" Che ci faccio in cattedra? " è stato, tempo addietro, il titolo di una corrispondenza dello psichiatra Umberto Galimberti. Essa poneva, e penso ponga tuttora, domande inquietanti, in un paese nel quale il problema della scuola è ben ridotto alle solite comparsate ed alle invenzioni dei provvisori titolari del Ministero in parola. Sono addivenuto alla amara conclusione che il problema della scuola non interessi più di tanto agli abitatori del bel paese, tanto da delegarne completamente le problematiche ai soli addetti ai lavori, considerati, anche se non pubblicamente dichiarati, al pari dei giudici, " stralunati " esseri, nullafacenti o quasi, gloriosamente dediti, e senza tanti riconoscimenti e ricompense, a qualcosa per la quale la sedicente società civile d'oggigiorno - grassa ed operosa e mediaticamente asservita - ha ben poco da dedicare o da spendere. In tale contesto la scuola è divenuta purtroppo rifugio o approdo dei tanti che in verità avrebbero meglio potuto impiegare il loro tempo in altre faccende o mansioni socialmente più utili. Ne ho fatta esperienza personale in quanto genitore, per via naturale, ed in quanto insegnante, per scelta inizialmente molto convinta e motivante, e con il senno del poi, del tutto " sconclusionata ". Nel trascorrere dei lustri l'asfissiante gabbia entro la quale l'istituzione imprigiona gli anni migliori tanto dei ragazzi che dei docenti, unici questi ultimi nella specie umana a trascorrere e lasciare, al pari della muta degli ofidi, nelle fetide, inospitali aule, il meglio della propria vita, dall'entrarne come alunni all'uscirne come bacucchi, nel trascorre di quei lustri dicevo la consapevolezza che il mio lavoro fosse, se non inutile, in fondo ininfluente allo svolgimento regolare della vita sociale, mi ha condotto ed indotto alla persuasione di un abbandono anticipato, inglorioso forse ma utile e come toccasana, onde salvare quella parte di me stesso ancora salvabile da un ruinare verso forme sempre più perniciose di perdita del senso della realtà e, la qual cosa è infinitamente più grave, verso una completa disistima personale, innescata dalla inconcludenza della quotidiana fatica. E questo senso di smarrimento lo si ritrova nella vasta letteratura che ho scoperto e vado scoprendo di colleghi in fuga precipitosa verso quella salvezza dalla " pubblica calamità " che è divenuta la scuola del bel paese; divenuta oramai un problema di " salute pubblica " oltre che di " salute personale ", che come tale non interessa a nessuno, se non ai diretti interessati che sopravvivono nella speranza di una sempre più vicina " uscita di sicurezza ". Sul problema del disorientamento dell'insegnante d'oggi, della irrilevanza della sua figura nel contesto sociale, della mancata chiarezza della sua " missione " sarebbero necessari dibattiti, seminari e discussioni che coinvolgessero sia gli interessati, gli specialisti quanto la società civile nella sua interezza. Vano da sperarci. Non rimane che la lettura e l'interiorizzazione di quegli scritti che sugli annosi problemi vengono prodotti e proposti alla disattenta opinione pubblica del bel paese. Di seguito trascrivo, sul tema, una nuova corrispondenza del professor Umberto Galimberti di recente pubblicata su di un supplemento del quotidiano " la Repubblica ", corrispondenza che ha per titolo " Imparare a insegnare ".
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Scrive Nino Giuliani in Fiabesca vita del maestro elementare Angelo Scarabozzi (Editrice Versilia Club):.- Non uso il pretenzioso 'insegno' perché in verità è molto più calzante il verbo 'imparo'. C'è moltissimo da imparare dai nostri scolari -. ( ... ) ... più il livello culturale di un Paese degrada, meno prospettive si danno per il futuro di quel Paese. Quindi qualcosa bisogna fare. Da un lato le nostre scuole sono frequentate da ragazzi supergratificati in famiglia, a cui non è stato posto un vero limite ai loro desideri, per la scarsa autorevolezza dei genitori, sempre meno esemplari agli occhi dei loro figli. Dall'altro professori in cattedra che non hanno la più pallida cognizione della psicologia dell'età evolutiva, e che quindi non sanno che in quell'età l'acquisizione del sapere passa per canali prima emotivi che intellettuali. Ma per un'educazione emotiva, capace di seguire i percorsi individuali con cui ciascuno studente perviene al sapere, è necessario che una classe sia composta al massimo da quindici studenti, perché con venticinque o trenta alunni in classe è assolutamente impossibile non solo seguire, ma addirittura conoscere i percorsi emotivi, le turbolenze adolescenziali, le fasi di entusiasmo o di sfiducia, il lento scivolare nella demotivazione, fino allo scollamento dell'alunno dalla sua classe e alla fine l'abbandono. Ne consegue che se non si riduce il numero degli studenti in classe, moltiplicando le classi, occorre dire chiaro e tondo che la nostra scuola può al massimo istruire, ma è strutturalmente nell'impossibilità di educare. E l'evidenza di questo fatto è sotto gli occhi di tutti. La professione di insegnante, infatti, non richiede solo competenze culturali, ma capacità di comunicazione e di fascinazione perché, da Socrate in poi, sappiamo che queste sono le condizioni dell'apprendimento. Infatti la tanto invocata buona volontà non esiste al di fuori dell'interesse che l'insegnante sa suscitare, l'interesse non esiste separato da un legame emotivo, il legame emotivo non si costituisce quando il rapporto tra insegnante e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione. E allora, per abilitare all'insegnamento, verifichiamo nei candidati queste capacità, che solo limitatamente si possono apprendere, perché sono di natura. E come per l'assunzione in ogni professione si fanno dei colloqui, che in realtà sono dei veri e propri test di personalità, perché in una professione come quella dell'insegnante, che più delle altre richiede qualità umane e propensione naturale, queste verifiche non si fanno? I test esistono e sono sufficientemente collaudati. Usiamoli. Non risolveremo tutti i problemi della scuola, ma almeno non la lasceremo degradare oltre i livelli allarmanti a cui ormai siamo giunti."