Quando fu sancita l'incostituzionalità della legge elettorale da cui nasce l'attuale Parlamento, un moderato come Zagebrelsky non usò mezzi termini: la Consulta aveva assestato un ceffone alle Camere. Erano giorni di caos. Grillo chiedeva la cacciata degli «abusivi» e c'era chi, non a torto, si interrogava sulla legittimità costituzionale e giuridica di gente che nessuno aveva eletto. Un dato di fatto feriva le coscienze democratiche: dopo aver tenuto in vita il Codice Rocco di mussoliniana memoria, la Repubblica antifascista assisteva ora alla macabra riesumazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, col rischio paradossale che fossero proprio loro a mettere mano alla Costituzione antifascista.
La ferita era profondissima: Il colpo infatti era stato portato direttamente al rapporto tra il «potere delegato» e il «delegante», vale a dire al fondamento della sovranità e alla sua fonte, il popolo cioè, cui essa appartiene per dettato costituzionale. Per uscire dal vicolo cieco in cui ci avevano cacciato l'indigenza culturale, la miseria morale e una buona dose di malafede dei sedicenti «grandi partiti di governo», si cercarono punti fermi ai quali ancorarsi, per evitare un penoso naufragio. Per il «principio di continuità dello Stato» - si disse - la legge elettorale non potrà più essere applicata, ma le leggi volute nel frattempo dagli «abusivi» conservano la loro legittimità. La sopravvivenza dello Stato come Ente necessario sembrò l'unico possibile baluardo contro il caos e si accettò un principio giuridico indiscusso, ma non privo di paradossi: per evitare il caos, era necessario lasciare al loro posto tutti, anche chi l'aveva causato.
Si fece buon viso a cattivo gioco e si prese atto: una sentenza non retroattiva, in una condizione di agonia di quelle Istituzioni, che - osservarono i costituzionalisti d'ogni parte politica e scuola di pensiero - risultavano totalmente discreditate sia sul versante etico, che politico e democratico. Il triste «pannicello caldo» che settant'anni prima, sommandosi a una scellerata amnistia, aveva consentito alla classe dirigente fascista di rifarsi una verginità - la «continuità dello Stato» - poteva e doveva salvarci nell'immediato. Fu subito chiaro, però, che quella soluzione comportava rischi molto seri e poteva diventare addirittura un colpo mortale per la democrazia, se non si fosse poi giunti al rapido scioglimento delle Camere e ad elezioni non solo immediatamente possibili, ma indiscutibilmente doverose. Anche su questo tema non ci furono divisioni tra i costituzionalisti. La legge c'era - si disse - era la proporzionale come veniva fuori chiara dalla sentenza della Consulta e non c'era alcun bisogno che il Parlamento discreditato intervenisse per farne un'altra. Bastava sciogliere le Camere, che rappresentavano solo se stesse, e tornare a votare, anche perché la famigerata «continuità dello Stato», applicata a scelte pregresse, costituiva di fatto una «ferita necessaria» ma, trasformata in passaporto per una «legislatura costituzionale», sarebbe diventata uno strumento di distruzione della legalità repubblicana e un'arma pronta a colpire a tradimento la Costituzione. D'altro canto, se si fosse giunti a tal punto alla nascita della repubblica, i membri dei Fasci e delle Corporazioni, di fatto, avrebbero conservato il loro seggio in Parlamento.
Sembrava impossibile che accadesse, ma è andata invece proprio così. I «nominati», moralmente discreditati e politicamente delegittimati, stanno cambiando la Costituzione e - tutelati da una «continuità dello Stato» trasformata in oscena ipoteca sul futuro - i sedicenti «grandi elettori», che nessuno ha mai eletto, si sono scelti persino un Presidente della Repubblica, la cui legittimità politica e democratica, al di là del valore personale, è pari a quella di chi lo ha mandato al Quirinale.
Dopo Crispi, gli stati d'assedio illegittimi e la tragedia di Adua il tentativo golpista di Rudinì e Pelloux cozzò contro il muro dell'ostruzionismo parlamentare attuato d'intesa dai socialisti e dai «liberali di sinistra» guidati da Zanardelli e Giolitti. Una via parlamentare, quindi, è storicamente esistita, ma l'anemia perniciosa che affligge la rantolante democrazia ha fatto sì che nemmeno l'ostruzionismo fosse più consentito. Il secondo esperimento autoritario della nostra storia, quello fascista, finì come si sa: liquidato da una terribile guerra partigiana. Cosa accadrà stavolta non è facile dire ma, chiusa definitivamente la via parlamentare, la violenza del colpo assestato ai diritti metterebbe i nostri giovani davanti a una tragico dilemma: o una servitù rassegnata o una durissima e orgogliosa disobbedienza. La via d'uscita c'è: sciogliere le Camere, restituire la delega al delegante e consentirgli di esercitare la sovranità nelle forme prescritte dalla Costituzione. Mattarella ha un'occasione irripetibile per tornare alla legalità repubblicana e conquistare una legittimità che questo Parlamento non poteva e non può dargli.