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La lettera di Soterio
Salvatore Casaburi - 30-04-2003
La lettera di Soterio di Salvatore Casaburi: viaggio a Napoli all’alba del terzo millennio
(Salvatore Casaburi, La lettera di Soterio, Edizioni Dante&Descartes, Napoli 2002,
13,00 euro)





L’ambientazione tutta napoletana e la presenza sullo sfondo della vicenda di Bagnoli, con i problemi legati allo smantellamento dello stabilimento Italsider ed alla riconversione dell’intera area, indurrebbero ad annoverare il bel romanzo di Salvatore Casaburi La lettera di Soterio, pubblicato per i tipi di Dante & Descartes, in un filone abbastanza fortunato, che conta notevolissime prove, fra le quali l’ultima è La dismissione di Ermanno Rea. Una lettura attenta ci rivela invece il carattere particolare di quest’opera, che si carica di forti valenze riflessive e simboliche  oltre le stesse intenzioni dell’autore  man mano che procede nel suo sviluppo. La Lettera di Soterio è soprattutto un viaggio alla ricerca di se stesso, del proprio passato e di quello di una generazione, ma direi ancor più un viaggio alla ricerca di una ragione, in un mondo che forse non vuol più interrogarsi sulle proprie ragioni, e quindi non vuole più nemmeno ricordare il proprio passato. Non è un caso che, in quello che poteva essere un tipico romanzo del ritorno e della memoria, un ruolo centrale lo giochi invece il motivo della difficoltà di ricordare. Il protagonista, Antonio Precanico, è un medico che ritorna a Napoli, richiamato dalla lettera di un vecchio amico, Soterio Ferroso, un operaio che già negli anni del ‘68 aveva costituito per lui un esempio di coscienza critica, dimostrandogli quanto potessero essere fallaci certi stereotipi ideologici. L’antico esponente di quella che un giorno per tutta una generazione era stata la «classe operaia» ora gli chiede semplicemente di compiere “un viaggio a ritroso”, senza alcuna certezza che egli possa ritrovare nella sua Itaca i lari familiari. Inoltre Antonio ha ricevuto la lettera di Soterio proprio nel momento in cui si è reso conto di soffrire di un’amnesia patologica, di una difficoltà di ricordare, che non ha alcuna spiegazione neurofisiologica, come hanno confermato tutti gli esami medici svolti in Germania, ove Precanico lavora come epidemiologo. Il viaggio a Napoli ha quindi una funzione quasi terapeutica, è  o per meglio dire vorrebbe essere  un viaggio nella memoria, verso la memoria, che però si rivela difficile, problematico, non solo perché non è facile per Antonio ricostruire la trama dei ricordi, ma perchè Napoli stessa è in fondo una città che nega, occulta, rimuove la memoria oppure la coltiva con «doloroso amore» come un nucleo di ricordi struggenti e quasi inaccessibili.
L’invenzione fantastica che anima tutto il romanzo di Casaburi e ne costituisce il motivo centrale consiste proprio nel motivo del blocco della memoria, della difficoltà di ricordare. Quella che all’inizio pare essere una patologia personale, finisce poi per configurarsi metaforicamente come la condizione della nostra società, del nostro mondo, evidenziata in un confronto con una realtà come quella napoletana che è pur essa particolare.
E’ infatti proprio Napoli, Partenope la possessiva - come la designa l’autore - l’altra grande protagonista del romanzo di Casaburi. Ed a questo punto si potrà osservare: un altro romanzo su Napoli e la sua storia! Rispondo subito che, se da un lato anche Casaburi non si è sottratto al misterioso fascino di Partenope, d’altronde il suo ritratto della città non ha nulla di scontato. La Napoli descritta da Casaburi infatti non ha quei tratti violenti ed oscuri cari a molti scrittori napoletani contemporanei, ma non è nemmeno quella un po’ olegrafica e stilizzata che siamo abituati a conoscere da certa tradizione letteraria, appare piuttosto vagamente simile a quella che fu cara ad Annamaria Ortese e soprattutto a quella descritta da Enzo Striano ne Il resto di niente (anche per la vocazione eminentemente riflessiva e filosofica dell’autore): una città per molti aspetti misteriosa, sospesa tra passato e presente, sempre inquietante, e forse proprio per questo salvifica.
Dunque una megalopoli che si fa specchio del mondo contemporaneo, antica e moderna, accogliente e crudele, ricca di cultura e di storia ed al tempo stesso immemore di esse, appunto perché convinta che tutta la sua storia «quella passata e quella futura, violi l’estensione del tempo come in un nucleo primordiale che condensi tutto», una città ove in fondo «ogni napoletano è uno straniero nelle strade e nei vicoli che attraversa giorno dopo giorno». Ed è proprio nelle notazioni, nelle riflessioni dell’autore sulla complessa realtà di Napoli e del mondo contemporaneo che si ritrovano le espressioni migliori del suo talento. Si vedano ad esempio le considerazioni sul crollo del socialismo reale, che sono ispirate al protagonista dalla visione della folla di immigrati dell’est che frequentano la zona di Piazza Garibaldi: per lui che da ragazzo «aveva pensato al socialismo come un chierico allo Spirito Santo» essi costituiscono la dimostrazione che «i sogni svaniscono ma che gli uomini continuano ad esistere, anche quando non sono nuovi». Ed anche le riflessioni sulle defaillances della ragione:
Aveva creduto a lungo nella ragione degli uomini e alla funzione che le parole svolgono per intendersi. Riconosceva, ora, l’imperdonabile errore. Era giunto alla conclusione, dopo numerose considerazioni ed esperienze, che fosse meglio tacere e osservare per capire. Non che la cosa lo sollevasse dalle antiche inquietudini, ma almeno ne avrebbe tratto un qualche giovamento per affrontare l’esistenza con minor fatica (p. 36).
