Ada Grossi. La voce che alla radio denunciava i crimini fascisti
Giuseppe Aragno - 05-02-2008
Dallo Speciale Il tempo e la storia


Ada Grossi è napoletana e testimone della guerra di Spagna. C'è un fascicolo personale conservato a suo nome tra carte di polizia, ma il silenzio della storia non è riuscito a chiuderla nella polvere del passato. Ada parla al cuore, prendendoti per mano, e racconta un'infanzia sconvolta da eventi più grandi di lei: Mussolini, la dittatura, l'omicidio Matteotti, le minacce al padre, Carmine Cesare Grossi. "Era socialista, ricorda, amico di Croce e noto avvocato nello studio di De Nicola". A nove anni, nel 1926, il salto nel buio: "scuola, parenti, amici, tutto alle spalle, rammenta con rinnovata emozione, e tutto perso per sempre". Umana, ma estranea, Buenos Aires, l'accoglie col padre, i fratelli, e la madre, Maria Olandese, soprano che ha cantato alla corte dello zar, ma la ragazza diventa donna tra gli stenti e la solidarietà dei fuorusciti, la propaganda antifascista e il calore d'una famiglia diventata un riferimento per i "sovversivi".
Ada è un personaggio straordinario. Se racconta la sua vita a studenti che in genere non amano la storia, i ragazzi si incantano, rapiti da una loro lontana coetanea che, nel '36, quando s'apre lo scontro mortale col nazifascismo, a soli 19 anni, attraversa l'Oceano e accorre con la famiglia in Spagna al fianco dei repubblicani. L'ascoltano ammirati come se ancora leggesse i comunicati di "Radio Libertà", la famosa emittente di Barcellona creata dal padre per il governo Negrin: Ada è la voce della Spagna aggredita che giunge nelle case degli italiani e scatena l'ira impotente di Mussolini. "Non vinceremo subito, ha ammonito Rosselli, ma vinceremo", e lei ripete la sfida, sorprende il regime e, sotto le bombe sganciate dai Fiat Br20 su città inermi, denuncia la furia omicida degli aggressori e affida alla storia le ragioni della democrazia. Un racconto che ha per gli studenti il fascino dell'epopea e il valore inestimabile d'una testimonianza sulla dimensione etica dell'agire politico, smarrita nell'opulenza malata del consumismo.
Evasa dal "secolo breve", Ada Grossi vive qui tra noi la sua ultima stagione, in una città senza memoria, in un paese in cui il degrado della vita pubblica apre spazi ad una equiparazione tra fascismo e antifascismo che può realizzarsi solo colpendo al cuore l'ethos politico di cui vive la repubblica: libertà, pace, giustizia, i valori che il fascismo negò.
Se la incontri, non è più la ragazza "castagna di capelli o quasi bionda, occhi celesti chiari, carnagione colorita e una ben timbrata voce di soprano lirico" che il padre descrive in una lettera bloccata dalla polizia. A novant'anni, è una vecchia signora dagli occhi celesti e profondi che si emoziona se si trova davanti le carte conservate nel suo fascicolo dalla polizia fascista, di cui non conosceva nemmeno l'esistenza. "E' incredibile, ci sorvegliavano proprio attentamente, passo dopo passo!", esclama meravigliata, mentre si trova tra le mani momenti di vita che il regime le rubò: lettere mai lette e un giornale argentino in lingua italiana che narra "l'odissea di Carmine Cesare Grossi e della sua famiglia finiti nei campi di concentramento". "Gours, Argelés-sur-Mer, ricorda Ada. Non è facile descrivere la tragedia dei combattenti internati in Francia dopo la fuga disperata verso i Pirenei. Camminammo a piedi per giorni, braccati dai caccia che ci mitragliavano". Un velo di tristezza, poi la donna sorride per l'involontario elogio d'un questore che, nell'aprile del '37, scrivendo da Napoli a Mussolini, ammette che, "a causa della velenosa propaganda comunista