Amore, distacco, nostalgia: noi, orfani di quelle «visioni»
Massimiliano Fuksas, architetto
N el 1972 ero un giovane architetto che costruiva la sua prima opera: Il palazzetto dello Sport a Sassocorvaro. Nelle Marche, quasi al confine con la Romagna. Come buona parte della mia generazione di ex studenti, continuavo a frequentare l’università, questa volta dalla parte degli insegnanti. Era stata talmente importante l’epoca della scuola, che tentavamo di prolungare quel tempo oltre i confini della laurea. Calvino negli anni ’70 era divenuto una specie di «manuale» per gli architetti. La fortuna che ha avuto
Le città invisibili è solo paragonabile a quella avuta all’inizio degli anni ’60 dal
Giovane Holden . Fu probabilmente un tentativo di uscire dalla pesante saggistica politica di quegli anni. Lo spirito «onirico» dell’inizio degli anni ’70 corrispondeva anche a frammenti di fuga dalle manifestazioni di piazza durissime. Era anche eludere la violenza crescente, le stragi degli anni di piombo, da piazza Fontana a Brescia, all’Italicus. Il gioco del «doppio» - la città terrena e la città sospesa. Bersabea come espressione di quanto di più straordinario pensabile (città d’oro massiccio con porte in diamanti: una città gioiello) - affascinò la mia generazione. Eusapia, la città sotterranea e in superficie. I vivi che diventano morti, i morti che si atteggiano a vivi. Ma poi la lettura di Borges, contemporanea a Calvino, ridusse sempre di più il secondo a un «lettore», un compilatore, seppure di genio. Il distacco fu lungo fino alla metà degli anni ’80. Il mondo ideale, sognato, e interpretato dagli intellettuali, era crollato sotto il decennio del terrore degli anni ’70 e quello dell’impazzimento edonista degli anni ’80. Si incominciò a pensare che era possibile trasformare il «negativo» in «energia positiva». Ai modelli, alla teoria, alla rigidità sistematica, alle tipologie e morfologie riduttive, contrapponevamo «il bello del brutto». Attraversammo il deserto delle periferie, delle stazioni di servizio, delle città diffuse e senza centralità. Visitammo i luoghi della disperazione dove la maggioranza degli uomini vive, si innamora, soffre e ha attimi di felicità. Calvino in questo periodo mi era lontano. «Le città sottili», si assottigliavano, scomparivano all’orizzonte di contesti incoerenti. Delle «città invisibili» all’inizio degli anni ’80 mi rimanevano le assonanze con i precedenti Flatlandia e il ricchissimo per spunti Little Nemo . Di Calvino in quel periodo mi interessava più l’allegoria contro il potere di uno dei cinque sensi, l’«Udito». L’allontanamento dal mondo per il potere. La stupidità immediata che segue la conquista del potere per il nuovo dominatore. Mi affascinavano più dei sogni e dei modelli. Le cinque lezioni americane , ecco! Questo fu il ritorno a Calvino. Come dicevo, dopo aver attraversato il deserto, giungemmo inesorabilmente in una società priva di prospettive, di «visioni». Le città invisibili ci riportano inspiegabilmente a quel mondo che trent’anni fa abbiamo bruscamente abbandonato: l’utopia per la quale vivere con passione. Ripenso all’emozione di Duo , composta da Calvino e Berio, anticipatrice del mio favorito Un re in ascolto , visto a Salisburgo. Calvino parte da Parigi, dove si era trasferito, nel 1980. Io ci arriverò nel 1981 dopo la vittoria di Mitterrand alle elezioni presidenziali. Le città e la memoria , simbolo ed emblema per intere schiere di architetti, portò all’abuso sia della parola città sia della parola memoria. Preferivo dimenticare, l’oblio, non ricordare il giorno dopo quello che avevo pensato e disegnato durante la veglia. Mi tenevo lontano da tutto quello che poteva essere ripetitivo. Ogni giorno doveva essere un giorno nuovo, imperfetto e appassionato. Ci mancano Calvino e la certezza critica di Pasolini. Siamo orfani di «visioni» e «critica». Che ne direste di rileggere dopo trent’anni
Le città invisibili ?
Un libro che era un «manuale» per gli architetti: il nostro «Giovane Holden»