Per galera la scuola
Giuseppe Aragno - 30-01-2010
Dallo Speciale Racconti



Con lo "sviluppo", Franco Meledandri s'era fatto alto e macilento. Un giunco dagli occhi azzurri, mutevoli e profondi, che rubavano i colori del cielo fino a quando dal fondo del petto non saliva improvvisa l'amara dolcezza della malinconia. Gli occhi si facevano allora specchio dell'animo e il cielo diventava grigio. Franco conosceva poco del mondo, perché poco gli aveva dato la vita. Il padre non sapeva chi fosse e la povera madre s'era spezzata la schiena per non fargli mancare l'indispensabile. Al vico Candelora l'estate era stata un morire di caldo nella luce opaca e sudata e nell'aria appestata dai rifiuti marciti. L'inverno, uno stillicidio d'umido nel buio. Quando la madre se n'era andata tra i santi che aveva pregato senza speranza per tutta la vita, un parente che non conosceva, ricco e maligno quanto può esserlo un borghese che ci tiene al buon nome, l'aveva sistemato per procura dai Salesiani, sul dosso della Doganella, tra il vecchio e diroccato cimitero israelita e l'inutile pompa delle monumentali tombe degli "uomini illustri".
Non l'avrebbe creduto, Franco, ma l'imparò in poco tempo, con un senso di doloroso smarrimento: si può giungere a tal punto di disperazione da rimpiangere il peggiore passato. E' solo questione di quanto faccia male. Dal lunedì al sabato mattino andava a scuola con gli "alunni esterni", ma non c'era nulla che gli togliesse dalla testa il suo vicolo, la gente che ci viveva come una grande famiglia che ti protegge dalla solitudine, la sua mamma sparita e i suoi antichi compagni di scorribande. Gli insegnanti si facevano in quattro per metterlo a suo agio, ma Franco non voleva saperne di studiare.
Non so più che fare con te - gli diceva disperata l'insegnante d'italiano, giovane e inesperta di fronte a una matassa così ingarbugliata - e non posso darti torto, pensava disperata, la scuola è ormai ridotta all'impotenza. Tu poni domande e noi non ti diamo risposte.
Il conflitto tra i convittori e gli "esterni" riproduceva in qualche modo le dinamiche feroci che da tempo stravolgevano l'anima d'una città tradizionalmente ospitale e accogliente. Nella piccola e anomala comunità, interni ed esterni si guardavano in cagnesco. Franco, senza trovare la forza e il coraggio di dirlo a se stesso, sentiva di essere geloso degli "esterni", di quei fortunati che avevano tutto ciò che non aveva lui: casa e affetti. I convittori, chiassosi, arroganti, svogliati e pronti a menar le mani, erano per gli esterni un corpo estraneo alla scuola.
- Ma perché non stanno coi preti e gli istitutori? - si chiedevano tutti. - " Perché dobbiamo tenerli nella nostra scuola, se a scuola non vogliono stare?
L'asprezza tipica delle guerre tra poveri rendeva la vita scolastica impossibile, ma nella lotta sorda e feroce che lo metteva ogni giorno contro compagni e insegnanti incattiviti dall'impotenza, Franco sentiva il sangue tornare a scorrere nelle vene e gli pareva così d'essere vivo. Provocava la rissa e l'odio, che sempre più spesso agitava il cielo e il mare che aveva negli occhi, metteva in equilibrio la serotonina nell'inconsapevole e disperato laboratorio chimico che teneva in piedi la baracca della sua vita. Il prezzo dello scontro era però salato e ogni volta qualcuno doveva apgarlo: l'insegnante segnava una nota sul registro e il prete che reggeva il convitto negava al convittore la visita ai parenti per il fine settimana. Chi si teneva dentro le lacrime, diventava più duro e maligno e, quando poteva, metteva soqquadro la classe. I più cedevano alla disperazione. "Non lo faccio più", imploravano, "prometto di cambiare" sussurravano in un pianto dirotto, torcendosi in una rabbia devastante, che gli bruciava dentro i sentimenti umani. Puniti senza pietà, diventavano lupi travestiti da agnelli, gatte morte a vedersi, vendicativi dentro e pronti a far male se solo si presentava l'occasione. Franco no. "Franco Meledandri non ha nessuno fuori" sbottava il preside sacerdote con una punta di rabbia impotente, quando un bidello lo portava da lui col registo e la nota. "Meledandri non ha nessuno fuori" ripeteva il ragazzo, ma sembrava impossibile capire se era per fare dispetto o per sentire fino in fondo il dolore che procura la solitudine. Imparare a fare i conti col dolore significa difendersi e perciò Franco sentiva un estremo bisogno di farsi del male.