Uno dei sentimenti più vivi nel romanzo di Casaburi è proprio l’attenzione interrogativa di fronte ai grandi mutamenti che caratterizzano la nuova epoca, la consapevolezza che nessuna cultura, nessuna ideologia può abbracciarli tutti, comprenderli, rappresentarne una sintesi od un’interpretazione. Ed in questa sottile inquietudine si afferma la necessità della memoria, come antidoto naturale contro la perdita d’identità, quindi il bisogno di ricomporre i suoi dati, di ascoltarne le voci ed i suggerimenti. Dunque non il crollo del vecchio mondo, quella che per Roth era stata la finis Austriae, ma la perdita di senso del nuovo è ciò che sperimenta Antonio Precanico; non l’inevitabile oltraggio che alla memoria apportano il tempo, le disillusioni, le sofferenze, ma il rifiuto della memoria che ormai è insito nel nostro tempo, nella nostra civiltà. Il viaggio di Antonio assume pertanto un tono vagamente kafkiano e pirandelliano, è l’attraversamento di uno spazio dilatato ma anche angosciosamente vuoto, in cui la memoria si avventura a tentoni, cercando di strappare brandelli di luce e di vita: un viaggio per molti versi ctonio, sotterraneo, oscuro in un territorio di cui, attraverso una serie di flash e molte ampie digressioni, viene ricostruita la storia. Ciò che l’autore ricerca ed indaga con grande finezza è soprattutto il senso nascosto di questa storia, che spesso costituisce una negazione del suo senso esplicito (si vedano ad esempio le considerazioni sulla fotofobia dei napoletani). E qui si nota anche la capacità dello scrittore di ripresentare spunti e motivi offerti dalla sua vasta cultura in un quadro molto vivo ed originale.
Vivo ed originale è anche il linguaggio di Casaburi, che rivela un’innata padronanza dello stile ed un senso squisito dell’armonia sintattica; un linguaggio in cui il dialetto fa capolino non frequentissimamente ma sempre in modo significativo, quasi a dar forma a situazioni, immagini e personaggi che appartengono ad un tempo preciso della memoria. Ed allora riscopriamo termini come «mastogiorgio» (è l’infermiere addetto alla cura e soprattutto al controllo dei pazzi ma la parola sta ad indicare estensivamente chiunque sia addetto a controllare personaggi turbolenti o che tali vengono ritenuti), entità dimenticate come «’o Garibaldi» (la statua di Garibaldi che campeggia nell’omonima piazza), raffinate etimologie come quella che giustamente fa risalire la voce «aglianico» ad una corruzione del lemma «ellenico».
Nel complesso il pregio ed anche qualche limite del romanzo consistono in questo desiderio di significazione profonda che pervade e domina l’autore, fin quasi a mutare quella che forse voleva essere la configurazione originale dell’opera, che si trasforma da «racconto filosofico» a forte sfondo storico-sociologico in romanzo della memoria, romanzo d’atmosfere. E per la verità l’autore sembra raggiungere la sua felicità quando s’immerge in quei luoghi mitici che sono oggetto di malinconia e desiderio, quando il protagonista del romanzo s’abbandona alla voluttà del viaggio attraverso la sua terra (le metropolitane, le linee sotterranee, le stazioni ferroviarie sono degli autentici luoghi mitici per Casaburi, come conferma del resto il titolo del suo primo romanzo, La casa sulle metropolitane appunto). Allora acquistano spessore e credibilità i personaggi più significativi, mai citati per nome, ma genericamente, quasi a sottolineare questa valenza mitografica (bellissima e commovente è soprattutto la figura della barbona che porta con sè la catasta dei suoi fardelli, senza separarsene mai, appunto perché essi sono i suoi ricordi). Ed è in questa particolare atmosfera che il romanzo disvela anche quello che è il suo senso profondo: una ricerca d’umanità che non può non partire dalle esperienze primigenie e personali e si confronta poi con i grandi interrogativi del nostro mondo.
Né è un caso che il lungo peregrinare di Antonio Precanico si concluda proprio su quella spiaggia (di Bagnoli), che non è di corallo, e nemmeno tufacea, come vorrebbe la natura del posto, ma viene definita dall’autore come la spiaggia di amianto, quasi a ricordarci la responsabilità umana nella contaminazione, ma più ancora il fatto che dalla nostra storia siamo inevitabilmente contaminati, anche nelle nostre radici naturali e che non esiste alcuna bellezza che possa essere considerata assoluta. Soterio è sul pontile, perché  gli viene riferito  è lì che si rifugia convinto che da lì «iniziano i grandi viaggi» e che così ci si può anche preparare a dire un addio al mondo. Ma il pontile  dirà poi il vecchio operaio  «è come la storia delle nostre vite: ci si illude di essere in mezzo al mare, su un’isola, lontani da tutto, ma in realtà basta voltarci per accorgerci che continuiamo ad essere legati alla terraferma»; ed anche questa è una conferma della dilemmatica contraddizione che caratterizza la condizione umana, una contraddizione che possiamo vivere solo accettandola fino in fondo.

Fulvio Tuccillo
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