Siamo noi a sbagliare. Noi, che ancora non abbiamo capito o, forse peggio, fingiamo di non sapere. Siamo noi che sbagliamo. Noi, che ancora cerchiamo un filo di logica, la luce d'una ragione smarrita, un impossibile dialogo. Siamo noi che sbagliamo. L'illusione che si possano opporre parole alla crudezza dei fatti per difendere la civiltà smarrita è il nostro errore più grave.
Ciechi. Siamo davvero diventati ciechi e non vediamo quello che ormai si mostra nella sua drammatica e sconvolgente chiarezza. Noi ce ne stiamo inerti, forse timorosi del significato dei fatti, forse convinti che una guerra non riconosciuta come tale possa ancora evitarci l'onere dello scontro. Ma sbagliamo.
Se non ci avesse colpito un'apatia malaticcia, una supina rassegnazione alla fatalità degli eventi, una volontà di pace rinunciataria, noi diremmo quello che certamente sappiamo e fingiamo d'ignorare: siamo in guerra. Una guerra della barbarie contro la civiltà, una guerra che non abbiamo voluto e che altri ci fanno, una guerra che diventa necessaria perché si pone in termini di legittima difesa nei confronti di scelte politiche apertamente razziste e dichiaratamente classiste, finalizzate alla difesa d'interessi privati contro le leggi e la morale della Repubblica.
Siamo noi che sbagliamo. Non è vero che la forsennata offensiva leghista abbia trovato in Parlamento l'altolà e i presidi e i medici non faranno la spia: trasformando in reato l'immigrazione clandestina, di fatto, si fa obbligo ai pubblici ufficiali di denunciarla. Noi lo sappiamo bene e fingiamo d'ignorarlo: non si può sperare che qualcosa di buono venga dal Parlamento. Se il sonno contagioso della ragione non ce lo impedisse, smetteremmo d'ingannare noi stessi: il Parlamento non c'è, non esiste; il Parlamento è costituito da una combriccola di cooptati, da una camarilla di vassalli che gestiscono il loro scranno in nome e per conto di chi li ha chiamati a sedere nell'aula ormai sorda e grigia. E conta poco se siano veline, buffoni o scienziati. Sono nominati.
Qui è il problema di fondo. Ineludibile, decisivo e, per certi versi, ormai fatale: il problema del rapporto tra governati e governanti, nel momento in cui i governanti sono fuorilegge. Il problema cruciale e decisivo della legittimità delle norme approvate da organismi illegalmente costituiti e, di conseguenza, quello della scelta difficile tra il dovere di rifiutarsi e il diritto di ribellarsi. Sui modi del rifiuto, sulla natura della ribellione - l'obiezione pacifica che fa appello alla coscienza o il ricorso alla forza che raccoglie la sfida d'un regime e lotta con ogni mezzo per abbatterlo - su tutto questo si potrà poi riflettere e ognuno sceglierà la sua via. Conta ora soprattutto prendere atto: la legalità repubblicana è stata cancellata da un governo nato da una legge elettorale che ha sottratto la sovranità al popolo e ha cancellato il Parlamento dalla vita politica del Paese.
In questi giorni di buio della ragione, con le prime pagine occupate dalle vicende personali d'un capo di governo che la moglie denuncia al Paese con un atto d'accusa politico - bonapartismo ella dice, parlando di rischi per la democrazia - in questi giorni melmosi, i nostri soldati sparano addosso a civili fuori dai nostri confini e giungono ad ammazzare una bambina, la scuola della Repubblica viene privatizzata, il lavoro mortificato e negato e il governo, in aperto disprezzo dei trattati sottoscritti e delle regole della civile convivenza tra i popoli, manda la marina a respingere in acque internazionali e a ricondurre alla base di partenza navi cariche di immigrati, molti dei quali in cerca d'asilo politico. Maroni, che governa l'Italia in nome e per conto della Lega di Borghezio, mena vanto della sua scelta e in una sorta di delirio efficientista esalta il "
governo che fa i fatti e non le parole". E' vero. Questa gente è passata dalle parole ai fatti. E i fatti sono chiari: l'articolo 33 dello
Statuto dei Rifugiati inserito nella
Convenzione adottata a Ginevra il 28 luglio 1951, recita testualmente: "
Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. L'Italia ha sottoscritto la convenzione nel 1955, allorché, lasciatosi alle spalle il fascismo, si sforzava di diventare un Paese civile, e l'ha calpestata oggi, quando appare chiaro che ha cancellato la parola civiltà dal suo dizionario.
Questo è. Non ci sono più varchi aperti al dialogo.