Riflessioni di un Tutor
Giovanna Casapollo - 04-11-2001
Sono una frequentatrice convinta e fedele di corsi di aggiornamento che riguardano la mia professione di docente, mi preparo ogni volta con scrupolo generoso, faccio tesoro delle esperienze vissute anche quando le offerte formative sono risultate deludenti e velleitarie.
L’occasione che il corso per Tutors di Storia contemporanea mi offriva era appetibile e stimolante: acquisire un titolo di Tutor in una scuola che si prepara a costruire la sua autonomia, sembrava essere il modo migliore per spendere al meglio l’esperienza didattica acquisita con fatica sul campo e il patrimonio culturale incessantemente nutrito da letture e dal confronto con il sapere altrui.
Gli argomenti di studio proposti nel programma parlavano di metodologia, di laboratorio storico, di processi e di percorsi, di storia locale, di socializzazione delle esperienze: ce n’era abbastanza per riflettere sull’efficacia del nostro fare scuola.
Mettere in discussione metodologie anodine, progettare strategie tese a convincere discenti demotivati ed abulici ad avvicinarsi alla Storia con rispetto, fornire alle giovani generazioni strumenti di ricerca adeguati per la ridefinizione della propria identità culturale, irriconoscibile nel frastuono massmediatico, apparivano giuste e sacrosante risposte alle aspettative di una professionista, sempre pronta a ripensarsi, come me.
I faticosi viaggi mattutini per raggiungere ‘la patria di Grazia Deledda’, dalla periferia di una provincia lontana e dimenticata non scoraggiavano la mia voglia di capire, di partecipare e non attenuavano l’attesa di un arricchimento culturale che il prestigio ‘universitario’ saccente e prosopopeico avrebbe elargito ai docenti di una scuola eternamente in crisi, nella comunicazione di idee e di ricerche specialistiche.
Negli incontri con la cultura paludata rivisitai con il prof. Vigilante i fondamenti epistemologici della disciplina storica mediante l’analisi di DPR e circolari ministeriali degli anni ottanta, scoprii che a scuola non si studiano adeguatamente le vicende dell’ultimo cinquantennio del secolo che finisce, e guardai con gratitudine colpevole il prof. Carta che aveva affidato alla proiezione di lunghi filmati dell’Istituto Luce sulla 2° guerra mondiale, buona parte del suo intervento; sorpresa e compiaciuta seppi delle imprese di Gian Maria Angioi piacevolmente narrate dal prof. Luciano Marrocu, che sottolineò la straordinarietà di un evento che aveva segnato l’ingresso nella contemporaneità dei Sardi, riscattandoli dall’ingrato ruolo di sudditi. Il Prof. Luciano Carta, poi, parlò di rivoluzionari senza rivoluzione commentando con pignoleria filologica le 47 ottave dell’inno dei patrioti sardi a sos feudatarios. Il prof. Pira infine illustrò i suoi studi, le sue ricerche storiche, proponendosi, suo malgrado a modello di ricercatore solitario.
Intanto nei laboratori , i docenti rivendicavano agli animatori il diritto al distacco, seppur parziale dall’insegnamento, alla professionalità pagata, all’abbandono definitivo di un volontariato didattico sommerso e misconosciuto da colleghi prosaici e rassegnati e da dirigenti disattenti e ingrati.
“Il tutor non può essere un docente come gli altri, è qualcosa di più... anche nella scuola la legittimità della ricerca universitaria ...” affermavano con forza maturi colleghi che si spendevano da anni a richiamare in vita le spoglie meno sfarzose e brillanti delle mille storie locali.
Solidale con tutti, con il docente munifico e con il collega frustrato, scivolavo impercettibilmente nell’angoscia strisciante da aggiornamento sedimentata nelle profondità del mio animo di prof insoddisfatta che rischia di tradurre i nuovi saperi essenziali in ulteriori strumenti di impotenza titanica.
Fortunatamente, nell’assemblea di commiato, l’ottimismo stupito del direttore del corso Prof. Porcu per la presenza assidua e vigile di corsisti e dirigenti, invitandomi a riflettere sugli innegabili meriti dell’iniziativa che si proponeva di sensibilizzare persone altrimenti scettiche e restie alla ricerca di un’identità storica di appartenenza, mi liberò da quella ingiustificata sensazione di disagio esistenziale.

Sola, sulla strada del ritorno, grata all’ Atene sarda del piccolo e roccioso Logudoro, salutavo ardente e fiera i passanti frettolosi.

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