Per un'educazione emotiva
Maurizio Tiriticco - 29-12-2007
Della ragione, delle emozioni e delle discipline

L'amica Flavia Marostica, dell'Irre Emilia-Romagna, ha reagito così al mio ultimo scritto: "Mi è piaciuto molto l'ultimo tuo articolo sulle abilità metaemozionali o intelligenza emotiva. Sono perfettamente d'accordo. Purtroppo i miei amici disciplinaristi (con cui condivido quasi tutto) ancora non riescono ad accettare questa dimensione e quasi sempre ne ignorano l'importanza per lo stesso apprendimento disciplinare".
Con argomentazioni diverse anche Marco Lodoli interviene, anche se indirettamente, sul tema delle emozioni in Se la ragione è un ferro vecchio, su "la Repubblica" del 27 dicembre. Lo spunto è dato dal fatto che la sua alunna Francesca va pazza per il complesso dei Negramaro, la cui divisa è "conta solo il cuore, la testa a casa". Di qui la preoccupazione di Lodoli: la testa non è affatto una variabile inutile; vi sono episodi della nostra storia recente e della vita quotidiana a dimostrare che il cuore spesso prevale sulla ragione. "Come un'onda - afferma - il sentimento incalza, preme, sale, ma la ragione deve alzare le sue dighe, scavare canali, dirigere quella spinta per farla diventare utile e vantaggiosa per i campi scoscesi della vita: altrimenti è solo frenesia che inonda e distrugge. Il bene è un prodotto dell'intelletto, sostenevano Socrate e i professori, il risultato di una riflessione su di sé e sul mondo. E ogni artista sa che il primo verso viene dal cuore, ma poi serve un lungo lavoro per dare forma a quell'emozione". In effetti, "bisognerebbe ridare dignità al pensiero e mettere in guardia i ragazzi dalle carognate che il cuore può produrre. Chi uccide la fidanzata o la moglie per gelosia o brama di possesso obbedisce al cuore. Il serbo che sparava al croato vicino di casa seguiva la voce dissennata del cuore. I tutsi che ammazzavano gli hutu a colpi di machete ascoltavano i consigli folli del cuore. E i ragazzi che si buttano via in una notte decerebrata corrono dietro agli ordini del cuore".
Per quali ragioni i due scritti possono essere considerati insieme? Perché in effetti in essi si intrecciano più "oggetti" che costituiscono materia del nostro quotidiano "fare scuola": la ragione, le emozioni, le discipline. Entriamo nel merito.

Dell'intellettualismo etico

Lodoli si richiama a concetti che vengono da molto lontano: non a caso ci ricorda il precetto socratico secondo il quale non si può fare il bene se non lo si conosce: si tratta di quell'intellettualismo etico che conduce alla concezione secondo la quale la virtù è sapere e che, come tale, è insegnabile. Quanto questa affermazione corrisponda al vero o meno, non lo so. Resta, comunque, il fatto che per secoli, anche attraverso tutta una tradizione anche religiosa (il catechismo cattolico, i versetti del Corano), i principi finalizzati a rendere possibile una convivenza civile - se vogliamo usare una espressione dei giorni nostri - sono stati pur sempre materia di memorizzazione e di insegnamento: e non è un caso che lo stesso termine disciplina stava indifferentemente a significare sia la condotta che ciò che oggi siamo soliti chiamare le materie di insegnamento. Che poi da secoli la virtù venga praticata solo in rare e circoscritte circostanze, è un altro discorso. E non è un caso che l'adagio popolare, secondo cui tra il predicar bene e il razzolar male il passo è spesso breve e scontato, sembra più saggio del precetto socratico.
Ora, a fronte del diffuso disagio dei nostri ragazzi - comune, del resto, a tutti i Paesi cosiddetti ad alto sviluppo - è ancora corretto ricorrere a concezioni di questo tipo, per cui sarebbe opportuno, secondo Lodoli, ridare vita alla ragione nelle scuole per aiutare i nostri alunni ad imparare a distinguere il bene dal male? O, se vogliamo, con parole meno grosse, il lecito dall'illecito? Od ancora, ciò che conviene nel tempo lungo da ciò che sembra convenire nel tempo breve, ma che alla lunga non paga? E come si potrebbe "riprendere a ragionare, prima che il cuore giovane della nazione ceda per un collasso irrimediabile, schiantato dalla propria smania indistinta"?

