Lavoro e conoscenza
Roberto Albertini - 08-03-2011
Inutile negare la complessità del mondo, i conflitti vecchi e nuovi che contrappongono interessi, concezioni della vita individuale e sociale, la storia è anche un fardello sulle nostre spalle.
Ma.
Ma la complessità non può essere l'alibi per la paralisi delle idee, delle azioni. Deve sostenerci innanzitutto un' etica. L' etica del vero contro il falso, del giusto contro l'ingiusto, della libertà contro la costrizione.
Il rispetto della vita tutta, umana, animale, vegetale.
Bisognerà allora operare alcune semplificazioni nelle analisi ma capaci di cogliere i nuclei effettivi dei fatti, senza farsi distrarre da parziali eccezioni. E dunque...

IL LAVORO: Ideazione ed azione umana di trasformazione della materia inanimata ed animata per conseguire un risultato: Modificare la propria condizione di vita nell' ambiente dato. Raccogliere, selezionare, cacciare, pescare, costruire, coltivare. Ma anche conoscere, rappresentare, relazionarsi, godere della bellezza, sognare. Molti certo meglio di me nel passato e nel presente avranno cercato e proposto definizioni più appropriate e calzanti, ma a me importa solo affermare una verità che sento soggettivamente mia: amo fare, costruire, ideare, trasformare per quanto posso l' ambiente in cui vivo. Il lavoro dunque è una ESIGENZA insopprimibile della sfera umana, non solo la risposta necessitata al soddisfacimento di bisogni di sopravvivenza.

Ma conosciamo tutti la storia. Cosa è divenuto oggi il lavoro? Prego tutti di non volersela cavare con accuse di veteromarxismo e semmai di contrapporre a queste mie sommarie definizioni altre più vere. Bene, nelle nostre società sviluppate il lavoro è uno dei fattori del sistema di produzione delle merci. E quando parliamo di "sistema di produzione" parliamo di qualcosa di molto complesso che incorpora la scienza, la tecnologia, il sapere tutto costruito dall' umanità in precedenza e condensato in un insieme di mezzi all' interno del quale il lavoro di ognuno viene inserito. Ma tutti i mezzi usati per produrre le merci sono merci a loro volta. E il lavoro non fa eccezione.
Ma il valore di una merce è stabilita dal mercato, dall' offerta e dalla domanda. E seppure storicamente il lavoro è una merce il cui valore è il frutto di relazioni politiche, sindacali, sociali, istituzionali, insomma dalla storia civile di ogni paese che ne ha delimitato regole e diritti in misura maggiore o minore, non bisogna mai dimenticare che per il mercato e tanto più per il mercato capitalistico, il lavoro è una merce come le altre.

Chiedo venia a chi legge se tutto ciò apparirà ovvio o banale ma mi è sembrata una premessa necessaria ad arrivare ad un punto essenziale che riguarda l' oggi e il domani della questione.

I sistemi di produzione creano merci, queste incorporano valore, creano quindi ricchezza. Tutti gli indicatori concordano su un punto: la QUOTA di ricchezza prodotta che viene trasferita e restituita agli esseri umani che con il loro lavoro hanno contribuito a produrla si RIDUCE costantemente da almeno un trentennio. Bisognerà pure interrogarsi sul perché questo fenomeno avviene costantemente da tanto tempo ed è alla base di uno dei paradossi senza precedenti storici: per la prima volta nell' occidente sviluppato le società capitalistiche industriali e/o post industriali non sono in grado di promettere o assicurare alle future generazioni una condizione di vita materiale MIGLIORE di quella delle generazioni che le hanno precedute. Non c' è all' orizzonte una idea di PROGRESSO SOCIALE.

