Succursale Italia
Emanuela Cerutti - 28-01-2012
Inizialmente mi è parso strano: la proposta di abolizione del valore legale del titolo di studio avviene a poca distanza dall'introduzione di una nuova certificazione, che ha compiuto il suo primo anno di vita proprio in questo mese di gennaio 2012.
Mi riferisco al "Livello A2 di conoscenza della Lingua italiana", necessario agli stranieri che fanno richiesta di permesso di lungo periodo, secondo la normativa europea. Ne abbiamo trattato su queste pagine e non mi dilungo.
Mi soffermo invece sull'apparente contraddizione. Da un lato il mercato del lavoro si apre a forme di reclutamento liberalizzate, nelle quali conta di più il contenitore del contenuto e il prestigio dell'ente certificatore garantisce meglio di quanto possa la dichiarata competenza del laureato.
Dall'altra la stessa competenza mantiene invece il suo valore tout court e se il titolo non c'è il foglio di carta è messo in attesa.
Naturalmente anch'io mi faccio prendere dalla voglia di semplificazione e non introduco osservazioni pure importanti. Per esempio non sottolineo che, per lo meno e per ora, il percorso universitario non viene soppresso, mentre eventuali percorsi scolastici utili agli stranieri interessati non sono neppure presi in considerazione: se rapportiamo con obiettività offerte e domande, ossia risorse economiche e umane agli enti preposti, i Centri Territoriali, e numeri dei candidati - nella sola Lombardia sono stati qualcosa in più di 25.000 fino allo scorso dicembre - ci rendiamo conto che venticinquemila persone non ce l'avrebbero fatta a iscriversi ai Corsi di italiano, gli organici non sono acqua.
E non sto troppo a pensare che il futuro avvocato ha a disposizione qualche anno per esercitarsi sul Codice Civile, mentre l'istituzione non prevede, per il "futuro" cittadino, spazi e tempi necessari e sufficienti per imparare la lingua del paese in cui abita, lavora, guida, cura e fa studiare i suoi figli, spende soldi e paga le tasse. Non sto troppo a pensare che basta un test per spianare la strada all'integrazione.
Rimango sulla contraddizione, perché, nonostante siamo in democrazia e la diversità dei punti di vista rappresenti una nobile ricchezza, qualcosa non mi convince. Com'è che di qui il ranking sostituisce il merito e di là lo stesso merito si trova a fare i conti solo con la personale buona volontà, senza coperture, facilitazioni e tutto sommato nemmeno speranze?
Com'è che di qui qualcuno farà da garante e di là i ritenuti garanti vengono bacchettati [cfr rassega stampa Cgil Bergamo 13-01-12, pag.11] senza tante storie e un po' alla chetichella?
Vuoi vedere che non di contraddizione si tratta, ma di lineare e unico atteggiamento dai toni discriminatori?
E che il vero discriminato non è solo il cittadino italiano laureato, o il cittadino straniero regolare, ma il concetto di "pubblico", come terreno di pari opportunità e uguaglianza di norme per tutti i cittadini? Se così fosse, l'obiettivo sarebbe sempre più di offrire alternative a quanto, nel pubblico, lavora in tale direzione, a prescindere da interessi o senso degli affari come primum movens.
Vedremo: ai laureati ci penserà la consultazione nazionale, agli stranieri tavoli di vario genere. Come si addice in democrazia. Il tempo è sempre un buon consigliere. E magari lo stesso accordo di integrazione, che suggellerebbe il permesso a punti, slitterà a settembre.
Intanto però vale la pena di attivarsi, Regioni, Province, Prefetture, Enti, Fondazioni, Associazioni e Opere varie della succursale Italia: i Fondi europei non aspettano.

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