di Barcellona, s'è avuto un certo risveglio di elementi locali noti per i loro precedenti politici e subito arrestati". Per metterla a tacere, si impiantò persino "una stazione disturbatrice presso la Prefettura". "Filo da torcere gliene abbiamo dato", sottolinea Ada compiaciuta, mentre "corregge" il questore: "La radio, però, non era comunista. Eravamo socialisti. Mio padre scriveva i testi, io leggevo e la gente ci seguiva. Quando giunsero a Barcellona, gli stalinisti italiani ci estromisero proprio perché eravamo socialisti". Il verbale di un interrogatorio subito dalla madre in Questura, a Napoli, nel '41 la commuove e si abbandona ai ricordi: la famiglia dispersa in veri e propri lager, la fame, la sete, le baracche di lamiera gelide d'inverno e roventi d'estate, il matrimonio con un repubblicano spagnolo celebrato "nel campo di Argelés con un permesso speciale", la guerra, l'armistizio con la Francia e un nuovo calvario: "io tornai in Spagna con mio marito, racconta Ada, e coi falangisti fu dura. Papà fu confinato a Ventotene, mamma e mio fratello Aurelio a Melfi. Renato, l'altro mio fratello, depresso per la sconfitta e gli stenti, finì in manicomio, distrutto dagli elettrochoc".
E' un mondo che emerge. I fratelli al fronte con le truppe repubblicane, lei che cura con la madre i malati nell'infermeria del campo - "mancavano le medicine, ricorda, e si moriva per nulla"- la madre, "compagna inseparabile, che condivise gli ideali del marito e affrontò ogni avversità con animo sereno", il padre che "privato dei clienti, malmenati dai fascisti, e sorvegliato a vista, tenne nello studio fino all'ultimo, in bella mostra, un ritratto di Matteotti e sfuggì agli squadristi solo perché un cocchiere lo prese al volo sulla sua carrozzella". Se parla della Spagna, il primo pensiero di Ada è per Garcia Lorca, "barbaramente torturato e ucciso perché omosessuale". E torna in mente Machado: "Cadde morto Federico/sangue alla fronte e piombo alle viscere/Sappiate che fu a Granada il delitto/Povera Granata!" La "sua" Spagna però non è solo ferocia. Rivivono, nelle sue parole, lampi della libertà che ha respirato e difeso, l'entusiasmo dei volontari, la fuga da Barcellona mentre i falangisti entrano in città dal Montjuic. "Perdemmo tutto, anche i libri ai quali mio padre teneva moltissimo". Il bilancio è pesante: Aurelio ferito a un occhio, Renato morto in manicomio e case, terre, tutto perso per sempre.
Caduto il fascismo e tornati liberi a Napoli, dove non c'è chi non accampi meriti, i Grossi si fanno da parte. "Il regime aveva radiato mio padre dall'albo e lui, ricorda la figlia, per tornare avvocato, dovette ricorrere in tribunale. Mancavamo di tutto, ma non c'era nulla da chiedere: avevamo fatto solo quello che era giusto". E ripete orgogliosa: "Noi eravamo socialisti. Al governo però ci andarono i democristiani, i fascisti rimasero ai loro posti e oggi - conclude amara - ci sono Fini e Berlusconi. Noi, però, abbiamo vissuto secondo i nostri ideali".
Ada vive a Napoli con Aurelio in una casa popolare e paga l'affitto grazie a una modesta pensione spagnola. L'Italia non sa che esiste, lei non chiede che sappia e mi perdonerà se lo scrivo: ha fatto più di quel che doveva. Marx non ha torto, non si può giudicare un'epoca in base alla coscienza che essa ha di se stessa e non sbaglia Vilar: il racconto è la forma naturale con cui l'uomo prende coscienza del tempo. Bene. Ada ha raccontato il suo "passato contemporaneo". La repubblica che ha contribuito a far nascere, e che medita di cambiare se stessa, non sbagli due volte, non la consegni all'archivio senza averla ascoltata. La storia prima o poi presenta il conto.

