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Ugo Mancini. Il fascismo dallo stato liberale al regime
Giuseppe Aragno - 08-02-2008
La significativa foto in copertina - un "balilla" ritratto a Pola nel luglio del '43 col braccio teso nel saluto fascista - è il biglietto da visita dell'ultimo libro di Ugo Mancini, ricercatore, storico e docente di ruolo di Storia e Filosofia nei licei: Il fascismo dallo Stato liberale al regime.
Uscito a metà del 2007 per i tipi di Rubettino, il saggio ha le carte in regola per segnalarsi tra gli studi di maggior pregio sul primo fascismo. L'autore conosce indubbiamente il "mestiere dello storico" e, non a caso, il suo saggio, nato da un'accurata ricerca di archivio, si fonda su una documentazione particolarmente ricca e, in larghissima misura, inedita. Tuttavia, ciò che colpisce di più, alla fine di 340 pagine che si fanno leggere senza alcuna fatica, è la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una sintesi originale tra quelli che, sin dalle prime pagine del libro, appaiono i due specifici interessi della ricerca: da un lato il fascismo e le sue scelte politiche ed economiche, dall'altro la società civile, coi suoi problemi e le sue aspettative rispetto a una costruzione politica che, negli anni del pre-regime, è ancora alla ricerca di una sua identità. Originale soprattutto perché, partito dal bisogno di ricostruire le ragioni, le caratteristiche e lo sviluppo dell'incontro tra la società civile e il movimento politico di Mussolini che emerge e si afferma nella temperie del primo dopoguerra, Mancini giunge alla conclusione, per molti versi innovativa, che "più che di un incontro si debba parlare di incontri tra il fascismo e la società civile".
Di fatto, ciò che davvero interessa Mancini - ed è alla fine ciò che soprattutto interesserà il lettore - sono, allo stesso tempo, le diverse prospettive e i molteplici punti di vista che l'analisi attenta della documentazione consente di individuare, rispetto a momenti politici ed economici cruciali per la storia del nostro paese, e le ricadute concrete che esse hanno sulle condizioni materiali di vita delle popolazioni. Incontri, più che incontro, perché l'Italia che vede affermarsi il fascismo è un Paese molto più complesso di quanto appaia ad un'analisi superficiale. Un paese in cui le contraddizioni di classe sono fortemente marcate, ma la frammentazione degli interessi, degli orientamenti delle attese, attraversa trasversalmente i diversi ceti, all'interno delle quali l'effetto "aggregativo" prodotto dalla rivoluzione bolscevica - e le scelte di segno opposto che ne derivano - ha durata breve e ciò che alla fine conta davvero non sono i vaghi ideali patriottici, la retorica della "bella morte", il mito della rivoluzione, il nazionalismo o l'internazionalismo. No. Se oggi è evidente che agitare in maniera ideologica lo spettro del "berlusconismo" non serve, perché a decidere delle scelte politiche della gente sono alla fine le attese e le sofferenze materiali, la precarietà, il reddito e le condizioni di lavoro, così, a guardarli da lontano, ottanta anni dopo, è evidente non il primo fascismo e il regime che va costruendo se stesso si leggono ricorrendo agli "schematismi" di Renzo De Felice; il fascismo infatti - qui l'analisi di Mancini produce risultati davvero significativi - si colloca in una prospettiva di continuità o discontinuità, produce consenso o dissenso, in rapporto a "quanto dà e toglie", in relazione a ciò che deprime o esalta, sul terreno economico e sociale. Di conseguenza - ed ecco che la lezione del passato aiuta davvero a leggere il presente - ottiene consenso o produce dissenso solo in relazione alla maniera in cui affronta, o elude, le questioni concrete legate alla stagnazione e alla modernizzazione.
Prendendo in considerazione gli elementi comuni che il fascismo ebbe col conservatorismo statunitense dei primi del Novecento, la politica economica del regime, col suo iniziale entusiasmo per il modello liberista manchesteriano e l'organizzazione del lavoro fordista, Mancini si ferma sul faticoso compromesso tra modernità e tradizione posto alla base di una concezione rigidamente gerarchica delle classi sociali, e, in ultimo, sull'opposizione al fascismo, scompaginata, ben più che "dall'estemporaneità delle aggressioni squadristiche", da "forze dell'ordine dispiegate su tutto il territorio e dotate di un'organizzazione più che collaudata, oltre che di uomini e apparati che avevano costruito nei decenni la loro esperienza e le loro competenze". Di fatto, il fascismo passa anche per le divisioni esistenti tra gli oppositori, per la diversa maniera di concepire la lotta al regime che indebolisce lo schieramento antifascista, già minato dalle defezioni e "dal passaggio di non pochi liberali, popolari e sovversivi dalla parte del vincitore". E' un "si salvi chi può", da cui Mancini ricava una chiave interpretativa che modifica profondamente la lettura corrente: per comprendere il rapporto tra popolazione e regime, occorre coglierne la complessità. A ben vedere, quindi, il libro non racconta la vicenda dell'incontro tra fascismo e società civile, ma quella di fasi di avvicinamento che non escludono mai la possibilità di un allontanamento. In questo senso, cade uno dei fondamenti della ricostruzione defeliciana: quella del "consenso". L'analisi di Mancini, portando alla luce la complessità dei rapporti sociali, induce di fatto a identificare posizioni distinte e articolate: consensi, più che consenso, come, sul versante opposto, il dissenso non si definisce in un generico "antifascismo", ma delinea il quadro complesso degli antifascismi. Quanto basta per mettere in discussione sia la lettura revisionista del "consenso", che quella "militante", che fa coincidere la storia dell'Italia tra le due guerre con la storia dell'antifascismo. Da questo punto di vista, il libro di Mancini, mai completamente "volto indietro", è una ricostruzione del passato in cui, come in ogni seria ricerca, puntualmente si incontrano problemi del presente. Quando egli scrive, infatti, che "la soppressione dei partiti tradizionali" privò "il fascismo della possibilità di continuare a definirsi polemicamente, in negativo, prima ancora di aver acquisito un'identità precisa, puntualmente e largamente condivisa", è difficile che, fatte le debite proporzioni, il pensiero non corra alle più recenti vicende della nostra sinistra, che si è "qualificata" solo in posizione di antagonismo rispetto ad un "nemico" e si è avvitata così in una profonda crisi di identità. La stessa che - e qui si torna al fascismo - "non poteva essere sufficiente a raccogliere il consenso di massa", sicché " si affermò lentamente la tendenza ad individuare e ad inventare altri nemici". Come non pensare ad uno dei problemi più attuali della nostra vita politica, alla scelta di Veltroni che, dopo una lunga stagione di demonizzazione, scegliendo di dialogare con Berlusconi, non sa, forse non può trovare di meglio che inventarsi un nuovo nemico: la "sinistra" sedicente alternativa? Non lo nego, a questo punto la lettura è profondamente soggettiva, ma conforta una convinzione: chi vorrà leggerlo, sarà grato a Mancini per il suo libro. Ha il rigore del saggio storico ma, come ogni buona ricerca, è figlia del suo tempo e della sua filosofia della storia. In quanto tale, non riguarda esclusivamente il passato.

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