La scuola, i cani e i gatti
Antonio Vigilante - 21-07-2010
Nel 2004 usciva per i tipi di Guanda "La scuola raccontata al mio cane" di Paola Mastrocola, un libro che, analizzando la crisi indubbia della scuola italiana, finiva per difendere un modello di scuola sostanzialmente retrivo, ispirato alla Tradizione (con la maiuscola), al presunto rigore della scuola di un tempo, che nulla sapeva di progetti, accoglienza eccetera. Per Mastrocola, la crisi della scuola italiana è tutta nella «decisione epocale» di caratterizzare la scuola come luogo in cui si impara a comunicare. Nella scuola, invece, non importa comunicare. A scuola si va per apprendere dal docente. Il quale non comunica, ma trasmette quel deposito di sane certezze che è, appunto, la Tradizione.
La distinzione tra trasmettere e comunicare è al centro della riflessione di Danilo Dolci. Per Dolci la scuola, come i mass-media, non comunica, ma fa semplice trasmissione, che è ciò che accade quando v'è un processo unidirezionale, il passaggio di un messaggio dall'emittente al destinatario, senza che quest'ultimo possa a sua volta parlare all'emittente. Nella trasmissione non c'è vero scambio umano: è il processo sterile dell'indottrinamento. È solo nella comunicazione, nello scambio circolare e reciproco, che si cresce, ci si arricchisce a vicenda, si fa autentica cultura.
Ed è fin dalla prefazione sotto il segno di Danilo Dolci questo libro scritto a più mani, con il quale un nutrito gruppo di docenti, spesso precari, risponde a Paola Mastrocola presentando una idea di scuola che vuole essere agli antipodi di quella auspicata nel suo libro, ma anche di quella che abbiamo e di quell'orrore - semplice non-scuola, probabilmente - che si sta prefigurando con quegli interventi di demolizione che si ha l'impudenza di definire riforma.
Conviene cominciare la lettura di questa raccolta dal testo conclusivo: il discorso di commiato dalla scuola del preside Luigi Vassallo. «Ho creduto a una scuola come strumento di liberazione di massa», scrive Vassallo, «e sento che oggi la stragrande maggioranza non vuole essere liberata perché convive bene con la schiavitù dei beni materiali, condita dalla propria ignoranza e dall'incapacità di trasformarsi da sudditi in cittadini liberi e responsabili» (p. 257). L'Italia di oggi, scrive Vassallo, è quella dei furbi, di chi aggira le leggi e non paga le tasse. Il corrispettivo scolastico di questo atteggiamento è nella «pretesa degli studenti di essere promossi senza fatica e senza pagare debiti» (p. 258). C'è, insomma, una scuola dei furbi che corrisponde all'Italia dei furbi. L'altra scuola, quella seria che a Vassallo sembra ormai improponibile (al punto di interpretare il suo pensionamento come la sconfitta di chi non è in accordo con lo spirito del tempo) è un rimedio all'immoralità dilagante nella società, l'unico luogo in cui è possibile imparare la solidarietà, la responsabilità, il perseguimento degli interessi generali contro l'utile particolare.
Abbiamo qui una prima concezione della scuola, dunque. La scuola seria, in cui si studia senza sconti, che serve soprattutto ai poveri, perché gli altri hanno possibilità di acquisire la cultura in famiglia o in scuole private.
Una seconda concezione è condensata tutto nell'incipit del breve testo di Anastasia, una studentessa: «La vita è bella. Secondo me non si dovrebbe sprecare più di un secondo a fare una cosa che non piace» (p. 121). Nella narrazione di Anastasia, gli studenti sono semplici scaldabanchi che si limitano ad assistere, senza alcun interesse, allo show deprimente di docenti sempre meno motivati. Il preside Vassallo probabilmente non contesterebbe questa diagnosi, ma protesterebbe contro l'incipit. Se la scuola dev'essere seria, offrire un bagaglio culturale soprattutto ai più svantaggiati, non è evidentemente possibile limitarsi a fare ciò che piace. Occorre l'impegno, la fatica, l'applicazione.
Le molteplici voci di questo libro si muovono tra questi due poli, tra l'ideale di una scuola che riconquisti il perduto rigore e quello di una scuola radicalmente altra, in cui si apprenda solo ciò che interessa realmente. Se da un lato si tenta concezione alta della scuola - «unica strada per la salvezza» per Alessandro Cavanna (p. 73), «una sorta di 'chiesa laica'», uno dei pochissimi luoghi «in cui gli scambi avvengono sulla base del reciproco dono» per Emanuela Massa (pp. 86, 88) -, dall'altra c'è l'analisi disincantata di Maurizio Parodi, che si sofferma sulla vera e propria «follia» scolastica, sulla irrazionalità della sua struttura spazio-temporale, del sistema relazionale, del sapere che vi si trasmette, ed al quale la presenza di docenti che considerano ancora l'apprendimento come sacrificio appare come uno dei segni di «una scuola imbarbarita» (p. 95). In qualche caso il contrasto si fa evidente in uno stesso testo. Nel suo intervento Domingo Paola nota il carattere sostanzialmente incostituzionale del sistema gentiliano, con la sua distinzione classista tra licei ed altre scuole. In una nota di Onorina Gardella allo stesso testo (una caratteristica del libro è la presenza di commenti in nota degli altri autori) si legge di uno studente immigrato, «dotato di notevole capacità di rielaborazione personale e spirito critico», che viene «mandato» al liceo, «sperando che tanto acume potesse trovare una strada» (p. 44). Il liceo resta la scuola alla quale indirizzare (mandare, addirittura) coloro che hanno acume; le altre scuole, si suppone, sono per persone poco intelligenti.
