L'imbonitore
Federica Ricci Garotti - 14-01-2003
L'insegnante poeta, l'insegnante narratore di fascino, l'insegnante grande declamatore, retore, mentore, salvatore di menti è sicuramente un'immagine affascinante, ma temo destinata al fallimento così come lo è stato l'insegnante ricercatore. Al di là delle opinioni personali c'è da considerare che queste definizioni andrebbero accompagnate da un bel "nonostante": ossia l'insegnante poeta, lnarratore , declamatore, retore, mentore, salvatore di menti NONOSTANTE (la violenza e l'ignoranza sociale, la Tv, i mestieri desiderati dagli alunni, i calciatori, le veline, i falsi idoli del tempio: cui prodet?)
Però, però però...C'è del vero nella sottolineatura che tra gli aridi indicatori delle mappe sulla professionalità insegnante deve ricomparire la parola "piacere". Il piacere di insegnare, ma anche il farsi piacere ciò che si insegna nel tentativo di farlo piacere anche agli altri, il far trovare nella lettura o nel componimento, nel ragionare o nel risolvere problemi lo stesso piacere che si prova comprando un vestito nuovo o mangiando cioccolata. Credo che tutti coloro che, come me, da anni si spendono nella definizione della professionalità insegnante e della didattica come scienza debbano cominciare a considerare il piacere alla stessa stregua della competenza.
A un patto, però. Una condizione che deve essere molto salda.
Che le qualità oratorie e poetiche dell'insegnante non siano solo una scorciatoia per ristabilire la supremazia della lezione frontale.
Ricordo benissimo che in settembre, durante un convegno sulla didattica, fui letteralmente assalita da alcuni colleghi, ordinari "costretti" dai nuovi doveri dell'università ad occuparsi di didattica e non più di accademia e di ricerca, perchè sostenevo che la didattica non fosse una cenerentola relegata in cucina dalla matrigna pedagogia e dalle altre sorellastre accademiche, ma una scienza vera e propria che contemplava quindi anche una serie di competenze specifiche.
Gli ordinari minacciati da questa new entry plebea nell'aurea accademia mi rispondevano che non era così, poichè l'unica competenza richiesta agli insegnanti era quella di essere dei buoni narratori, degli affascinanti affabulatori, appunto, dei maestri in quell'arte oratoria che altro non è che la bella lezione in cui io, l'insegnante affascinante, ho parlato tanto e i miei alunni non hanno fatto altro che ascoltare rapiti.
Traduzione: siccome non siamo capaci di fare altro che conferenze perchè così ci hanno insegnato all'università, ben venga il ritorno alla bella lezione che lascia lo studente in balia della mia bella ars retorica, incapace di pensare, di reagire, di essere attivo semplicemente perchè non gli viene chiesto altro che di fare lo spettatore; e siccome questo è quello che sappiamo fare, l'insegnante può anche non essere un grande narratore, ma deve di certo essere un trasmettitore di teorie altrui, teorie che si elaborano ai piani alti (l'università), di cui gli insegnanti dei piani bassi, bravi narratori o no, siano solo gli esecutori, i manovali, tutt'al più i geometri ma certo non gli architetti, i bravi amanuensi ma non gli autori.
Se il piacere deve tornare ad entrare nella scuola (ammesso che ci sia mai entrato), non può essere sufficiente una bella voce impostata ed il fascino personale (quando c'è). Penso che bisogna interrogarsi ancora su cosa vogliamo fare degli studenti. Forse farne degli ascoltatori, per quanto rapiti e compiaciuti, è troppo poco per affrontare la vita.

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