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Usa: la dottrina Bush
Equilibri.net - 12-02-2003

Con la pubblicazione del documento "The National Security Strategy of the United States of America", presentato al Congresso degli Stati Uniti il 20 settembre, il presidente George W. Bush ha reso ufficiale la sua dottrina basata sull'unilateralismo e la potenza militare.



La "dottrina Bush" sancisce ufficialmente l'abbandono dei principi di deterrenza e contenimento, che sono stati alla base della politica di sicurezza americana nel periodo della guerra fredda, per passare a una strategia volta ad assicurare l'assoluta supremazia degli Stati Uniti nei confronti degli altri paesi del mondo. Sebbene la Casa Bianca e il Pentagono (la cui influenza politica ha raggiunto i massimi storici sotto la guida di Donald Rumsfeld) si affannino a spiegare all'opinione pubblica internazionale che l'intenzione del governo americano non è quella di "dominare" il mondo, ma di "guidarlo", la sostanza non cambia: che lo si chiami guida o meno, l'obiettivo di Bush è quello di portare, in un modo o nell'altro, gli altri paesi a operare in modo vantaggioso per Washington creando un'equilibrio internazionale nel quale gli Stati Uniti siano gli unici a dettare le regole.
Nella retorica della Casa Bianca, gli Stati Uniti intendono semplicemente assumersi quelle responsabilità, che nessuno ha conferito loro, ma che deriverebbero comunque dal fatto di essere la più grande potenza militare ed economica sulla scena.

Questa autoproclamazione è stata determinata in un certo qual modo anche dalla comoda latitanza dalla scena internazionale delle altre potenze, in particolare quelle europee, che dopo la guerra fredda hanno pensato di potersi godere i "dividendi della pace" lasciando però le incombenze più gravose agli Stati Uniti. Questo atteggiamento ha fatto crollare la speranza di creare uno scenario internazionale multipolare, perché ad "occuparsi del mondo" (anche se a modo loro) sono rimasti in pratica solo gli Stati Uniti.
Per consolidare questo ruolo di "tutore globale" gli Usa intendono continuare a sfruttare l'occasione unica che la storia ha dato loro quando, con il crollo dell'Unione Sovietica, sono rimasti unici detentori del titolo di "superpotenza".

Una dottrina concepita dieci anni fa


Come un padre d'altri tempi, che dà caramelle ai figli obbedienti, manda a letto senza cena quelli che si comportano male e castiga quelli più "ribelli", Washington conduce già da tempo la sua politica estera distribuendo aiuti economici, sanzioni e bombe. Il governo Bush, da molti ritenuto incapace di far fronte alla crisi economica che ha colpito anche gli Stati Uniti, è però particolarmente propenso all'uso della forza militare.
Chi crede che questo processo abbia preso avvio a causa degli attentati di New York e Washington si sbaglia. Già l'8 marzo 1992 il New York Times pubblicò alcuni estratti di un documento segreto, denominato "Defense Policy Guidance", nel quale si sosteneva la necessità di "dissuadere i concorrenti potenziali anche dal solo sperare di giocare un ruolo regionale o mondiale più importante" e che "la missione politica e militare dell'America nel dopo-guerra fredda consisterà nel garantire che nessuna superpotenza rivale possa emergere in Europa Occidentale, Asia o nei territori dell'ex-Unione Sovietica".
Questo documento era stato elaborato durante la presidenza di Bush senior da una squadra coordinata dall'attuale vice presidente Dick Cheney (all'epoca segretario per la Difesa) e che comprendeva Paul Wolfowitz (attualmente vice segretario della Difesa), Lewis Libby (consigliere per la sicurezza nazionale di Cheney) ed Eric Edelman (anch'esso nello staff di Cheney come consigliere per la politica estera ). Il gruppo avrebbe consegnato il suo rapporto al presidente nel 1990, proprio nei giorni dell'invasione del Kuwait da parte delle forze irachene.

