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La guerra, il giornalismo e i blog
Quintostato - 15-04-2003
A due giorni di distanza da Blog Age, la prima tavola rotonda dei blogger italiani, ripubblichiamo un'intervista di Derrick De Kerckhove uscita alcuni giorni fa su La Stampa. Lo studioso di nuovi media, erede di Marshall McLuhan, dice la sua sul rapporto tra media e guerra e soprattutto su come la diffusione della rete, e dei blog, sta cambiando il modo di fare informazione. Essenziale alla discussione che sta interessando la blogosfera in questi giorni, è anche la sua distinzione tra giornalismo e blogging. Il primo, secondo De Kerckhove, è una pratica professionale formalizzata, mentre il secondo "comunica attraverso la rete attraverso processi del tutto informali, molto simili ai rapporti inter-personali".


Gli Stati Uniti non fanno propaganda di guerra. Gli Stati Uniti producono verità. Non ha dubbi Derrick De Kerckhove, direttore del McLuhan Program in Culture & Technology dell'Università di Toronto. Durante un ciclo di conferenze tenute nel suo recente soggiorno napoletano, l'esperto di media si è soffermato a lungo su quella che lui stesso ha definito come la "propaganda oggettivante" di Bush, talmente forte e pervasiva da essere in grado di modificare la realtà. Sempre secondo lo studioso, l'amministrazione americana tenderebbe a manipolare l'informazione dalla fine della seconda guerra mondiale, quando, dopo aver sganciato la bomba atomica, si accorse di aver provocato un immane disastro naturale che doveva ad ogni costo rimanere nascosto agli occhi dell'opinione pubblica.

Oggi però la situazione è cambiata, e l'arrivo delle nuove tecnologie ha moltiplicato i canali di diffusione delle notizie…

Eppure la disinformazione persiste ancora, perché i media americani tendono a praticare l'autocensura. Quando è in gioco l'onore nazionale, scatta un sentimento patriottico di riunione intorno a valori comuni che può diventare deleterio da un punto di vista informativo, perché tende a far passare solo le notizie che possono essere utili alla causa comune. Proprio per questo Peter Arnett è stato licenziato. Perché ha osato comparire su una televisione islamica, passando dall'altra parte della barricata. Le tv e i giornali statunitensi dovrebbero osare di più e tendere verso un maggiore pluralismo.

Un'altra questione scottante è quella dell'eccessiva spettacolarizzazione della guerra da parte dei mass media. Lei che ne pensa?
Credo che questa guerra sia stata equipaggiata per costituire un enorme set di ripresa. Gli "embedded journalist" e le telecamere montate sulle carene dei carri armati dimostrano la volontà di riprendere ed enfatizzare lo spettacolo bellico. I media, che hanno necessità di riempire i palinsesti e di fare audience, si disinteressano della sofferenza e della morte reali, a meno che queste non producano un effetto live show. E cosa c'è di più spettacolare dell'evento che i militari statunitensi chiamano "shock and hoax"?


Visto il procedere a rilento delle operazioni belliche, dobbiamo quindi prepararci a una diretta continua nella guerra?

Assolutamente no. Più lo spettacolo dura nel tempo, più il suo effetto viene diluito. Non è un caso che Bush, preannunciando l'inizio del conflitto, abbia parlato di un'operazione lampo. Come ho scritto nel mio ultimo libro "La conquista del tempo" (edito in Italia da Editori Riuniti, ndr), la nostra società sta andando sempre più verso un uso del tempo istantaneo, frammentato ed evenemenziale. Tutto deve accadere nell'hic et nunc, compresa la guerra. Altrimenti cala la tensione, e soprattutto viene meno l'interesse dell'opinione pubblica verso l'evento mediatico rappresentato dal conflitto. Sul campo di battaglia però le cose vanno diversamente, e questa guerra rischia di dilungarsi all'infinito, provocando un numero eccessivo di morti.

Rispetto alla prima Guerra del Golfo, oggi chi vuole trovare notizie "alternative" rispetto a quelle diramate dalle fonti ufficiali può servirsi della rete, e soprattutto dei war-blog. Ritiene che questo sia un tipo di informazione valido e affidabile?

La validità dei blog è direttamente proporzionale a quella della comunicazione tra la gente. Quando una o più persone parlano tra loro, realizzano una condivisione di forze che va a vantaggio di ogni singolo partecipante alla discussione, durante la quale si tenderà a dare maggiore credito a chi comunica le informazioni più interessanti. Lo stesso accade con i blog, i cui gestori si guadagnano la reputazione sul campo: se da un lato le notizie da loro diffuse non hanno nessun tipo di filtro, dall'altro si auto-garantiscono in base all'affidabilità di quello che scrivono. Nel caso del conflitto bellico, questo aspetto è ancora più importante. Solo i blog che sono in grado di diffondere informazioni e opinioni realmente alternative, favorendo aspetti di guerra che i media tradizionali non lasciano passare (aspetti personali, materiale fotografico non allineato, documentazioni riservate…) conosceranno un successo di critica e di pubblico.

Ma questo dovrebbe essere il compito svolto dai giornalisti. Sta forse dicendo che i blog stanno sostituendo i professionisti dell'informazione?

Non c'è niente di più diverso tra un giornalista e un blogger. Il primo svolge una mansione editoriale formalizzata da pratiche e procedure. Il secondo invece comunica attraverso la rete attraverso processi del tutto informali, molto simili ai rapporti inter-personali, che ben poco hanno a che vedere con la professione giornalistica. I weblog sono la realizzazione di quella che, alcuni anni fa, ho definito come "intelligenza connettiva" della rete.


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