«Presidenza lunga» e «Principato». Note a margine del referendum
Giuseppe Aragno - 28-08-2016
Bisognerebbe ringraziare Umberto Nobile, sfortunato protagonista di trasvolate polari, che si trovò contro Balbo e il fascismo, scelse l'esilio nell'Unione Sovietica e negli Stati Uniti e fu eletto deputato alla Costituente, tra gli indipendenti nelle liste del PCI; con lui merita un ricordo per la cultura e la passione civile, Paolo Rossi, giurista e perseguitato politico eletto alla Costituente, al quale i fascisti bruciarono lo studio e la censura bloccò i libri che aveva scritto. Rossi scrisse della «pena di morte e della sua critica» in un Paese così imbarbarito, da ripudiare Beccaria e tornare alla pena capitale. Sul significato storico della parola «tornare» manca - e sarebbe molto utile - uno studio accurato, in un Paese che ritiene attuale il codice penale fascista, ma rottama la Costituzione nata dalla Resistenza e lo fa, in un'Europa tornata alla guerra con la tragedia balcanica, tornata al colonialismo con i raid sulla Libia, tornata al razzismo, tornata ai confini sbarrati, tornata ai campi d'internamento, tornata allo sterminio quotidiano, che oggi tocca ai migranti, e tornata alle alleanze con i «dittatori amici».
Bisognerebbe ringraziarli, perché seppero difendere una norma che poteva sembrava superflua e oggi costituisce l'articolo 139, l'ultimo della Costituzione, quello che afferma un'apparente ovvietà: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». E' questo il testo definitivo e lo si deve a Nobile. In tanti lo ritenevano inutile e antigiuridico, ma per fortuna Gronchi, esprimendo il voto favorevole dei democristiani, ricordò che la forma dello Stato era stata scelto con un referendum ed era quindi «evidente che [...]essa non potrebbe essere modificata che da una consultazione diretta fatta nella stessa forma attraverso la quale essa è sorta». Quell'articolo. «ha il valore di una solenne affermazione politica che la prima Costituzione italiana non può, in alcun modo omettere», sostenne Rossi, perché l'immutabilità della forma repubblicana conclude quasi tutti gli ordinamenti giuridici repubblicani.
Quanti di quelli che hanno approvato la nuova Costituzione conoscono le attuali Costituzioni repubblicane? Quanti hanno letto le migliaia di pagine con le discussioni dell'Assemblea Costituente? Probabilmente nessuno. La stragrande maggioranza non le conosce, benché quelle pagine spieghino le ragioni storiche, politiche ed etiche per cui la Costituzione è come noi la leggiamo. Ripugna alla coscienza che qualcuno cambi qualcosa senza conoscerla a fondo, soprattutto se si tratta di Costituzione, perché gli eventi degli ultimi anni hanno dimostrato che, se gli interessi in gioco lo richiedono nulla può esser dato per certo, nemmeno la forma repubblicana. Giorgio Napolitano, infatti è stato eletto due volte Presidente della Repubblica. Poteva farlo? Si è detto che la Costituzione non lo proibisce. Ed è vero. Ma essa non proibisce nemmeno che qualcuno sia eletto tre, quattro e pure cinque volte. Napolitano ha potuto introdurre così una novità assoluta, che per ora, spiace per Rossi, Nobile e Gronchi, potremmo definire «Presidenza lunga», o forse meglio «Principato di Napolitano». Qualcuno, percorrendo la sua via, potrà domani prolungare il soggiorno al Quirinale per il numero di volte che gli sembrerà opportuno. La Costituzione non si pronuncia e un Parlamento riformato come vogliono Renzi, Boschi e Verdini si limiterà ad approvare.
In realtà, sulla rielezione del Presidente della Repubblica c'è stata una inspiegata amnesia collettiva ed è sembrato che alla Costituente non se ne sia parlato. In realtà se ne parlò e sulla rielezione, soprattutto immediata, prevalse il dissenso. Lussu, ad esempio, propose di limitare a cinque anni il mandato, e il socialista Antonio Costantini dichiarò che «il carattere parlamentare della Repubblica» rendeva «impossibile la perpetuazione della tendenza al potere del Presidente eletto». Salvatore Aldisio, cattolico e antifascista, fu per la rielezione per «non più di una volta», ma chiese un mandato di sei anni. Replicando, il socialista Lami Starnuti chiese di tenere fermi nel testo i sette anni, ma di aggiungere che il Presidente «non è rieleggibile». Una scelta saggia che non trovò fortuna. Paolo Rossi, perplesso, suggerì allora una modifica alla modifica: «non è immediatamente rieleggibile», ma non ebbe fortuna. Sul tema tornò Togliatti in seduta plenaria Togliatti, chiedendo di aggiungere la non eleggibilità consecutiva e Nitti, precisè che avrebbe ridotto il mandato a quattro anni, per limitare i danni di eventuali rielezioni. Fu il giovane Aldo Moro a prendere in considerazione la rielezione di un «buon presidente» ma prevalse infine la necessità che un presidente durasse in carica per sette anni, in modo da garantire la stabilità del sistema. Sulla rielezione ci furono aggiunte nel testo, ma l'andamento della discussione e le preoccupazioni di uomini di Lami Starnuti, Lussu, Togliatti e Nitti, ci dicono che la maggioranza non era favorevolea. In un Parlamento privo di legittimità, però, nessuno, meno che mai Giorgio Napolitano, ha voluto tenerne conto. Di fatto, un presidente rieletto non s'era mai avuto e ci sono voluti un pessimo Presidente e un Parlamento di «nominati».

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