I convittori, come i carcerati, pensavano di essere i soli a sognare di evadere dal convitto, ma talvolta, nei rari momenti in cui interni ed esterni firmavano brevi e precarie tregue, i ragazzi scoprivano che la scuola li accomunava almeno in una cosa: l'idea dell'evasione. Molti tra gli esterni vivevano la scuola con insofferenza e disagio. Non m'interessa nulla, ripetevano stanchi e demotivati. E c'era chi non sognava null'altro che il lavoro. Fra scuola e lavoro, Franco non aveva dubbi: avrebbe dato l'anima al diavolo per uscire dal quel maledetto convitto. Il lavoro era per lui sinonimo di libertà. Gli piacevano da morire le ore dedicate a un laboratorio di teatro che la giovane insegnante d'italiano aveva messo in piedi tra mille difficoltà, ma non era certo che quella fosse scuola. Il professore di matematica ripeteva di continuo che la collega d'italiano non sapeva insegnare e Franco non riusciva a capire perché tutti quelli che a scuola lo avevano saputo interessare si portavano appresso questa etichetta di incapaci e sfaticati. Incerto tra vita e teatro, Il ragazzo riprendeva così la sua guerra personale.
- Ancora un anno e mezzo in quest'inferno!, pensava ogni giorno. E più ci pensava, più sognava di scappare. Poi, dio sa come, il miracolo s'era compiuto.
Nella riunione mensile di convittori e istitutori, il segaligno capoprete, aveva annunciato la novità, con parole d'elogio per il governo, "preoccupato del destino della gioventù e favorevole ad ogni iniziativa che permetta un rapido inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e favorisca la transizione tra scuola e lavoro, consentendo così ai giovani di disporre delle competenze necessarie per trovare un'occupazione". Chi voleva, spiegò, poi per farsi capire, poteva andare a lavorare e prendere ugualmente la licenza.
Franco non poteva saperlo e probabilmente, anche se gliel'avessero detto, sarebbe "evaso" senza pensarci due volte. La povera gente, privata dei diritti più elementari, non ha strumenti per sognare e vive d'incubi. La povera gente ingannata dal potere, sente sulla sua pelle il peso del dovere, ma non sa cosa sia la libertà dei diritti. E' facile da governare, si contenta di poco e puoi sfruttarla come meglio credi. Per quelli come Franco, che intuivano la libera magia del teatro, il governo s'era attrezzato con scuole somiglianti a prigioni. Aveva suscitato così un desiderio ansioso di libertà pronto a volgersi contro i soli strumenti pacifici dell'emancipazione. E' solo a queste condizioni, infatti, che lo spirito libero che vive in ogni uomo accetta di farsi schiavo. Ridotta a galera, la scuola è, allo stesso tempo, un antico e sperimentato strumento di selezione delle classi dirigenti e una fabbrica di servi volontari da reclutare tra le classi subalterne. La scuola, vera, quella che insegna la ribellione dello spirito critico, per un attimo intuita e subito poi persa, Franco non la conosceva. Sul teatro della vita i ruoli erano ormai assegnati e al lui toccava recitare la parte di chi paga. Altri, quelli che avevano tutto, avrebbero riscosso. Se poi per caso si fosse ribellato, sarebbe tornato al convitto da cui era evaso.
Non più una scuola ormai, ma solo una galera.

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