Un altro elemento da introdurre è che la capacità produttiva dei nostri sistemi è assolutamente sovradimensionata. Gli aumenti di produttività per addetto sono enormemente cresciuti e continuano a crescere. Serve MENO LAVORO e MENO LAVORATORI per produrre le merci. La domanda è assolutamente inferiore all' offerta. Ogni stratagemma viene usato, primo tra tutti produrre beni con cicli di vita sempre più brevi per sostenere un mercato di sostituzione, con quali effetti disastrosi sull' ambiente è assolutamente evidente.
La risposta a questa crisi del meccanismo è stata molteplice. Esistono ormai un numero esorbitante, forse ormai maggioritario, di LAVORI VIRTUALI. Attenzione, non parlo solo del settore degli scambi finanziari, ma di quell' insieme di attività di intermediazione che si occupano di come trasferire ricchezza, danaro, beni, servizi, svolti o posseduti da altri verso altri.
Sono lavori che non creano alcun valore ma che drenano e trasferiscono verso chi li svolge parti sempre più consistenti della ricchezza prodotta.
Se ci sono dieci produttori di prosciutti che si contendono il mercato con la pubblicità degli uni contro gli altri, ognuno di essi investirà percentuali spesso pesanti dei ricavi in tale contesa. Alla fine acquistando il prosciutto noi trasferiremo parte del nostro reddito di consumatori e quindi parte della ricchezza prodotta dal nostro lavoro, a chi ci ha convinti a scegliere un prosciutto piuttosto che un altro. Ma se smettessero tutti e dieci di investire in pubblicità forse sarebbero diversi i prosciutti ?
Ciò che a me sembra quindi entrato in crisi è un paradigma innanzitutto culturale: usiamo i medesimi modelli delle relazioni economico sociali del '900 a fronte di una DISCONTINUITA' strutturale.
Ma l'aumento della produttività non è l' unico elemento che riduce il valore della merce lavoro.
Le capacità, conoscenze, competenze, abilità necessarie alle persone per svolgere il loro lavoro SI RIDUCONO globalmente e in modo costante da almeno un trentennio ed anche questo contribuisce alla caduta verticale del valore del lavoro.
Su questa affermazione, che per me è soltanto la constatazione di un fatto evidente, è però difficilissimo trovare consenso anche tra chi ha una visione critica dei processi sociali ed economici.
Siamo infatti abituati ad una lettura della storia umana in termini di PROGRESSO a largo spettro. Anche la sinistra che della storia ha una visione come storia di conflitto tra interessi diversi, tra soggetti sociali anche antagonisti, è diffusa l' idea che, comunque, pur con tutte le ingiustizie, le disuguaglianze, le guerre, i conflitti sociali, lo sviluppo della scienza, della tecnologia, della democrazia porta con sè uno sviluppo qualitativo della vita delle persone non solo dal punto di vista materiale ma anche culturale e civile. Attribuendo ciò in misura maggiore o minore alle CONQUISTE politiche, sindacali delle classi lavoratrici e/o alla scienza e alla tecnologia e/o alla capacità della mano invisibile del mercato, a seconda del proprio punto di vista, tuttavia TUTTI concordano che sviluppo e progresso siano stati un fenomeno ininterrotto della storia moderna.
Ebbene mi sento di affermare che questo "ciclo" si è interrotto.
La conoscenza viene INCORPORATA, assorbita nelle macchine. Un software planetario governa ogni fare umano. Il sapere residuo necessario agli esseri umani che consumano, lavorano, svolgono ogni altra attività si riduce. Ogni mestiere diventa una condizione addestrativa all'utilizzo delle macchine e del sapere che incorporano. In esse si è depositato stratificandosi nel tempo. Nessun singolo essere umano, anche se lo volesse, è in grado di padroneggiare il sapere che sarebbe necessario se non disponesse delle macchine che utilizza nel suo lavoro.
Soltanto la fantascienza, forse, ha affrontato il problema delle conseguenze della delega alle macchine allo svolgimento delle funzioni umane. Ma ha immaginato quasi sempre che ad esse fossero affidati compiti "meccanici", materiali. Viceversa quello che accade è il contrario! Le macchine sono più capaci di assorbire intelligenza, elaborazione, competenza.
Questo forse significa che la creatività umana, la ricerca, l' innovazione sparisce ? Tutt' altro. Nuovo impulso e nuove tecnologie, nuova scienza e conoscenza si determinerà. Ma soltanto delle ristrettissime élites saranno delegate a generarla. Un sapere e saper fare, una padronanza completa dei processi in cui si opera non sarà più necessaria per la stragrande maggioranza delle persone.