Nella molteplicità delle sue voci, questo libro sembra dimostrare che, se i conservatori convergono senza grandi difficoltà quando si parla di scuola (autorità o autorevolezza, trasmissione più che comunicazione, cinque in condotta eccetera), non è così a sinistra. Soprattutto, si avverte forte la tentazione di una concezione tutto sommato moralistica della scuola come regolatore etico della società, rimedio allo sfascio morale, civile e politico del paese rappresentato dal berlusconismo. È significativo però che in questo tentativo la riflessione di sinistra sulla scuola si avvicini alla retorica di destra. Meritocrazia, rigore, sacrificio sono anche le parole d'ordine della scuola berlusconiana. Non basta, probabilmente, protestare che quella di destra è, appunto, una semplice retorica per coprire lo sfascio sostanziale della scuola pubblica, mentre la sinistra vuole realmente una scuola che permetta ai migliori, anche se poveri, di emergere. Occorre interrogarsi sui contenuti culturali, ad esempio. Bisognerebbe far strada nella vita impegnandosi seriamente nello studio; va bene: ma nello studio di cosa? Chi decide cosa è importante studiare? La cultura è fatta di mille cose. Il filologo conosce la storia delle parole, il contadino ha la sapienza dei campi, il muratore quella delle pietre. Chi decide cosa è vera cultura e cosa no? Naturalmente la classe dominante. Ed allora l'imposizione di uno studio rigoroso nelle scuole non sarà altro che la rigorosa imposizione dei valori e dei modelli culturali della classe dominante; e il rifiuto della scuola da parte di molti ragazzini sarà, come è, il rifiuto di un mondo culturale che non è il proprio. Occorre poi porsi una questione strettamente pedagogica: si impara realmente, concependo lo studio come sacrificio, impegno che prescinde dall'interesse, fatica? L'esperienza, e non pochi studi, dicono di no. A distanza di dieci anni, lo studente che prendeva quattro in filosofia e quello che prendeva dieci hanno più o meno, spesso, la stessa cultura filosofica. Non si impara realmente nulla, se non c'è interesse. Il che non vuol dire che tutto sia facile da imparare: ogni apprendimento complesso richiede fatica, esercizio, tempo. Ma è una fatica piacevolissima, alla quale ci si sottopone con gioia - qualcosa di radicalmente diverso da ciò che avviene a scuola. Se senza interesse non c'è vero apprendimento, per quanto ci si sacrifichi, allora quella fatica e quel sacrificio che molti, sia a destra che a sinistra, vorrebbero che dominassero le nostre scuole, si riducono ad un insensato rituale, ad una sorta di prova iniziatica. Con maggior frutto si potrebbe chiedere ai ragazzi di fare a gara nel mangiare panini al prosciutto, o di fare una maratona, o di sollevare pesi. Gli effetti sull'apprendimento personale sarebbero non troppo dissimili, e sarebbe salvaguardata la vera essenza della concezione sacrificale della scuola, che consiste in fondo nel pretendere dalle nuove generazioni un pedaggio per l'ingresso nella società degli adulti.
La crisi della scuola è, nella sua essenza, una crisi di senso. Gli esseri umani si impegnano a fondo per qualcosa se la percepiscono come dotata di senso. Costringere qualcuno ad impegnarsi, a sacrificarsi addirittura per qualcosa che non percepisce come dotata di senso non è un passo avanti verso la restituzione di dignità alla scuola; al contrario: è un passo verso una realtà sociale ancora più assurda. Se si educano le nuove generazioni a fare cose prive di senso - per paura, per conformismo, per vantaggio personale (cosa, quest'ultima, che solo apparentemente fornisce un senso alla scuola: non c'è alcuna motivazione intrinseca, e non si apprende realmente alcunché) - cosa salverà la società da quelle drammatiche irruzioni di nonsenso che sono i totalitarismi? Cosa la salverà dal burocratismo ottuso, dall'idiozia massmediatica, dal fanatismo d'ogni genere? Come nota Domingo Paola, è importante prestare attenzione più agli aspetti semantici che a quelli ortografici della scuola (p. 49) Il che vuol dire in concreto, come spiega ancora Paola, «realizzare in classe una piccola comunità di ricerca che avvii gradualmente al significato e alla funzione del sapere teorico» (p. 50). È questa la via verso una scuola significativa, con il correttivo ulteriore, però, di ridefinire democraticamente gli ambiti di ricerca, andando oltre il recinto chiuso della cultura delle classi dominanti ed aprendosi alle pratiche del corpo e della mano, al fare oltre che al conoscere. Ma è una via difficile, che richiede un ripensamento anche degli spazi scolastici (può essere adeguata l'aula ad una comunità di ricerca? e i banchi?). Fino a quando non si avrà il coraggio di queste riforme strutturali il discorso sulla crisi della scuola, tanto a destra quanto a sinistra, girerà a vuoto intorno ai soliti temi dell'autorità, del rigore, del sacrificio, dei giovani d'oggi che non sono più come quelli di una volta.

Aa. Vv., "Pensieri sottobanco. La scuola raccontata alla mia gatta", a cura di Paolo Fasce e Domingo Paola, Erickson, Trento 2010.

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