Tutto finisce quando il telecomando spegne il televisore
Giuseppe Aragno - 08-06-2013
Alla scuola di un Paese per molti versi «vaticano», le tragiche giornate di Istanbul pongono più di un quesito e ricordano quanto conti, quanto costi e soprattutto quanto possa diventare decisiva un'estrema difesa della formazione statale laica, così come la disegna la Costituzione.
Ci sono momenti in cui la storia volta pagina. Da noi capitò poco più di tre anni fa; era il 14 di dicembre del 2010, vivevamo una crisi istituzionale di natura irreversibile, come s'è visto poi, col Parlamento impegnato in un'oscena compravendita di voti, università e scuole ridotte allo sbando, diritto allo studio cancellato e fiumi di quattrini pubblici dirottati dal pubblico al privato. In piazza, però, quel giorno si videro solo gli studenti e i soliti pappagalli indottrinati parlarono subito di violenza. Per un giorno Roma bruciò - l'incendio era tutto in Parlamento - ma si inferocì sulla piazza e c'è ancora chi paga. Gli apologisti delle rivolte in casa d'altri puntarono il dito e in quanto ai docenti, quelli se ne stettero eroicamente a casa. I risultati sono ora sotto gli occhi di tutti, ma non ce lo diciamo. Meglio ammirare stupiti il coraggio dei turchi.
Mi sono trovato per caso a Istanbul mentre la protesta si accendeva. Quasi come un'ossessione, mi accompagnava, bella come una speranza, minacciosa come una profezia, la chiusa d'una poesia di Hikmet: «so che ancora non è finito / il banchetto della miseria ma / finirà...». Ho sentito la rabbia pulsare nelle vie eternamente chiassose, come senti talora, nelle notti insonni, l'inesorabile ticchettio d'un orologio. «Non c'è nulla di sereno nel rumore apparentemente festoso delle vie», mi son trovato a pensare, poi, come d'incanto, da improvvisate barricate, del loro grande poeta, i giovani hanno preso a ricordare una massima che non conoscevo: «Muore un albero. Si sveglia una nazione».
La Turchia si è svegliata. Doveva accadere, era questione di tempo e a me pareva di saperlo quando lasciavo gli altri e me ne andavo in giro da solo per provare a capire. I motivi profondi della protesta pronta a sfociare in rivolta si intuivano. Bastava osservarla, la Turchia laica con i segni evidenti d'una recente ferita; li scoprivi nella birra rifiutata al passante che si fermava stanco, in cerca d'ombra, nel dedalo di viuzze e locali ai piedi della collinetta dei musei archeologici, cento metri più in là dal saliscendi di Sirkeci, la fermata dei tram perennemente affollati; l'impronta di Ataturk sembrava sparita nel pullulare dei veli, nella funerea «mise» nera di tante giovani donne, su cui si aprivano a stento fessure per gli occhi. Cos'era, se non minaccia d'incendio, l'ira straripante di un italiano trapiantato sul Bosforo, che rimuginava sulla triste sorte della sua fede greca ortodossa? Cos'era se non un segno di forte sofferenza quel suo fermarsi ripetuto e insistente su un pericoloso «processo strisciante di islamizzazione», quel suo segnare a dito «pipistrelli» e «bacarozzi», come definiva le giovanissime fondamentaliste, in un linguaggio feroce che sapeva di razzismo?
Non era facile comunicare, ma bastava uscire dai circuiti del turismo, per sentire la lotta che si stava accendendo; uno sguardo al contegno d'una polizia tutta elmetti, scudi e lacrimogeni, pronta a materializzarsi dal nulla al primo fruscio d'una foglia persino nella turistica Piazza del Sultano, per cogliere la decisione: difendere con ogni mezzi una islamizzazione subdola e sottotono, ma non per questo meno minacciosa e virulenta. A grattare sulla superficie dorata dell'apparenza, nonostante la prudenza, le difficoltà della lingua e la distanza delle culture, c'era chi te lo diceva chiaro che nelle scuole i docenti, «invitati» a favorire comportamenti ispirati a valori e regole tipiche dell'Islam, «mordono il freno».
La lotta non è nata per gli alberi di un parco. C'è un Paese esposto a un lavoro metodico, lento ma inesorabile, che lo spinge verso un'idea religiosa dello Stato; un Paese in cui chi può manda i figli a studiare all'estero e spera di non vederli tornare. Certo, ognuno a suo modo e sono apparentemente due mondi: lì si «indirizza» pesantemente verso un cambiamento che è arretramento, qui da noi si accentua progressivamente una sottomissione antica; lì Erdogan «confessionalizza» prudentemente ciò che il kemalismo rese laico, qui si torna a «istituzionalizzare», parificando e finanziando, ciò che dopo il Fascismo la Costituzione aveva messo ai margini della politica. Nell'uno come nell'altro caso, però, la formazione è chiave di volta nello schieramento confessionale. Lì, ai primi seri segnali, la risposta è giunta compatta e in piazza i docenti hanno rischiato coi loro studenti. Qui è tutto chiaro da almeno tre anni e poiché l'ostacolo è la Costituzione, si mette mano alla Carta. In un Paese pieno di piazze, però, una risposta compatta non viene. A lasciarli soli anche stavolta gli studenti, in nome dei mille particolari orticelli, ognuno coglierà forse una sua effimera vittoria tattica, qui l'acqua, lì la spazzatura, ma tutti assieme rischiamo di perdere definitivamente la partita strategica. Francesco impazza, Letta risponde all'incartapecorito sovrano del Quirinale e Camere ammutolite si fanno garanti del colpo di mano. La Turchia s'è svegliata. L'Italia finora una piazza Taksim non l'ha trovata.
Eterni spettatori del nostro dramma, noi ci elettrizziamo a guardare chi scende in campo e gioca la sua partita: «Viva la Turchia laica!» si è sentito gridare. A nessuno però è passato per la testa che molta tragedia turca è italiana. Tutto, qui, in fondo, riguarda gli altri: spari, urla, lacrimogeni, elicotteri della polizia che si alzano in volo, i gas con la loro nuvola cupa. Da noi accade di tutto, ma tutto finisce quando il telecomando spegne il televisoee.

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