Gli stessi principi del "Defense Policy Guidance" si ritrovano adesso nella National Security Strategy.
Che la "nuova" dottrina americana sia stata elaborata già da tempo è dimostrato anche dall'ultima edizione della "Quadrennial Defense Revue", che sebbene sia stata presentata il 1° ottobre dello scorso anno, era stata preparata ben prima dei tragici attacchi terroristici e già presentava molti degli elementi fondamentali della dottrina Bush. Nel documento si sottolineava infatti la necessità di disporre di forze in grado di operare in qualsiasi zona del pianeta con un preavviso minimo, e di un potenziale tale da permettere di affrontare due conflitti di maggiore livello contemporaneamente, vincendone "decisamente" uno per poi riversare le forze disimpegnate dal primo conflitto sul secondo, fino a quel momento mantenuto sotto controllo.
Per ottenere queste capacità, il Pentagono ha già da tempo elaborato un piano di trasformazione delle forze armate per renderle più flessibili e letali e, di concerto con la Segreteria di Stato, si è impegnato nell'espansione della presenza militare americana all'estero, in perfetta sintonia con le necessità della dottrina Bush. La distruzione del World Trade Center non ha fatto altro che accelerare un processo già avviato, fornendo un argomento difficilmente contestabile per giustificare la linea politica americana: la sicurezza nazionale.

Attacco preventivo per un mondo unipolare


Nel capitolo della National Security Strategy dedicato alla trasformazione delle istituzioni preposte alla difesa del paese si legge che "è tempo di riaffermare il ruolo essenziale della forza militare americana" e successivamente si specifica che le forze armate dovranno "essere in grado di dissuadere qualsiasi potenziale avversario dall'ottenere uno strumento militare tale da superare, o anche solo eguagliare, quello a disposizione degli Stati Uniti". In quest'ambito rientra per prima cosa la lotta alla diffusione delle armi di distruzione di massa secondo il concetto di "controproliferazione attiva", anch'esso enunciato nella NSS e che si basa sulla capacità di scoperta, difesa attiva e passiva, e attacco strategico.
Nella sua introduzione alla NSS, Bush ribadisce che "difendere la nazione contro i suoi nemici è il primo e fondamentale compito del governo federale" e che nella guerra globale al terrorismo, la cui durata è incerta, l'America aiuterà le nazioni impegnate al suo fianco nella lotta, ma "chiamerà a rispondere" del loro comportamento quelle che si sono compromesse con il terrorismo, incluse quelle che hanno semplicemente fornito ospitalità ai terroristi. Inoltre Bush prosegue affermando che gli Stati Uniti intendono agire contro le nuove minacce che stanno emergendo prima ancora che queste siano completamente formate.
È la strategia dell'attacco preventivo, che sommata alla nuova dottrina nucleare americana (presentata lo scorso gennaio nella Nuclear Posture Review), la quale prevede la possibilità di first strike nucleare anche contro paesi che non dispongono di armi atomiche, rappresenta una inquietante evoluzione nelle modalità d'impiego e nel ruolo del potenziale militare degli Stati Uniti.

Entrambe le strategie erano già state illustrate nella Defense Policy Guidance e a suo tempo lo scoop del New York Times suscitò molta indignazione nell'opinione pubblica, ma dopo l'11 settembre quella che era stata bollata come una teoria aggressiva e imperialista è accettata come una necessità per la sicurezza nazionale.
D'altra parte, come afferma lo stesso Bush nella National Security Strategy, "oggi gli Stati Uniti godono di una posizione di ineguagliata forza militare e di una enorme influenza economica e politica" e hanno tutta l'intenzione di sfruttare al massimo il loro vantaggio. Nel documento si legge: "è tempo di opportunità per l'America; lavoreremo per tradurre questo momento di influenza in decadi di pace, prosperità e libertà".
La pace che Bush intende "difendere combattendo contro terroristi e tiranni" è certamente una "pax americana", dove Washington detta le regole e le fa rispettare.
Prova ne è la forza con la quale, nella stessa National Security Strategy, viene ribadita l'intenzione degli Stati Uniti di non accettare la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia: "Prenderemo tutte le iniziative necessarie per assicurare che i nostri sforzi per raggiungere i nostri obiettivi di sicurezza globale e proteggere gli americani non siano alterati dal potere di investigazione, inchiesta, o persecuzione della Corte Internazionale di Giustizia, la cui giurisdizione non si estende agli americani e che noi non accettiamo".

