tam tam |  teatro  |
Il mio nome è Caino
Del Teatro - 08-01-2003

La scheda

Autore: Claudio Fava
Artisti: Giovanni Moschella, Totò Onnis, Maurizio Pugliesi, Federigo Ceci, David Coco, Ninni Bruschetta, Franco Cicero, Angelo Campolo
Regia: Ninni Bruschetta
Scenografia: Mariella Bellantone
Musiche: Dounia
Prossimamente: a Messina dal 22 al 26 gennaio


La recensione

Che bel coraggio ha mostrato Ninni Bruschetta, con la sua compagnia Nutrimenti Terrestri, nel mettere in scena Il mio nome è Caino di Claudio Fava. Coraggio come atto di civiltà, come impegno intellettuale, come profondo e intenso atto d'amore per il teatro. Perché da questo spettacolo, essenziale e pungente come una stilettata, viene fuori un'idea di teatro antica ed estremamente contemporanea: spazio di confronto con l'Altro, con la diversità inconcepibile, ma anche di riflessione sul sé e sul senso di una società «deflagrata dal dolore».

Claudio Fava ha scritto un romanzo in cui dà voce al «male assoluto», alla totale mancanza di morale condivisa, all'immaginario sanguinario di un travet dell'omicidio: Caino, appunto, figlio e nipote di mafiosi, selvaggio burocrate della morte. A un mese esatto dalla presentazione dello «studio», che aveva affascinato il pubblico romano, ora lo spettacolo giunge a una sua compiutezza e compattezza: presentato in prima nazionale al Lauro Rossi di Macerata, conferma le aspettative, e anzi amplifica gli effetti. Lavoro volutamente «sgradevole», impastato com'è di feroce e lucida determinazione, assolutamente antiretorico, decisamente lontano dal «buonismo» dominante, Il mio nome è Caino crea un sottile disagio nello spettatore.

Lo spettacolo si apre con un vero e proprio film: Bruschetta, infatti, mescola sapientemente i generi, e fa un uso spregiudicato dell'immagine: non un video a uso e consumo del teatro, ma un film (con tanto di titoli di testa e di coda) proiettato su uno schermo gigante che fa da fondale allo spettacolo dal vivo. Film ambientato in Sicilia, naturalmente, con sottotitoli a tradurre il dialetto oscuro dei protagonisti (peccato, però, quei refusi...) cui è demandato il mostrare la parti più cruente del racconto. La storia di Caino, così chiamato perché non ha avuto scrupoli nel far uccidere il suo più caro amico, è narrata in prima persona, vissuta in quell'istante sulla scena: Caino (l'ottimo Giovanni Moschella), racconta di sé, della famiglia, della «carriera» criminale, riflette sul suo ruolo e sul suo essere. Silenzioso, lento, strafottente, autorevole, rispettato, diffidente, potente: Caino è il boss, il più malvagio. Racconta del nonno, il patriarca-contadino, per il quale era importante solo l'orizzonte geografico del piccolo paese: il rispetto dei concittadini, qualche esplosione di violenza, sono tutto per questo «padrino» all'antica (cui dà voce e corpo Maurizio Pugliesi). Alla sua morte, in una scena di brookiana bellezza, si impone Caino: pronto a rinnegare tutto, pronto a uccidere tutti. Non ha vendette particolari, odi che lo attanagliano, no: vuole solo fare il suo mestiere. Incontra politici untuosi e affaristi senza scrupoli (come il palazzinaro gigione in smoking di Totò Onnis, che si presenta cantando Night and Day...), uccide ed esegue ordini, in un'ascesa inarrestabile, fino a che non decide di fare di testa sua. Deve eliminare un politico, votato al martirio: Ravidà, uno che parla troppo, che fa manifestazioni, «uno che si indigna». Uno che è pronto a morire, pur di dire la verità contro la Mafia. Ed è per questo che Caino decide di non ucciderlo: per non fargli un regalo... Come Riccardo III, così Caino pecca di eccessiva coerenza con il proprio violento ragionare. Ed è per questo che verrà condannato. Ninni Bruschetta smaschera la finzione teatrale, facendo interloquire film, prosa e musica dal vivo (le composizioni eseguite sul palco sono dei Dounia), e gioca con linguaggi e toni diversi ma sempre con attenzione raffinata a uno stile semplice e rigoroso. Affida ai tre interpreti il difficile ruolo di attori, di narratori, di «maschere»: non ci sono eroi positivi, qui, non c'è salvezza. Solo la drammatica evidenza di una civiltà allo sbando, di una violenza diffusa, di un'arroganza sistematizzata, di un cinismo sempre vittorioso. Sembra quasi che non ci sia dolore, nel mostrare quel mondo privo di scrupoli: eppure quell'amarezza crescente che attacca lo spettatore, quel silenzio «mortificato» con cui la platea segue attentamente la storia, quel buio che avvolge tutto e tutti, squarciato da fendenti di luce, sono segnali che sulla mafia c'è ancora molto da dire e da sapere. Ed è qui che il teatro, allora, salotto consunto di incontro e di discussione, svela ancora la sua antica forza. (12 dicembre 2002)
andrea porcheddu





By Claudio Fava
Jan 31, 2002, 5:10pm



Il primo colpo è un pugno che spezza il fiato nei polmoni e schiaccia le spalle contro il muro e ti sembra che sia uno scherzo e hai voglia di dire qualcosa, di fare qualcosa ma senti che le braccia si fanno torpide e le parole ti muoiono in bocca. Il secondo colpo è un chiodo che si conficca dentro il petto e lo ascolti mentre scava, rompe, piega, frantuma come se non dovesse fermarsi più. Il terzo colpo è una spina di acciaio: spacca il cuore, veloce, affilata. Poi un altro colpo, e un altro ancora, ancora colpi: ma io non ci sono più. Sono morto, ormai. Stupito per quelle raffiche che si accaniscono sul mio corpo e intanto si alza ruggito di schegge di ferro e lo schianto delle vetrine che si frantumano sotto le pallottole e gli sguardi della gente attorno a me, sguardi muti, gonfi di orrore.

Mi hanno ucciso il cinque marzo. A Palermo, in fondo a una circonvallazione di alberi magri, sotto un cielo carico di nuvole nere e asciutte. Aveva smesso di piovere e sull’asfalto era rimasto un velo lucido, una schiuma d’acqua su cui i copertoni delle auto slittavano a ogni frenata con una specie di lamento. A Palermo è sempre così: le sirene dei polizziotti, le ruote che graffiano la strada, una premonizione di morte che non ti abbandona mai. Per me è stato diverso, non ho avuto bisogno di raccogliere premonizioni: ormai sapevo già. Al caso, avevo lasciato solo il luogo e il tempo. M’è toccato questo rettilineo di alberi rinsecchiti dai fumi delle auto, in una sera di pioggia tiepida. Vapori d’umido, nuvole basse, nere. Tutto sommato, una morte siciliana.


  discussione chiusa  condividi pdf