Rileggendo Lapassade
Antonio Vigilante - 18-08-2008
Una decina d'anni fa lavoravo come pedagogista in una cooperativa sociale. Non era un gran lavoro: consisteva nel seguire per qualche tempo uno dei bimbetti, farne un profilo e buttare giù un piano di intervento educativo da mandare al Comune. Quest'ultimo aspetto, mi sembrava di capire, era quello principale del mio lavoro: scrivere carte per il Comune. Non mi è mai riuscita granché bene, questa faccenda di scrivere carte: per questo, anche, facevo quel lavoro con qualche disagio.
La cooperativa sperimentava l'autogestione pedagogica di Georges Lapassade, che allora aveva già più di settant'anni e di tanto in tanto si faceva vedere per accertarsi che tutto andasse bene, accampandosi come una specie di clochard. Lapassade era allora, per me, il pedagogista libertario, il teorico dell'autogestione, il critico della pedagogia burocratica. Ma Lapassade si è occupato molto anche, tra l'altro, del fenomeni della dissociazione e della trance nelle diverse culture, giungendo a riscoprire anche il tarantismo pugliese. Non a caso oggi Gianni De Martino lo ricorda come "il professore della trance". Lo ricorda, perché Lapassade è scomparso lo scorso 30 luglio.

Dopo dieci anni ho ripreso "L'analisi istituzionale", libro di Lapassade del '74, pubblicato lo stesso anno in Italia da ISEDI e, per quel che ne so, mai più ripubblicato da allora. La cosa non sorprende: è un libro assolutamente inattuale. Felicemente inattuale, vorrei dire. Dà la misura di ciò che abbiamo perso per strada, di ciò che da troppo tempo resta non detto, non pensato nei nostri discorsi, nelle nostre discussioni sulla scuola. La pars destruens del discorso di Lapassade, la sua analisi della scuola come sistema burocratico, mi sembra ancora assolutamente convincente. La scuola è una istituzione nella quale, come in ogni burocrazia, le decisioni centrali vengono prese dall'alto, le norme che la regolano sono fissate in modo impersonale, esiste una gerarchia di poteri, eccetera. Non c'è molto da obiettare, né da meravigliarsi. L'attuale sistema dell'istruzione e dell'educazione è il risultato di qualche secolo di riflessione sull'efficacia dell'insegnamento, che si inserisce in quello stesso processo di razionalizzazione che ha dato vita alla burocrazia moderna.

Alla base della burocrazia non c'è, per Lapassade, solo questo bisogno di razionalità e di organizzazione, ma anche una esigenza psicologica. Nelle società complesse l'individuo si trova a dipendere più che mai dagli altri, ai quali è appesa la sua stessa possibilità di sopravvivenza. Di qui un'angoscia sociale, cui la burocrazia risponde sopprimendo la relazione: "Il solo modo di proteggersi dalla relazione umana è di sopprimerla, non bisogna che l'altro continui ad essere l'origine di una relazione, bisogna che egli non ne costituisca più che il termine" (p. 126). Si instaura così una forma di dominio particolare, che protegge i dominati dalla relazione e dallo sfruttamento, promuove la crescita della società ed il suo buon funzionamento, ma al costo di togliere ai singoli il potere di iniziativa, la responsabilità, la decisione, la possibilità di organizzarsi da sé. In altri termini, al costo dell'alienazione.
Così a scuola. L'educatore è un burocrate che non può occuparsi dello "sviluppo reale dei soggetti che gli sono affidati" (p. 131), poiché si tratta di un obiettivo che è al di là di qualsiasi possibilità di misurazione. Il docente-burocrate si occupa del programma e della sua acquisizione da parte dello studente, essa sì misurabile con il sistema delle interrogazioni e degli esami. Il successo degli studenti, così misurato, dimostra la sua efficacia, il suo positivo inserimento nel sistema gerarchico della burocrazia scolastica. Lo studente non è che il destinatario passivo di una attività decisa altrove, il termine di una relazione gerarchica. "Tutti i rapporti di insegnamento sono in realtà dei rapporti gerarchici che si giustificano ipocritamente attraverso le esigenze della formazione e della cultura", scrive Lapassade (p. 130).

