tam tam |  NO WAR  |
Il pianista e l'ideologo
La Repubblica - 21-04-2003
INTERVISTA A DANIEL BARENBOIM

Il direttore d´orchestra israeliano ha scritto un libro con il palestinese Edward Said Ecco come i due hanno immaginato la pace

BERLINO LEONETTA BENTIVOGLIO

Un´idea forte di armonia. È quella che governa le scelte di Daniel Barenboim, che dell´attivismo per la pace in Medio Oriente ha fatto il suo obiettivo più pressante. È quella da cui è nato il suo progetto di un´orchestra che unisce a giovani israeliani strumentisti di tutti i paesi arabi. È quella che percorre il libro Paralles and Paradoxes, che il pianista e direttore israeliano ha appena scritto con l´orientalista Edward Said. Grande maestro del podio, oggi diviso tra la direzione musicale della Staatsoper di Berlino e quella della Chicago Symphony, Barenboim esprime, in ogni gesto, una fede assoluta nel potere pacificatorio della musica.
Esegue «l´antisemita» Wagner in Israele, suona il pianoforte a Ramallah di fronte a un pubblico palestinese (è accaduto nel settembre scorso, e come sempre Barenboim ha rischiato di persona, raggiungendo la città senza autorizzazione), e pubblica, firmandolo con un palestinese illuminato e molto musicale (Said è anche pianista), un libro da cui emerge la sua capacità di correlare una sapienza profonda della musica a visioni storiche e politiche, esistenziali e filosofiche.

Maestro Barenboim, pensa davvero che la musica possa essere motore di pace?

«Sì, come dimostra l´esperienza del "West-Easter Divan", l´ensemble di strumentisti arabi e israeliani nato nel '99 da un laboratorio a Weimar.
Un´ottantina di elementi che lavorano insieme ogni estate, in diverse città d´Europa. Il nome arriva da un´antologia di poemi di Goethe, uno dei primi tedeschi a interessarsi ad altre culture: cominciò a studiare l´arabo a 60 anni. L´orchestra è un territorio neutrale, dove suonando ci si conosce. A volte, la sera, i ragazzi discutono di politica, anche in modo violento. Ma il giorno dopo, alle prove, il clima è di complicità e passione. Seduti allo stesso leggìo, un israeliano e un egiziano o un siriano cercano di suonare la stessa nota con lo stesso tempo, lo stesso vibrato e la stessa dinamica. Per ciascuno è la prima volta che si fa qualcosa con l´"altro".
Il coinvolgimento è percepibile e fortissimo».

In Parallels and Paradoxes lei parla di pace e guerra, e di vita e morte, sempre attraverso esempi musicali. La musica può vivere al centro della cultura e della storia?

«È in quel centro che oggi più che mai va ricondotta. La cultura deve appartenere ai musicisti, che sono divenuti sempre più ignoranti: come si può suonare Beethoven senza conoscere Goethe? D´altra parte una cultura musicale più radicata e diffusa può far comprendere nessi umani sostanziali. Ci sono differenze stilistiche enormi tra Bach, Mozart, Wagner e Boulez. Però questi quattro compositori hanno tanto in comune nei contenuti: se è vero che l´uomo del XXI secolo è diverso da quello ottocentesco, i sentimenti e le emozioni non cambiano: amore, gelosia, paura... Le necessità interiori sono le stesse. La musica può aiutarci a rintracciarle».

Lei si è detto spesso contrario all´attuale governo israeliano. Si considera un dissidente?

«No! A un israeliano dovrebbe essere lecito criticare il proprio governo senza essere considerato un dissidente. Così come a uno straniero dovrebbe essere permessa la critica a Israele senza essere tacciato di antisemitismo. Ammetto comunque che il fatto che in Israele ci sia un governo criticato da tanti rischia di legittimare i troppi antisemiti che nel mondo utilizzano quell´argomento come maschera del proprio antisemitismo».

Pensa che ci sarà una nuova ondata di antisemitismo in seguito alla guerra contro l´Iraq?

«Temo di sì. L´identificazione totale del governo israeliano con gli Stati Uniti è piena di pericoli a lungo e a breve termine. Non credo che dopo questa guerra gli americani potranno imporre una loro pace: hanno perso credibilità. E sono prevedibili gravi difficoltà da parte dei paesi arabi nel futuro prossimo. Ci saranno quindi americani che cominceranno a dubitare che l´appoggio del loro paese nei confronti di Israele vada di pari passo con gli interessi degli Stati Uniti. Prima, quando c´era l´Unione Sovietica, si era stabilito un certo equilibrio tra i due blocchi occidentali, americani e russi, dove ciascuno dei due pensava che fosse l´altro il cattivo. Oggi l´equilibrio è ambiguo e instabile: agli Stati Uniti si è opposta l´opinione pubblica mondiale, che è stata contraria ovunque alla guerra. E se si vuole essere la massima potenza mondiale non si può avere tutto il mondo contro. Ci sono tanti problemi interni negli Stati Uniti: perché l´Alasca e Puertorico, che non hanno niente in comune, sono membri dello stesso Stato? Solo perché finora hanno avuto entrambi interessi economici per esserlo. Se questi cadono a causa di una politica estera sbagliata, rischia di vacillare anche l´interno dell´impero».

Ha sempre detto di considerare «moralmente e strategicamente insensata una soluzione militare del conflitto in Israele», ed è convinto che si arriverà a un futuro di pace. Con quale possibile assestamento?

«La soluzione, secondo me, è una federazione semitica, che oltre al nuovo Stato palestinese includa Israele e la Giordania. Qualcosa come il Benelux.
Dopo tanto odio bisognerà creare un clima di fiducia e cooperazione. Ci dovrà essere fin dall´inizio un´apertura totale: i muri non servono. Sono troppi gli interessi comuni: il primo esempio che mi viene a mente è il turismo. E poi una federazione semitica (mi consenta un po´ di humour ebreo) offrirà il vantaggio che l´antisemitismo potrà colpire qualcun altro, oltre a noi ebrei».

Il fatto che non esista un governo democratico nei paesi arabi non può stimolare dubbi sulla capacità palestinese di costruire una democrazia?

«Il destino dei palestinesi negli ultimi cinquant´anni è stato diverso da quello di tutti gli altri paesi arabi. I palestinesi hanno due armi che mancano agli altri. La prima è la loro ferma convinzione della giustizia del riconoscimento della loro identità nazionale. La seconda riguarda la cultura di molti palestinesi odierni. Vista la situazione interna, tanti di loro sono stati mandati dalle famiglie a studiare fuori, a Londra o negli Stati Uniti. Per questo la nuova generazione di politici palestinesi è di livello intellettuale molto alto. C´è un nucleo nella società palestinese deciso a trovare una soluzione democratica per il paese, ed è questa la gente che ho incontrato nel mio concerto di settembre a Ramallah. Inoltre non bisogna dimenticare che la maggioranza del popolo palestinese è laica, e che in molti campi, mi riferisco per esempio ai problemi delle donne, la società è tanto più avanzata che in Arabia Saudita o in altri paesi arabi».


  discussione chiusa  condividi pdf