"La Repubblica", Napoli, 3 febbraio 2008
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 Sylvia Guzmán Grossi    - 05-02-2008
Caro Prof. Aragno,

Sono estremamente comossa per avere avuto la possibilità di leggere questo tuo articolo sulla mia famiglia materna; per essermi trovata di fronte alla foto di mia madre, Ada Grossi, e alla sua durissima, ma stremamente bella e feconda, esperienza di vita, condivisa con i fratelli, lo Zio Aurelio e lo Zio Renato, ed in testa al giovanissimo, piccolo e coraggioso fronte antifascita formato dai tre fatelli, il Nonno Cesare, avvocato, filosofo e tenore dilettante, intelettuale sensibile e coltissimo, e la Nonna Maria bellissima, soprano drammatico e poliglota, ma, soprattutto, dotata di una generosità e di una dignità "fuori dal mondo".

Dalla vita ho avuto il dono di essere nata da questa singolare famiglia e, più particolarmente, dal connubio fra Ada Grossi e mio padre, già defunto, Enrique Guzmán de Soto, spagnolo, anarchico, studente di medicina quando inizió la Guerra di Spagna (per lui, e anche per me, la Rivoluzione spagnola), poi ufficiale repubblicano; poi esiliato in Francia; poi duramente represso dal fascismo in Spagna e ,finalmente, di fronte all'impossibilità di finire gli studi di medicina e, soprattutto, di poterla esercitare nella Spagna di Franco, diventato chimico per portare avanti la famiglia a testa alta, a dispetto di quella Spagna terribile degli anni della mia infanzia e gioventù.

Purtroppo, della Nonna Maria ( Maria Olandese), benchè conosca perfettamente la sua vita incredibile per una napoletana della fine del 800, ho pochi ricordi perchè mi venne a mancare quando non avevo ancora compiuto i 5 anni.
Con mio Nonno, Carmine Cesare Grossi - per me il Nonno Cesare - ho avuto un rapporto bellissimo, di perfetta intesa come se fossimo stati, più che nonno e nipote, compagni e coetanei. Questo rapporto eccezionale l'ho vissuto fino ai 23 anni, quando egli morì.

Conosco la loro storia per filo e per segno e conservo gli scritti che il Nonno Cesare mi dedicò, raccontando gran parte delle sue avventurose memorie.
Sono figlia e nipote di persone che hanno fatto della loro vita un'atto di eroismo continuato, giorno per giorno, perchè credevano fermamente che la volontà dell'uomo deve servire a trasformare la sopravvivenza, alla quale il sistema dominante intende destinarci, in una vita degna di essere vissuta.

Ringrazio i miei per essere quello che sono stati, che sono, e che saranno sempre nella memoria delle persone che credono che la vita sia una strada da percorrere a piedi e non in ginocchia.
E ringrazio te, Prof. Aragno, per avere percorso nello stesso modo la strada che ti ha permesso di incontrare i fratelli Ada ed Aurelio, novantenni, ma stremamente giovani, come quando arrivarono in Spagna, nel 1937, per unirsi alla Repubblica cioè, alla Rivoluzione, come la pensava mio Babbo e come la penso anch'io.

Dalla Spagna, grazie ancora, e ¡Salud, compañero!

Sylvia Guzmán Grossi

 Gemma Gentile    - 05-02-2008
E' un racconto emozionante, come lo è la risposta di commento della figlia di Ada Grossi. Geppino, sei stato un maestro nello scrivere questa stupenda pagina di storia che hai saputo fare uscire dalle polverose carte di archivio (quante vicende ricche di umanità e di coraggio si scoprono a volte tra quelle carte!) per restituirla alla vita reale, dando voce ad una persona eccezionale, ricca di sensibilità e coraggio, come solo sanno esserlo coloro che veramente credono nel riscatto sociale dall'ingiustizia, ma ignorata dalla storia ufficiale e messa da parte proprio da coloro che avrebbero dovuto premiarla per il suo apporto e per il suo sacrificio. Ma tant'è, non staremmo nella situazione di oggi se le cose a quei tempi non fossero andate in questo modo. Dubito purtroppo che la repubblica, visto lo stato in cui versa, riesca a rimediare a questo errore e a questa ingiustizia, fatti all'epoca dell'epurazione mancata. La diffusione però di vicende come queste possono contribuire alla formazione delle coscienze e a contrastare la tendenza a falsificare e ad oscurare la storia da parte del potere.

 Bruno De Marco    - 08-02-2008
Caro Geppino,
il mio non vuole essere un commento al tuo bellissimo articolo e, d'altra parte, tu lo sai, condivido da sempre le tue riflessioni.
Approfitto, comunque, dell'occasione per esprimerti tutta la mia stima perchè tu, in questo mondo di voltagabbana e, quindi, in antitesi ad altri intellettuali, rappresenti una voce fuori dal coro che, vivaddio, non risente di alcun tipo di condizionamento esterno e che esprime in maniera corretta e trasparente i propri concetti.
Nonostante tutto quello che ci circonda e che spesso ci fa vergognare di essere italiani, ti esorto a conservare il tuo animus pugnandi, perchè c'è bisogno più che mai di persone del tuo spessore e della tua onestà intellettuale.

Bruno De Marco