Pochi saranno disposti ad ammettere la verità di questa affermazione. Nessuno nega che il rapporto tra docente ed alunno sia effettivamente gerarchico: si nega, piuttosto, che la gerarchia sia la vera essenza, il programma occulto (Illich) della scuola; la si considera invece una imbarazzante necessità, uno strumento finalizzato al bene superiore della trasmissione della cultura e dei valori. Se tuttavia c'è una relazione necessaria tra mezzi e fini, c'è seriamente da dubitare che la cultura - che, se è autentica, è sempre creazione libera - possa essere conciliabile con la mancanza di libertà e di autonomia dei rapporti gerarchici. La gerarchia è il mezzo adeguato alla trasmissione della cultura-deposito (Freire), di quei pacchetti-sapere che sono i moduli e le unità didattiche, non certo alla cultura come scoperta e creazione.
La pars construens della pedagogia istituzionale di Lapassade (istituzionale nel senso che considera la scuola una istituzione modificabile dagli studenti) consiste nella proposta del metodo dell'autogestione pedagogica, che intende restituire agli studenti il potere e il diritto di gestire la propria formazione culturale. Il docente molla la presa, lasciando alla classe il compito di organizzarsi e diventando una sorta di consulente, che interviene per fornire materiale di lavoro e per animare il gruppo. Dopo lo smarrimento iniziale, il gruppo si organizza, si dà una struttura interna, impara a prendere decisioni all'unanimità. I risultati sono rilevanti su almeno due piani: - dal punto di vista dell'apprendimento, si giunge a una formazione più ricca e completa, perché fatta di esperienze significative ed autonome, non di nozioni calate dall'alto; - sul piano politico, una classe autogestita diventa "un campo di contestazione" (p. 140) della società gerarchica e burocratica, oltre ovviamente che un elemento interno di trasformazione della scuola.
Le perplessità riguardano la possibilità effettiva di creare un tale "campo di contestazione" all'interno dell'istituzione. Se il docente è un burocrate che fa parte di una istituzione che ha regole impersonali e fisse, ed il cui lavoro è sottoposto a valutazione e controllo, allora non c'è spazio per l'autogestione. Il docente che volesse negarsi come burocrate si troverebbe ad essere osteggiato dal sistema istituzionale e, in caso di mancato rientro nei ranghi, ad esserne espulso. Se l'analisi di Lapassade della istituzione scolastica è esatta, allora il rimedio è improbabile. Lapassade non si nascondeva le difficoltà, ammetteva che ciò che può fare l'insegnante "è, almeno all'inizio, assai limitato", e che "il movimento deve accettare di fare dei progressi 'nel tempo" (p. 133), ma si tratta di ammissioni insufficienti.
Il metodo dell'autogestione non fornisce indicazioni chiare su ciò che un docente può fare "all'inizio", sulle tappe che conducono gradualmente all'autogestione, e ciò è comprensibile: quali che siano queste tappe, giungerà un momento in cui il metodo si paleserà incompatibile con l'istituzione, con conseguenze facilmente immaginabili. Il sistema bucocratico dell'insegnamento è essenziale per lo Stato. Si potrà consentire a qualche docente di giocare, ma non sarà concesso a nessuno di intaccare seriamente la struttura burocratica del sistema.
Una seconda perplessità riguarda gli studenti. Un sistema di autogestione può funzionare con studenti che abbiano voglia di prendere in mano la propria formazione, con domande, interessi, esigenze intellettuali. In caso contrario, l'autogestione finisce paradossalmente per diventare un'imposizione - l'imposizione della libertà, che è un paradosso particolarmente imbarazzante. Nella realtà attuale della scuola, nella quale la razionalizzazione dell'insegnamento si è compiuta nella programmazione didattica, il disinteresse, il disimpegno, l'abbandono passivo degli studenti sono la norma. Le assemblee di classe e di istituto - gli unici stumenti democratici offerti agli studenti dal sistema istituzionale - sono considerate con fastidio, come un obbligo più che come una opportunità; quelle di istituto spessissimo vengono disertate. Il sistema burocratico dell'insegnamento risulta il più comodo ed agevole. La dinamica di spiegazione-interrogazione-voto dà sicurezza allo studente, è un sistema collaudato, la via più semplice per raggiungere il successo scolastico, che è lo scopo dello studente. La visione della cultura che è dietro questa dinamica è particolarmente deprimente. La cultura, imparano i nostri studenti, è quella cosa che serve a farsi strada nella vita. Non ha un valore intrinseco, è uno strumento di affermazione sociale. E' una strada che porta da qualche parte, non un paesaggio che valga la pena di fermarsi a contemplare. Il sistema spiegazione-interrogazione-voto ha questo vantaggio. E' un sistema rapido ed efficace per attraversare la cultura senza realmente toccarla, per giungere alla meta senza complicazioni e senza perdite di tempo. Anche la ridefinizione dei rapporti tra docente e studente - il passaggio da un rapporto di potere a un rapporto egualitario - è vista con sospetto. Si può dire che gli studenti hanno interiorizzato il sistema di dominio e vi si trovano a proprio agio.

Queste perplessità non vogliono in alcun modo sminuire l'importanza del tentativo di Lapassade. La direzione da lui indicata resta valida, per quello che riesco a vedere. Occorre aprire dall'interno l'istituzione scolastica, fare della scuola il luogo della scoperta gioiosa e non della noiosa trasmissione di un sapere-deposito, superare i rapporti di dominio. In che modo concretamente ciò si possa fare, soprattutto nel tempo attuale, in cui l'impegno politico e l'ansia di liberazione del '77 hanno lasciato il posto ad uno sconcertante conformismo, alla chiusura in ogni campo della vita sociale, all'ossessione securitaria, al consumismo, al disimpegno, è un problema la cui soluzione richiede non poca fantasia, non poca intelligenza - non poca passione.

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