Convenzioni e accordi a lungo termine non sono graditi a Washington, che preferisce poter cambiare le regole di volta in volta, a seconda delle situazioni, e ricorrere a coalizioni e alleanze ad hoc finalizzate al perseguimento di obiettivi contingenti e non vincolanti. Lo stesso atteggiamento del governo americano nei confronti della NATO è profondamente cambiato. L'Alleanza Atlantica sembra ormai essere considerata dagli Stati Uniti solo uno strumento utile per spingere i paesi membri ad aumentare le spese per la difesa, usando la scusa dell'interoperabilità per avvantaggiare l'industria bellica americana, oltre che una merce di scambio nei confronti dei paesi che aspirano a sedere al quartier generale di Bruxelles.

L'interesse europeo


La definizione di "nemico" adotta da Washington è tale da poter essere applicata su scala estremamente ampia: come ha causticamente sottolineato un giornalista di un importante testata inglese, applicando la logica di Bush, ed essendo ormai provato che la maggior parte dei fondi per la campagna terroristica dell'IRA provengono dal New England, Londra potrebbe essere legittimata a bombardare Boston.
Anche se la fiducia degli alleati più attenti inizia a vacillare, molti paesi restano al fianco degli USA nella loro politica aggressiva. Questo è dovuto forse più al timore delle conseguenze politico-economiche che un rifiuto a Washington potrebbe comportare, piuttosto che alla convinzione di essere nel giusto o, quantomeno, di seguire un proprio concreto interesse. Basti pensare, riguardo al caso iracheno, ai paesi che hanno firmato degli accordi per lo sfruttamento del petrolio di Baghdad con decorrenza dalla rimozione dell'embargo (Russia, Cina, Francia, Italia, India, Algeria e Vietnam), i quali avrebbero certamente maggiori vantaggi da un approccio pacifico, che porti l'Iraq fuori dall'isolamento internazionale, piuttosto che da un attacco. Il cambio di regime a Baghdad, renderebbe infatti nulli i contratti che dovrebbero essere rinegoziati con il nuovo governo. Probabilmente non è una semplice coincidenza quella che vede gli Stati Uniti, rimasti esclusi da questa serie di accordi, tanto accaniti contro il, pur deprecabile, regime di Saddam Hussein. Il nuovo esecutivo che verrebbe insediato alla fine della guerra (si parla di un governo militare provvisorio retto da un generale del Pentagono) sarebbe certamente un prezioso alleato degli Stati Uniti e favorirebbe sicuramente le aziende americane nella suddivisione delle aree di sfruttamento petrolifero, a scapito di quelle degli altri paesi.

Che gli interessi petroliferi abbiano un peso importante lo sanno bene anche i curdi, che stanno cercando di negoziare con Washington la loro indipendenza in cambio di appoggio militare all'attacco e garantendo alle aziende americane lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi che ricadrebbero sotto il loro controllo.
I paesi più avanzati e maturi dovrebbero quindi considerare con maggiore attenzione quali sono i loro interessi nazionali, invece di seguire "bovinamente" il vessillo americano. In particolare l'Europa deve giocare al più presto le sue carte, se non vuole dire addio alla speranza di ottenere quel ruolo di potenza amica ma alternativa agli USA che le spetta.
Sotto molti aspetti gli interessi europei possono coincidere con quelli americani, ma questo non significa che l'Europa debba rinunciare ad avere un ruolo importante e autonomo nello scenario internazionale senza delegare a Washington la propria politica estera, una scelta che a lungo termine potrebbe rivelarsi errata portando ad una totale dipendenza dagli Stati Uniti.
Alcuni sostengono che ormai sia necessario accettare di buon grado la superiorità americana e cercare di trovare il modo di essere utili agli Stati Uniti per ottenere un certa considerazione da parte di Washington. Il timore di essere ignorati dal governo americano è insito nella maggior parte dei paesi europei, come testimonia la "corsa" dei vari capi di stato per farsi ricevere alla Casa Bianca.
Ma nello scenario di tipo "feudale" che gli Stati Uniti intendono costituire, i tributi da pagare rischiano di superare i doni che il "signore" elargisce secondo il suo umore e la sua convenienza ai vassalli più fedeli.

