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Ridere in trincea contro il (cattivo) senso comune
Cinemafrica.org - 14-01-2008
Bianco e nero
di Cristina Comencini


Al di là alle indubbie capacità di tessitrice di storie e direttrice di attori, a Cristina Comencini non difettano né il coraggio del rischio né l'orgoglio nel rivendicare le proprie scelte. Già nel recente videodiario Il nostro Rwanda (codiretto con Carola Cerquetti), accettando la sfida del reportage al seguito di un viaggio di conoscenza in Africa guidato dal sindaco Veltroni, la regista si era smarcata con una certa abilità dalle mille trappole di uno sguardo embedded. Il caso ha voluto che l'incontro con lo storico e giornalista Jean Léonard Touadi, referee privilegiato di questa prima esperienza africana, e con Jeanne, una mediatrice culturale rwandese, abbia portato Cristina a scoprire una realtà assai poco esplorata, quella delle coppie miste italo-africane, e maturare così il progetto di Bianco e nero, che esce l'11 gennaio, lanciato da 01 Distribution in 250 copie. Il coraggio e l'orgoglio sono, per chi vi scrive, quelle di chi si è assunto, consapevolmente, l'onere di fare un lavoro sporco, sia pure per un fine nobile, sapendo che i rischi di fallimento erano molto alti.

Siamo nei quartieri della Roma-bene. Elena (Ambra Angiolini) vive come una missione il suo lavoro in un'associazione che svolge attività di cooperazione allo sviluppo in Africa - gli uffici sono quelli di Amref, ringraziata all'inizio dei credits. Il marito Carlo (Fabio Volo), di modesta estrazione sociale, ha un negozio di assistenza ai computer, non condivide il suo Mal d'Africa e men che mai ama essere coinvolto nelle serate di raccolta fondi. In una di queste, condotta da un abile e colto collega nero di Elena, il senegalese Bertrand (Eriq Ebouaney), Carlo rimane fulminato dalla giovane e affascinante moglie di lui Nadine (Aïssa Maïga), addetta culturale presso l'ambasciata del Senegal, e istintivamente la invita con i suoi bambini alla festa della figlia Giovanna, insostenibilmente viziata, nella ricca casa dei genitori di Elena.

L'incontro con questa bizzarra famiglia della borghesia conservatrice romana, che con l'Africa ha avuto rapporti frequenti ma di dubbia natura - il padre (Franco Branciaroli) vi ha svolto per anni viaggi d'affari, rimanendo segnato dall'avventura erotica con una fantomatica Maramba da cui è stato redento solo grazie a un deciso intervento della moglie Adua (Anna Bonaiuto) - si risolve in un'umiliazione per Nadine e i suoi due figli. Ciononostante, Nadine, che ha colto l'estraneità di Carlo da quel mondo, gli porta in negozio il suo pc guasto: l'uomo scopre così il suo diario e passa in rassegna le piccole quotidiane frustrazioni che Nadine sperimenta, nel tentativo di integrarsi.

In realtà, nonostante la loro cultura superiore, Bertrand e soprattutto Nadine - che ha una sorella a Roma, sposata a un uomo che mantiene, pur conoscendone i continui tradimenti - frequentano solo la comunità di provenienza, non diversamente da Elena e Carlo che, malgrado il lavoro di lei in Amref, non hanno mai avuto un amico nero. Ma certo le cose non migliorano quando Carlo va di persona a riportare a casa di Nadine il pc riparato e finisce a letto con lei. La notizia diventa subito di dominio pubblico e le due comunità si chiudono a riccio, dando sfogo a insospettabili rigurgiti di buon senso razzista, ed escludendo i due fedifraghi. La doppia cacciata li spinge ancor più l'uno tra le braccia dell'altra, ma ben presto le famiglie cominciano a lavorare perché entrambi si convincano di essere troppo diversi perché tra loro possa continuare.

Fin qui quello che è sensato raccontare del plot, che rovescia un andamento minuziosamente costruito, con un epilogo dalle venature lirico-fantastiche che riecheggia lo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate. Sulla tenuta dello script, cui hanno collaborato Giulia Calenda e Maddalena Ravagli, Cristina Comencini ha scommesso molto, confezionando una macchina da guerra pressoché perfetta nei macroingranaggi come negli incastri meno visibili e inseguendo più il modello commedico di Indovina chi viene a cena? e delle screwball di Billy Wilder che il sociothriller sentimentale di Jungle Fever. Vi ha dispiegato tutto il suo talento di narratrice, mettendo a nudo ironicamente tutte le incrostazioni dell'immaginario di un'Italietta che l'Africa continua a pensarla con la mano eternamente tesa, o con lo sguardo da dark lady. Certo, prima o poi bisognerà fare i conti con alcuni topoi di questo cinema italiano che dialoga con l'altro, dal ricorso all'espediente del computer spiato per penetrare nel mondo di una donna desiderata (già in La giusta distanza) al pattern narrativo in virtù del quale i proletari, superato un primo stadio di diffidenza, arrivano a cogliere meglio le ragioni degli immigrati (già in Riparo). In ogni caso, dopo essersi allenata corpo e mente nel corazzarsi contro tutte queste trappole, invece di confidare solo sui muscoli tonicizzati dall'impresa sceneggiatoriale, e approfittare della partita del set per verificare e raffinare quanto raggiunto, l'impressione è che la Comencini ci si sia chiusa, dietro questa corazza. Molto per metodo, un po' per paura.

