Il fallimento di Berlinguer
Giovanni Cominelli - 03-07-2001
LE ATTESE E LE PROMESSE MANCATE
Quando, nel 1996, Berlinguer assunse il comando, era chiaro il quadro delle necessità e delle attese del sistema scolastico in Italia.
Occorreva attivare quattro linee di riforma: istituzionale, ordinamentale, culturale e professionale.
Istituzionale: conferire autonomia organizzativa e finanziaria alle scuole, ridurre la potente macchina ministeriale a un Ente di indirizzo e di coordinamento, costruire un Sistema nazionale di valutazione delle autonomie, dei presidi, del personale, riconfigurare il rapporto tra statale e non statale.
Ordinamentale: riformare i cicli, considerato che, dalla scuola media in su, la crisi era ed è ormai seria.
Culturale: aggiornare i programmi di insegnamento, in relazione all’evoluzione economica, sociale e culturale.
Professionale: cambiare il sistema di reclutamento e il meccanismo di carriera dei docenti e del personale dirigente.

Berlinguer è partito con l’autonomia. Partenza audace. Ma, alla fine, l’autonomia organizzativa e finanziaria si è rivelata rachitica. Sopra, resta l’immenso apparato ministeriale con le sue onnipotenti e pletoriche Direzioni, cui si sono aggiunte le 20 Direzioni regionali, senza con ciò abolire i Provveditorati, se non nel nome. Il cuore dell’autonomia è il preside, con le sue responsabilità. Ma la storica diffidenza sindacale nei confronti di figure manageriali nel campo della formazione (figure di cui c’è enorme bisogno!), agitando la paura di presunte invasioni di interessi economici privati (i quali continuano allegramente a sponsorizzare di tutto, fuorché le scuole!), ha imbrigliato l’esercizio di questa funzione in una rete di organismi di controllo “democratici”, così che alla fine non c’è nella scuola nessuno in grado di prendere decisioni. Tra le quali, quella dirimente è l’assunzione del personale, in coerenza con il progetto formativo della scuola stessa. Ovviamente, gli alibi non mancano e sono spesso fondati. Dell’attuale generazione di Presidi, selezionati con criteri formalistici e burocratici, non certo per le loro capacità di manager pubblici della formazione, il meno che si può dire è che solo un terzo sarebbe in grado di assumersi responsabilità all’altezza della situazione.
Ma la questione decisiva è quella del Sistema nazionale di valutazione, che nella proposta di Berlinguer è diventato, alla fine, un semplice auto-monitoraggio, affidato con lauti mezzi a Vertecchi. E’ decisiva, proprio perché le scuole sono autonome. Chi garantisce i cittadini della qualità dell’offerta? Non il Ministero, non le scuole stesse, statali o non. Solo un’Authority esterna può farlo, sulla base di standard di valore (principi della Costituzione, curriculum nazionale, obbiettivi formativi fissati dal Parlamento per ciascun cittadino) e sulla base di standard tecnico-professionali (dotazioni di risorse materiali, finanziarie e qualità delle risorse umane: presidi e docenti). In mancanza di tale sistema, diventa rischioso mettere sullo stesso piano le scuole statali con quelle non statali. Le scuole non statali hanno diritto, in quanto libere imprese profit o non profit, di proporre la propria offerta, ma essa può essere riconosciuta come “pubblica”, ancorché non statale, solo se rispetta i parametri fondamentali della cittadinanza. Naturalmente questo vale anche per le scuole statali, alle quali il carattere statale non conferisce di per sé una qualità “pubblica”.
Quanto ai cicli, il punto decisivo è quello del segmento medio-superiore. Quello di base funziona abbastanza bene, con vere punte di eccellenza. Quanto a quello superiore, il rifiuto ostinato del doppio canale, uno liceale e uno tecnico-professionale elevato a pari dignità culturale, ha finito per costringere ad aggiungere un pezzo di scuola media al tetto della scuola di base, allungandola troppo rispetto alle esigenze psico-evolutive dei ragazzi, e ha lasciato indeterminata la scelta per gli anni successivi. Di qui l’inconcludenza del discorso sui nuovi programmi, nonostante una pletorica e augusta Commissione di saggi.
Circa la politica del personale. Reclutare nelle facoltà universitarie che producono potenzialmente insegnanti, istituire un’area pedagogico-didattica a numero chiuso (per non produrre domanda di lavoro in eccesso rispetto a un’offerta determinata e facilmente prevedibile), due anni di tirocinio sul campo e poi abilitazione diretta all’insegnamento. E, poi, valutazione e scatti di carriera sganciati dall’anzianità e legati al merito. Donde, di nuovo, l’importanza di un Sistema severo di valutazione, che, mentre protegge i destinatari dell’offerta formativa, selezioni i migliori docenti e i migliori manager della formazione. E poi, last but not least, i soldi! Il governo di centro-sinistra ha avuto a disposizione un bonus di quindicimila miliardi da restituire ai cittadini, come promesso. Ha preferito elettoralisticamente – ma non è bastato! - dare 80.000 lire a famiglia: quattro pizze e quattro birre!, invece di dare un congruo aumento a tutti gli insegnanti, in vista di ulteriori incentivi, da decidere, questi ultimi, in base ad una valutazione severa e attenta. Ed ha ideato, con l’aiuto dei sindacati, il "concorsone", dal quale poi hanno preso le distanze, lasciando il Ministro sulla graticola del ridicolo!

Perché Berlinguer ha sostanzialmente fallito? Culture centralistiche e stataliste, resistenze accanite degli apparati ministeriali, corporativismo sindacale, residui gentiliani di sinistra (?) in campo pedagogico (scarsa attenzione al soggetto discente, licealismo classista) hanno estenuato un disegno di riforma ambizioso.

Che farà il centro-destra? Il decreto sui precari è pieno di buon senso. Il resto non si tarderà a vederlo. Non ho e credo non si debba avere nessun pregiudizio. Questione di tempo.



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