Nell'attesa di sapere chi sarà il nuovo ministro dell'Istruzione, un'indagine ci rivela che il 72% dei giovani diplomati italiani vorrebbe andarsene all'estero. Un modo elegante per dirci, da parte delle giovani generazioni, '
vedetevela voi con la girandola dei ministri, con i mini aggiustamenti, con il tirare a campare e con tutto quello che viene in mente quando si parla di scuola'.
I giovani, quindi, un po' per scelta-un po' per forza, si 'chiamano' fuori; hanno compreso che vengono evocati da tutti, ma mai presi seriamente in considerazione. Il risultato è che cercano altrove un minimo di sicurezza insieme a (non disdegnando) un minimo di futuro.
Lo
studio eseguito da ItaliaOrienta (fondazione che lavora sui temi dell'orientamento) mette a nudo alcuni particolari da prendere in considerazione. E ne vien fuori una specie di metafora-insegnamento sul tempo presente: mentre la maggioranza degli italiani da anni si attarda in sterili discussioni tra leader e leaderini, non trovandone finora mai uno efficace, la parte sana della popolazione, i giovani, cresce per conto suo, senza solidi riferimento, ma approdando a dei risultati e a delle conclusioni. Una delle conclusioni evidenti è che non vogliono restare in Italia: sia per continuare gli studi che per un lavoro che li valorizzi, pensano di espatriare. Le mete più ambite, secondo lo studio, sarebbero Australia, Canada e Cina, che sembra anche una volontà di scappare e mettere quanti più chilometri possibili di distanza dall'Italia.
Lo studio ci dice anche che la percentuale dei nostri giovani intenzionata a iscriversi all'Università dopo il diploma è sempre al di sotto della media Ocse, che il 36% vorrebbe impegnarsi in un'attività in proprio, e che tra le facoltà prescelte la più gettonata è medicina. In ultimo, per quanto riguarda le personalità a cui far riferimento (lo studio parla di idoli), i giovani scelgono su tutti papa Bergoglio.
Partire da tutto questo per elaborare delle risposte, non sarebbe negativo.
Certo non è colpa del ministro, almeno non direttamente, ma la situazione di caos che si vive al Miur non è più occultabile. L'ultima, in ordine di tempo: gli alti dirigenti del ministero hanno prima emanato e poi revocato una
circolare che parlava di deroghe dell'obbligo scolastico per gli alunni stranieri adottati. In pratica accadeva e, secondo la circolare poi revocata, poteva continuare ad accadere, che un ragazzino di dieci anni frequentasse le scuole materne, di quindici anni le elementari e di 20 anni le medie, e questo proprio per le deroghe concesse dalla circolare. Le più elementari regole non solo della pedagogia ma della convivenza civile, ci dicono o urlano tutta l'aberrazione di una situazione del genere. Insomma l'idea che l'inclusione sia qualcosa che debba essere conquistata a fatica da chi deve essere incluso, o che per essere inclusi si debba sottostare a regole che non hanno né capo né coda, non è un'idea dura a morire, ma al contrario, è viva e vegeta nel corpo stesso del ministero.
Sì, è vero, la circolare poi è stata ritirata. È un passo avanti, ma la lotta per l'inclusione sembra appena iniziata.
Un
articolo del quotidiano Il Manifesto introduce un altro 'manifesto', quello che alcuni intellettuali hanno firmato in difesa della cultura umanistica. Tutto parte dall'idea che ormai la cultura è una merce come tutte le altre e, come tale, deve sottostare alle regole del mercato. Una delle conseguenze di questo ragionamento è che l'Università deve essere controllata da un organismo esterno, l'Anvur, che misurando eccellenze e merito, impone standard di ricerca e indicatori numerici per mantenere o chiudere corsi di studio o addirittura atenei interi. Ciò in base al criterio della produttività, prendendo a prestito il modello industriale, e quindi, per esempio, de-localizzando o chiudendo alcuni rami dell'impresa.
Ma non basta: secondo gli intellettuali firmatari la questione va oltre, perché gli assertori del mercato arrivano a inventarsi che la cultura umanistica sia staccata dalla realtà, oziosa e incapace di tener conto dei processi lavorativi. Insomma, la cultura umanistica starebbe con la testa per aria e venderebbe aria fritta. Ma è proprio questo che gli intellettuali firmatari del 'manifesto' contestano di più, l'idea, cioè, che la cultura umanistica sia semplicisticamente contrapposta alla cultura dei dati scientifici a cui dovrebbe sottostare.
Insomma, la questione è aperta. Lo scontro in corso è tra la cultura che vuole introdurre le campane della chiusura quando i conti economici non tornano, e la cultura della campanella quotidiana, quella dell'entrata a scuola di tutti, fatta di sorrisi e di emozioni.