Tolleranza zero
Vincenzo Andraous - 20-10-2001
“Attento potresti passare dei guai: c’è il carcere per i minori che commettono reati, ora fai il duro, ma poi piangerai”. Così mi diceva un vecchio Maresciallo dei Carabinieri, mille secoli addietro. Me lo diceva dentro la sua divisa che rendeva altera e severa la sua voce: io con le mani in tasca, sfioravo il freddo della lama che avevo imparato a portare con me.
Nella mia mente nessun accenno al dubbio, nessun timore, solamente una grande ansia di poter diventare protagonista di quella profezia, che per me rappresentava la via maestra per apparire, per essere, per avere, la scorciatoia per uscire da un anonimato invadente.
Avevo quattordici anni da due giorni durante quel mio primo arresto: la famiglia, la scuola, il quartiere, erano scomparsi di fronte alle porte del carcere.
Si, avevo quattordici anni e l’immaturità di un adolescente; più entravo ed uscivo da un carcere per minorenni, da una caserma, da una cella di isolamento, più mi sentivo a mio agio, ma dallo scippo, alla rapina, al sangue, il tragitto è breve: quanto lo spazio di uno sparo…..
In questi giorni leggo sui quotidiani alcune proposte o scelte di politica criminale che a detta di molti potrebbero risolvere i problemi inerenti la devianza minorile: l’imputabilità abbassata a dodici anni, il carcere obbligatorio…..
Ho l’impressione che si continui a preferire la fuga in avanti, piuttosto che il fare progettuale, che senza un’estensione pratica di investimenti, rimane un fallimento annunciato, forse persino voluto.
Progettare una politica fattiva, interventista, mirata, significa investire davvero in materiale umano specializzato, in strutture appropriate, in cultura che non è solo uno spot, bensì un nuovo pensiero che va a scandagliare sempre nuove aree problematiche. E’ sciocco criticare una proposta attraverso un pregiudizio, o peggio ideologizzando un percorso, ma forse sarebbe bene riflettere su quanto accade nei paesi tecnologicamente avanzati e con una democrazia ben consolidata, dove appunto a dodici anni sei imputabile, quindi vai in carcere, ma aumenta l’urto e il fastidio per interi quartieri suddivisi in gangs di giovani guerrieri, un piccolo esercito di adolescenti divenuti carne da macello, e di fatto esclusi e ghettizzati.
A dodici anni non puoi comprendere neppure di essere al mondo, maledici chi t’ha messo al mondo, e della tua esistenza deleghi altri, dai genitori, all’estraneo improvvisamente più vicino.
Di chi le colpe, di chi le responsabilità? Non è il caso di usare il pallottoliere per disegnare somme e detrazioni, la sociologia, ma ancor di più la criminologia, hanno ampiamente illustrato il “perché” dei cadaveri disseminati all’intorno.
Come sempre è più facile additare i più giovani che noi stessi, è più facile perché comporta meno fatica, soprattutto tacita la coscienza. Ma anche ammettendo che a dodici anni sei consapevole delle scelte e delle responsabilità, come un adulto formato dalle esperienze, occorrerà domandarsi in quale struttura penitenziaria fare scontare la condanna o la custodia cautelare a un minore.
Sì, perché, a tutt’oggi il carcere non lo si riesce a piegare a nessuna utilità sociale, anzi rimane il maggior riproduttore di sub-cultura: entrano uomini ed escono bambini, entrano bambini ed escono pacchi bomba senza…fissa dimora.
Quando dal carcere escono persone che hanno saputo ritrovare un senso a dare, riconquistato dignità e autostima, ciò non è dovuto alla durezza e alla inumanità di un sistema, bensì è la vita che cambia gli uomini: la vita con i suoi incontri importanti, e non certamente l’imposizione di una sofferenza fine a se stessa.
Il carcere è ritenuto un contenitore effimero, è ciò sottende l’annullamento del suo contenuto, non solo umano, ma riguardante anche la sua funzione, sì, di afflizione, di salvaguardia della collettività, di incapacitamento a reiterare i reati, ma anche e soprattutto di ripristino della legalità, di rispetto della dignità personale e altrui, dove l’uomo abbia il dovere di riparare alle proprie azioni e lacerazioni, ma insieme al diritto di poter sperare in una rinascita.
Con questa realtà attuale (passata e persistente ) occorre chiedersi quale sia lo scopo di imprigionare dei dodicenni: per recuperarli…..o più semplicemente per levarceli dai piedi.
Sembra che non esistano strutture alternative al carcere per i minori, erroneamente ho sentito parlare di inesistenti binari rieducativi, quando invece a mio parere, non c’è nulla da rieducare in chi non ha mai avuto un vero accompagnamento educativo.
Personalmente svolgo attività di tutor nella Comunità “Casa del Giovane” di don Franco Tassone a Pavia. Seguo diversi minori nei laboratori, adolescenti, giovanissimi, minori a rischio, di nazionalità diverse, estrazioni disparate, con problematiche diverse, familiari, scolastiche, ambientali, ma sono tutti ragazzi alla ricerca della propria identità nel riconoscimento dei ruoli all’intorno.
Sono convinto che in una comunità come questa, dove l’investimento forte è per la promozione umana, esiste per i ragazzi la possibilità di instaurare una rete di rapporti con persone valide, che sappiano trasmettere non solo nozioni e conoscenze, ma vicinanza ai valori più profondi e condivisibili.
Ecco che allora è possibile un cammino “insieme” di revisione, di responsabilizzazione: ciò assume il valore di un accompagnamento educativo che non ha come unico scopo quello del prevenire, bensì del liberare, sì, “liberare la libertà” come ci ha lasciato detto il fondatore di questa grande casa don Enzo Boschetti, e che sta anche nelle parole di don Bosco in una “dimensione nuova del cuore “
Una comunità come questa non è solo uno spazio residenziale, ma un’area con intersecazioni progettuali individuali, indispensabili per l’adempimento di un progetto educativo finalizzato a sottolineare problemi e risorse, quindi a elaborare le difficoltà come le potenzialità.
La sua efficacia sta nel sommare la teoria alla pratica, non certamente nel dividerla e classificarla, e la capacità dell’educatore sta nel consegnare senso pedagogico a un’accoglienza che non ha solo istanza assistenziale, bensì di vera e propria formazione della persona.
Affinchè i tanti adolescenti che vedo, osservo, mentre vicendevolmente ci guardiamo per quello che siamo e non per quello che vorremmo essere, possono partecipare attivamente nel quotidiano e proseguire con sempre maggiore entusiasmo.
Per questi motivi, per l’esperienza che mi porto addosso come somma degli errori, non mi convince questa specie di “tolleranza zero” verso i più giovani, come per i più esposti ai rischi estremi.
Forse a questi ragazzi spinti in avanti al frontale dell’urto dialettico e fisico, che senza desiderio di rallentare affermano di non aver paura della morte, è il caso di controbattere con una pedagogia esperienzale: voi non avete paura della morte, avete paura della vita, perché non esiste “il caso”, esistono le scelte.
Per quanto sto vivendo io, camminando con i giovanissimi, mi piace pensare a un buon libro; lo si legge da soli, ma non si è soli davvero, perché in compagnia delle nostre forze. Quando le righe si saranno sommate le une alle altre, ed i pensieri avranno scavato la fossa alle incoscienze, sarà come essere entrati nella nostra storia, ma con la sensazione di non essere più come eravamo.