Del ragionare e dei suoi limiti

E' l'interrogativo che si pone Lodoli. Allora mi chiedo che cosa significhi riprendere a ragionare! Non è forse vero che proprio con le discipline, ben distribuite nei quadri orario, almeno negli attuali istituti di secondo grado, il richiamo di Lodoli è già in atto da sempre, o almeno da Gentile ai nostri giorni? E' vero anche che questo ragionare con le discipline alla gran parte dei nostri alunni... nun gliene pò fregà di meno... come si è soliti dire con una orribile e sgrammaticata espressione di recente conio... un altro brutto segno dei nostri tempi?
Possiamo anche dire che tutte le volte che abbiamo provato ad insegnare quella che potremmo chiamare la morale laica o, con parole grosse, la virtù civile, con l'educazione civica e poi con l'educazione alla convivenza civile, non abbiamo mai riscontrato successi. In effetti, anche imparare a memoria la Costituzione come una sorta di catechismo laico non sortirebbe effetti di sorta. E non è un caso che, di fronte al fatto che alla conclusione dell'obbligo decennale, i nostri sedicenni dovrebbero avere raggiunto otto competenze chiave per esercitare la cittadinanza attiva, molti dei nostri insegnanti si pongono seri interrogativi! E non hanno torto!
E' certo che una scuola, fondata da sempre su saperi disciplinari, per di più ben distinti tra loro, quindi abituata a stimolare ragionamenti - che piaccia o meno a Lodoli - si trova a disagio di fronte a questa cosa tutta nuova delle competenze, che sono altra cosa rispetto alle conoscenze, per lo meno quelle che come tali sono intese nell'insegnare quotidiano. Va considerato che, quando parliamo di competenze di cittadinanza, intendiamo l'insieme di tutti quei comportamenti che fanno non solo il buon cittadino ma anche l'homo probus e non solo peritus, quello che giorno dopo giorno assume l'onestà e la virtù, anche se sono parola grosse, come riferimento del suo agire.
Se questo è l'obiettivo che un sistema di istruzione - parlare di scuola oggi è riduttivo a fronte del fatto che tutti devono apprendere e per tutta la vita! - deve assumere, non si può che prendere atto del fatto che l'esercizio della ragione tramite le partizioni disciplinari non dà risultati; e che pensare di insegnare come ulteriori discipline quei comportamenti di cui alle competenze di cittadinanza, anche quelli più semplici dell'onesto vivere quotidiano, sarebbe altrettanto fallimentare.

Degli impulsi e delle emozioni

La ricerca psicosociale più recente ci dimostra che le emozioni sono altra cosa dalle pure e semplice reazioni che un essere umano prova a fronte di una situazione data. Il mondo percettivo-sensoriale è fatto di impulsi che stimolano determinate reazioni. La risposta a queste reazioni può essere immediata o mediata. Ed è proprio l'immediatezza che comporta quelle azioni scellerate che ci ricorda Lodoli e che sono sotto gli occhi di tutti. Occorre tener conto che le stesse re-azioni immediate sono spesso anche legittimate - se si può dir così - da un background "culturale" che ha buona parte in causa. Il tutsi che ammazza l'hutu e il ragazzo che si butta via in una notte decerebrata agiscono in forza di un "mondo valoriale" che li giustifica: gli hutu sono i ricchi sfruttatori; il ragazzo sa reggere l'alcool benissimo e la pasticca esalta la sua perizia nella guida!
Non è quindi il cuore in senso stretto che conduce a quegli atti. Anche perché la differenza tra cuore e ragione, pur se ha avuto fortuna nel passato ed è entrata a far parte del senso comune, di fatto non esiste, tanto è complessa la realtà del nostro mondo interiore. In effetti, l'emozione non è la risposta immediata allo stimolo, ma quella mediata e costituisce l'esito di più operazioni, l'ultima delle quali è quella che determina la consapevolezza di un certo sentire o del sentimento, come in genere si suol dire. Insomma trovare distinzioni tra il mondo dei saperi e quello dei sentiri non solo sarebbe cosa ardua, ma è inutile: il coraggio non sta nel fegato, la passione non sta nel cuore, la ragione non sta nella testa: il tutto risiede in quel complesso sistema di natura/cultura di cui ciascuno di noi è costituito e costantemente ri-costituito nello scorrere del tempo e nel variare dello spazio.
Educare alle emozioni, quindi, significa aiutare il soggetto che apprende, nel corso delle diverse fasi del suo sviluppo/crescita, a "costruire" una corretta dimensione di sé - non dell'astratto Sé - e delle sue potenzialità nel concreto rapportarsi quotidiano con gli altri da sé, con gli oggetti e con i concetti (le cose e le astrazioni dalle cose). E' una operazione che non è l'esito di un insegnamento, ma di una attenzione costante emotivo/affettiva che gli attanti del processo educativo dovrebbero costantemente avere.