La diffusione del sapere, l'aumento delle competenze, la formazione di massa diventano SUPERFLUE.
In quale altro modo potremmo spiegare la crisi formativa che attraversa le società sviluppate? Perché giovani sempre più qualificati possono, debbono, cambiare mestiere continuamente se non con il fatto che quei mestieri si possono apprendere con un breve ADDESTRAMENTO? Eppure si produce, anzi si sarebbe in grado di produrre molto di più pur con una diffusa dequalificazione di massa del lavoro. Se i giovani non trovano lavoro non è come amano dire i nostri ottimisti-riformisti perché non sono qualificati. E' vero il contrario, non ci sono lavori qualificati a sufficienza per i nostri giovani. Anzi non ci sono lavori comunque qualificati a sufficienza per tutti i nostri giovani.
I sistemi formativi, la scuola, le università continuano a fornire una SOVRABBONDANZA di competenze rispetto alla capacità e alla necessità del sistema produttivo. E' questo il motivo di un crollo del VALORE mercantile del lavoro. Ne occorre meno e meno qualificato.
A fronte di tutto ciò, ragionare sul perché si disinvesta sistematicamente sulla formazione comincia ad avere motivazioni più comprensibili. Il mercato NON NE HA BISOGNO! E' quindi ILLUSORIO attendersi che sia interesse del capitale accrescere ancora il livello di formazione della "forza lavoro". Per la sinistra interpretare come una miopia cinica e bara del capitalismo il taglio sistematico delle risorse per la formazione è un grave errore. Non si coglie l' elemento STRUTTURALE di un processo storico nuovo e non si è quindi in grado di dare risposte credibili.
Chi vive e opera nella scuola è sistematicamente stupito dalla progressiva demotivazione dei giovani allo studio, all' impegno, alla curiosità nei confronti della conoscenza. Si ha quasi la sensazione di assistere ad un cambiamento antropologico del quale si cercano invano e ovunque le motivazioni. Un accesso alla conoscenza sempre più superficiale, la rinuncia a capire e l' abilità nell' usare. Ogni mezzo. Eppure non si riflette sul fatto che l'adolescente di oggi e quello che lo era trent'anni fa vivono in due mondi diversi. Tra i ragazzi di oggi c' una sorta di inconscia consapevolezza collettiva dell' inutilità pratica di un sapere compiuto delle cose. Come consumatori, come futuri lavoratori SANNO cosa è e sarà loro necessario, sanno che il mercato non li premierà per quanto conoscono, sanno, sanno fare. Sono consapevoli che solo una minima parte di loro e solo nei casi di eccellenza troveranno sbocco in lavori realmente qualificati e creativi. La massa no, svolgerà, se va bene, una qualunque attività culturalmente povera, esecutiva, intercambiabile. A questo rispondono con grande pragmatismo RIFIUTANDO il modello del conoscere proposto dalla generazione che li ha preceduti, il modello proposto da una scuola, appunto, VECCHIA.

La risposta a tutto ciò è ad un tempo ovvia ma difficile. SEPARARE dal mercato e dalle sue esigenze la formazione delle persone. Renderla un imperativo etico di diritto all' umanità, alla cittadinanza, il "fatti non foste a viver come bruti ma per seguir ..........".
Ma questo è un altro discorso.

Roberto ALBERTINI - Palermo

Tags: Studio, Lavoro, competenze, tecnologie


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