L'Europa ha ancora la possibilità di proporsi come un attore importante nello scenario internazionale, ma per farlo deve imparare a parlare, se non con una sola voce, per lo meno in coro. Solo trovando una forte coesione e assumendosi i costi e i rischi di una politica internazionale attiva e indipendente, l'Europa potrà realmente proteggere i propri interessi; altrimenti dovrà accontentarsi delle "briciole" che gli Stati Uniti vorranno lasciarle.
Questo non significa contrapporsi agli Stati Uniti, ma semplicemente definire chiaramente quali sono gli interessi comunitari e operare in prima persona per proteggerli, evitando magari di impiegare risorse preziose in scenari di scarso interesse solo per far piacere a Washington. Se non fosse stato per la reazione del presidente francese Chirac e del cancelliere tedesco Schroeder, che si sono fermamente opposti ad ogni automatismo nell'uso della forza, richiedendo una risoluzione specifica che autorizzi l'attacco a Baghdad, nessuno avrebbe udito la voce europea nella questione irachena. Certo l'asse franco-tedesco potrà fare ben poco contro la determinazione americana, ma è servito a lanciare a Washington il messaggio che l'Europa non deve essere ignorata.

Conclusioni


Come affermato nella National Security Strategy, Washington si riserva il diritto di agire unilateralmente, se e quando i propri interessi lo richiedono. Questo atteggiamento mina gravemente la funzione dei vari forum internazionali e rappresenta un grande smacco per i tradizionali alleati degli Stati Uniti, ai quali non verrà più chiesto di partecipare alle decisioni ma semplicemente di conformarsi alle scelte americane.
La linea di condotta adottata da Bush nella questione irachena ha chiaramente evidenziato i limiti delle Nazioni Unite nei confronti della determinazione americana. Il fatto che gli Stati Uniti abbiano accettato di attendere una risoluzione dell'ONU prima di prendere l'iniziativa militare non cambia la sostanza, visto che in ogni caso se Bush, investito dal Congresso dei "pieni poteri", deciderà di attaccare, lo farà con o senza l'approvazione delle Nazioni Unite. Quella che poteva sembrare una vittoria dei "multilateralisti" è, infatti, solo una piccola concessione dell'unica superpotenza che ne può trarre essa stessa vantaggio, poiché l'autorizzazione dell'ONU all'attacco permetterebbe a Washington di condividere le responsabilità, ottenere un maggiore supporto internazionale e rassicurare l'opposizione interna, mentre la decisione resterà comunque americana. In uno scenario internazionale così sbilanciato, le Nazioni Unite non riescono ad avere altra funzione se non quella di punto d'incontro per il dibattito. Le regole stanno rapidamente cambiando, o forse scomparendo in una sorta di ritorno alla "legge della giungla" in cui il più forte vince e dove i più deboli devono fare fronte comune se vogliono sopravvivere. Per una maggiore stabilità e prosperità internazionale sarebbe quindi auspicabile dare nuova forza a quei forum regionali come l'Unione Europea, l'ASEAN, o la Lega Araba, che, in misura maggiore o minore, potrebbero diventare degli efficaci centri d'aggregazione, capaci di riequilibrare lo scenario internazionale ricreando quel mondo multipolare dove regole chiare e accettate da tutti tornano ad essere necessarie.

Equilibri.net
ottobre2002


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