Vincenzo Andraous Carcere di Pavia e
tutore “Casa del Giovane”
ottobre 2001 Pavia


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 un ex preside    - 21-10-2001
QUALE SCUOLA PER I RAGAZZI DEL DUEMILA?

Molti adulti che come me, da bambini, hanno frequentato la scuola gentiliana, dove la classe era il luogo dell’ascolto e del silenzio, dove il docente dall’alto della sua cattedra deteneva un potere incontestabile, guardano alla scuola di oggi con perplessità e qualche sospetto.
Classi rumorose ed effervescenti, insegnanti indaffarati in progetti e complesse sperimentazioni, orari flessibili e prolungati, laboratori teatrali e multimediali, attività integrate con le offerte formative del territorio hanno cambiato il volto di una scuola – tempio non più rispondente alle esigenze di una società moderna e proiettata verso il nuovo millennio.
Oggi che la società di massa ha fatto piazza pulita di una cultura sociale rigida e formalizzata, alla scuola spetta il compito importantissimo di tracciare confini, di selezionare informazioni, di dare ai suoi studenti gli strumenti critici necessari per imparare a districarsi nel caos comunicativo massmediatico.
Il rischio di appiattimento al conformismo culturale dominante che schiaccia e corrompe culture antiche, ricche di valori umani irrinunciabili, è sempre più presente.
Gli insegnanti impegnati in un fermento di iniziative di rinnovamento senza precedenti che agli occhi di molti possono apparire contraddittorie, sono chiamati più di prima ad un impegno straordinario capace di salvaguardare valori che si offuscano, educare i loro allievi all’autonomia e alla responsabilità, a recuperare nella comunità in cui operano la memoria storica altrimenti destinata all’oblio.
Cosa sono infatti la miriade di iniziative di ricerca sull’ambiente, le attività di studio sull’evoluzione dei costumi, i laboratori che ricostruiscono con tecniche tradizionali i lavori di una volta?
Ma la nuova scuola non è più soltanto salvaguardia della tradizione, essa è il luogo dove la contemporaneità fa il suo ingresso sempre più prepotentemente. Dai giornali in classe alla fruizione/produzione di prodotti multimediali e informatici, gli studenti vivono nelle loro aule una molteplicità di esperienze che li prepara ad affrontare con naturalezza la complessità di una società in rapida trasformazione.
Contraddizioni, ritardi, difficoltà a convertirci a metodologie educative rinnovate, a rapportarci armonicamente con gli altri soggetti educanti, restano comunque elementi presenti in questo scenario dinamico e appassionante da nuovo millennio.
Ma non è rimpiangendo la scuola del ‘silenzio’ che noi educatori dialogheremo con i giovani del duemila, ma accettando la sfida di una generazione che parla già la lingua del futuro.


Art. di Fondo apparso nel giornalino "La classe non è acqua" curato dal prof. G.Papi - Istituto Comprensivo - Sindia (NU) a.s. 1999/200