Dell'intelligenza emotiva

Ed ora veniamo alla funzione docente ed al concreto comportamento insegnante. E qui mi sovviene l'etimo stesso della parola: colui che traccia i segni sulla testa del discepolo che ancora non è diventato uomo, come il vasaio traccia i segni sull'argilla ancora molle dell'anfora (testa in latino) in lavorazione. Quelli dell'educando sono segni che non si vedono ma che costituisco i solchi del suo divenire uomo. Non è affatto retorica: è il lavoro che fanno benissimo le maestre della prima infanzia (dai 2 ai 6/7 anni di età), ma che non sanno fare i professori "disciplinaristi". I nostri bambini della quarta primaria leggono e scrivono correttamente - in ordine all'età, ovviamente - ma, quando compiono i 15 anni... sono un disastro! Ce lo dicono le ricerche Pirls e Pisa.
Che cosa succede nel processo dell'istruzione? Sembra che il soggetto, nel suo passaggio da un apprendimento prima predisciplinare, poi pluridisciplinare, infine ad un apprendimento per discipline, perda ... il ben dell'intelletto!!! Ed allora sorge la domanda: la sollecitazione al ragionare, ed al ragionare per discipline è produttivo? Non ho nulla contro la ragione in quanto tale - l'età dei lumi ci ha riscattato dai secoli bui dell'intolleranza dei Torquemada - ma sorge una domanda: non sarà proprio questa sollecitazione unidirezionale ad un ragionare non supportato dalle molle della motivazione a provocare quella ripulsa verso lo studio scolastico che tutti conosciamo?
Certamente la motivazione non viene facilmente dall'assetto sociale in cui oggi viviamo: la scuola, lo studio, l'insegnante non sono sulla vetta del consenso dei più. Ma che cosa significa essere motivati a fare qualcosa? Perché quel ragazzo non imparerà mai un passo della Divina Commedia, ma sa a memoria tutte le canzoni di Ligabue? La motivazione è strettamente legata allo stato emozionale positivo che ci spinge verso un obiettivo, è la molla di una volontà e di una capacità di scelta in cui sono strettamente legate tensioni, attese, pur sempre supportate da riflessioni analitiche e razionali.
Non è un caso che Goleman sostiene e dimostra che la motivazione - quindi un forte stato emozionale positivo, non un impulso - non solo rende più facile un apprendimento cognitivo, ma rende più forti le stesse capacità razionali. Il fatto è che l'intelligenza - o quella facoltà che chiamiamo tale - non solo non è un facoltà innata né una procedura sempre eguale a se stessa, come se in ciascuna delle nostre teste ci fosse la stessa calcolatrice; è un insieme di processi multiformi e plurifunzionali - e qui ricordiamo Bruner, Gardner, Joshua Freedman - che si attivano solo a determinate condizioni. E la condizione prima è una forte mossa emozionale.