Almeno in parte, questo arroccamento può essere spiegato con la conoscenza diretta da parte della Comencini di quella ricca borghesia illuminata, che puntella le sue false sicurezze con rassicuranti luoghi comuni e fantasmi di un razzismo che ha senso definir buono solo perché fa parte della tradizione inclusiva della commedia. La portata della sfida è acuita dalla volontà di aprire tutti gli armadi, tirando fuori le cartoline coloniali delle faccette nere dai sederi a mandolino, i dischi dei negri che hanno il ritmo nel sangue, ma anche i calendari delle ong che lucrano sul senso di colpa dei ricchi, e coltivano così l'illusione del superamento dell'evangelica cruna dell'ago attraverso un bonifico o magari un semplice sms. Sì, perché tutti gli africani, non solo la colta Nadine, sono stufi di vedersi rappresentare con la pancia gonfia e la mosca nell'occhio. Ed è per combattere, sorridendo, questa piccola grande guerra contro il (cattivo) senso comune, che la Comencini si è chiusa dietro la sua corazza, e come armi ha usato due corpi che l'uomo della strada conosce soprattutto attraverso il piccolo schermo, Ambra Angiolini e Fabio Volo, e una serie di presenze riconoscibili e rassicuranti come Katia Ricciarelli.

Nei fatti, ed è difficile contestarlo, se la scelta del cast è felice fin nei ruoli più piccoli, la direzione d'orchestra attoriale, pur condotta con un approccio che ricorda l'autoritarismo e la meticolosità di un Visconti, produce risultati di singolare efficacia espressiva. Nel caso specifico dei due ruoli di Nadine e Bertrand, Cristina ha scelto due interpreti di prestigio francesi come Eriq Ebouaney (Lumumba, La Piste) e Aïssa Maïga (Bamako), i quali, piegandosi a un training linguistico che a marce forzate li obbliga a indossare foneticamente una lingua non dominata, dimostrano, oltre al talento, la capacità di dare concretamente corpo e voce ai personaggi concepiti dalle sceneggiatrici. In alcuni passaggi chiave, come il primo aspro confronto dopo il tradimento tra Elena e Carlo, o come il mesto e meccanico approccio sessuale tentato da Elena con Bertrand, la Comencini massimizza gli effetti della ripresa in continuità, ma altrove, come nella sequenza dell'incursione di Carlo a casa di Nadine o in quella successiva della loro prima volta, trova una formula di scrittura nervosa, fratta, e sintatticamente vibrante.

In ultima analisi, il lavoro sporco sta nel cercare di toccare «il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa», come ci definiva Pasolini, adottando un registro popolare senza nulla concedere alle neometastasi di populismo trionfante. Far tutto questo, riuscendo a sorridere anzitutto delle proprie debolezze - e complimenti agli amici di Amref, che hanno accettato di mettersi in gioco in questa sfida - è una scommessa che ha un valore etico inestimabile, tanto più se il registro di favola del finale ci porta a proiettare ogni ottimismo della volontà fuori della storia, mentre il pessimismo della ragione ci tiene, ben corazzati, a combattere con un sorriso per un futuro davvero interculturale dell'Italia. Domani ci sarà tempo per lasciarsi andare e guardarci senza gabbie retoriche e schematismi commedici, ma questo sarà possibile forse anche perché film come Bianco e nero ci hanno aiutato a cambiare il senso comune. Speriamo nel frattempo di imparare a liberarci del conformismo culturale del politically incorrect, che porta la regista a disquisire nel pressbook di attrici veramente nere e non stinte, o a inserire nel film una battutaccia sulla bruttezza di un film zimbabwese che ha fatto sobbalzare il buon Fabio Ferzetti: ci piacerebbe molto che per farsi finanziare da un assessore alla cultura una rassegna di cinema africano bastasse farlo ubriacare...

Leonardo De Franceschi, gennaio 2008

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