celere e destreggiandomi abilmente tra cariche e gipponi.
Nuovi “compagni”, legami stretti ed intese sperimentate in piazza mi accoglievano alle assemblee di comitati che sorgevano qua e là, al centro come in periferia. Nuove riflessioni mi agitavano il sonno e diventavo sempre più estraneo alla prudenza delle discussioni serali al Circolo “Curiel”, dove i giovani comunisti prendevano a misurare, senza averne ancora ben chiare le dimensioni, la distanza che separava teoria e pratica della politica A cinquant’anni dalla rivoluzione sovietica, sulla tessera della Federazione giovanile del Pci, Lenin levava il pugno e ricordava: “1917-1967: sulla via dell’ottobre cinquant’anni fatti da noi”.


Di cinquant’anni non potevo rispondere – sebbene carte ingiallite che cominciavo a scovare in archivio inducevano al sospetto – ma degli ultimi ero certo: non avevamo nulla a che vedere con Lenin. E non ero il solo a pensarlo. Sembrava un ritornello: facciamo brillantemente opposizione e opponiamo il progresso alla conservazione. Non altro. Anni dopo, quando il futuro rivoluzionario sarebbe diventato il presente della conservazione, da destra e da sinistra, gli intellettuali con scarpetta e pipa, pantaloni di velluto e sigarillo, le femministe pentite mascolinizzate, gli esperti di scienza dell’immagine, i signori della sciatteria elegante e della erre moscia, i professionisti del gergo rivoluzionario possibilista, gli esploratori della terra di nessuno situata tra potere, opposizione e opportunismo, incantandoci con le false “memorie”, le militanze spericolate e le pacificazione obbligate, ci avrebbero spiegato che Lenin ed Hitler formavano due rovesci d’una stessa medaglia e che alla fine avevano perfettamente ragione i politici liberali del cordone sanitario e gli economisti del libero mercato: il capitale non ha alternative.
Ce l’avrebbero spiegato da cattedre e giornali antichi compagni e notissimi mazzieri. Quando il futuro diventa presente, il passato non conta e come negarlo? Solo chi non pensa non cambia mai idea.


continua

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