Della mediazione emotiva

A questo proposito, mi piace richiamare un passaggio di una intervista concessa da Roberto Maragliano a "Il Nuovo" il 19 gennaio 2002, nella quale gli si chiedeva di esprimere il suo pensiero sulla riforma Moratti. Maragliano insegna Metodologia e Didattica a RomaTre ed è un convinto sostenitore di un insegnamento che utilizzi largamente i media informatici e telematici e sfida la Moratti a mettere i computer in classe: "non nei laboratori, chiusi come dei libri in biblioteca, ma nelle aule, così come i libri stanno negli zainetti o sui banchi. Il computer deve essere usato come una lavagna. Ma la Moratti non ce la farà mai. E sa perché? Perché non lo consentiranno gli insegnanti i quali hanno paura di perdere la loro centralità. Il sapere della Rete non è gerarchico, non è disciplinare, mentre gli insegnanti preferiscono le gerarchie e le discipline tradizionalmente intese. Io sono per una scuola indisciplinata, non nel senso del sette in condotta ma nel senso epistemologico". Forse gli insegnanti in quanto tali non merito un giudizio così severo, anche perché la partizione per discipline non l'hanno inventata loro ma l'hanno trovata in eredità da provvedimenti che vengono da lontano e che nessun ministro ha mai messo in discussione.
Tuttavia, l'insegnante potrebbe interrogarsi sulla disciplina di competenza, su quali siano i suoi ambiti, ma soprattutto le sue aperture pluridisciplinari, anche perché i nostri alunni sono già fortemente incalzati da stimoli che sollecitano il pensiero analogico, intuitivo, reticolare più che quello logico, razionale, lineare, per dirla con Lucien Bruchon. Allora, che cosa bisogna chiedere al nostro disciplinarista? Che cosa dovrà fare per attivare nei suoi alunni quelle abilità metaemozionali a cui guarda con interesse anche Flavia Marostica? A mio vedere, in primo luogo dovrebbe ricordare quali sono le ragioni profonde per cui è diventato disciplinarista: senz'altro ci sarà stata all'origine una forte motivazione; in secondo luogo dovrebbe riuscire a fare amare la disciplina che insegna non solo e non tanto per quello che essa è, quanto per le aperture che consente con le altre forme di sapere e che sono oltremodo necessarie per darle visibilità e ragion d'essere.
Si è sempre detto che l'insegnante, oltre ad essere un esperto della disciplina, deve essere anche un mediatore culturale. Oggi, in questa società "liquida" e contraddittoria, è necessario che faccia un passo un più! Dovrebbe diventare anche un mediatore emotivo. Ed otterrà due risultati: il soggetto implementerà con la sua affettività la dimensione cognitiva necessaria per apprendere i contenuti della disciplina; ed acquisirà anche per via indiretta quelle coordinate relative alla costruzione della sua personale identità autonoma e responsabile, capace soprattutto di costruire quella gerarchia di valori che è il fondamento della convivenza civile. E' il legane che occorre trovare tra le conoscenze disciplinari (il cui valore nessuno nega), le competenze culturali e le competenze di cittadinanza.
Solo allora il nostro alunno non diventerà mai un tutsi e non getterà la sua vita sull'asfalto di una strada a scorrimento veloce!
interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 vincenzo fontana    - 07-01-2008
ma l'intelligenza emotiva cosa c'entra con le emozioni?

 Maria Teresa di Palma    - 07-01-2008
Sono anche io, come Flavia Marostica, assolutamente d'accordo con questa impostazione. Arriverei a dire che un disciplinarista serio, non può non esserlo, se si rapporta con la realtà scolastica. A cosa servono le discipline, se poi non riescono a diventare patrimonio delle persone? Imbalsamarle in un falso canone, tra l'altro, va contro la lora stessa evoluzione: non possiamo non tenere conto dei cambiamenti epistemologici che le investono! Mi occupo di geografia e mi chiedo come sia possibile, ad esempio, nel mio "campo", fare educazione alla cittadinanza europea e planetaria, se continuiamo a insegnare una geopolica ancora centrata solo sul concetto di stato e di nazione. Significativo il libro di E. Squarcina sui libri di testo delle elementari e "Carte d'identità" di Procacci su quelli di storia. Insegno inoltre in una SILSIS e vedo che fatica bisogna fare per far capire queste cose anche ai futuri insegnati. D'altra parte, purtroppo, si tende a insegnare nello stesso modo in cui ci è stato insegnato, a perpetuare cioè le metodologie, rendendo la scuola un'istituzione estremamente conservatrice. Non può che fare enorme piacere leggere articoli come questo. Bravo Maurizio Tiriticco!