Errori di prospettiva
Giuseppe Aragno - 27-10-2007
Ho sperato per anni che gente di scuola trovasse l'animo per lasciarsi alle spalle gli antichi steccati ideologici e si mettesse a ragionare di se stessa, di quello in cui ha creduto, dei suoi sogni, dei suoi errori, del male e del bene di quella storia che in qualche modo ha scritto e che è oggi sotto processo.
Non ci credo più, non credo più che possa accadere, ma almeno qui, sulle pagine d'una rivista che è stata in questi anni un luogo di discussione critica realmente autonomo e fuori dal coro, almeno qui una riflessione occorre farla: chi prova a scaricare sul biennio 1968-69 la responsabilità dello sfascio in cui versa oggi la scuola, non solo ignora che le istituzioni, quali che esse siano, risultano storicamente figlie di una somma di avvenimenti, di scelte culturali e politiche così complesse che vanno ben oltre lo spazio di un biennio, ma compie, consapevolmente, un'operazione di deteriore revisione della storia che ha fini evidentemente e strumentalmente politici.
Se si ripercorre a ritroso la vicenda della scuola della repubblica, non si può fare a meno di rimanere negativamente sorpresi dai suoi ritardi. Abbiamo cominciato a studiare Educazione Civica intorno al 1957 e, fino al 1960, i programmi di storia escludevano il fascismo e la Costituzione e si fermavano al "Duca della Vittoria".
Prima del Sessantotto, il solo cambiamento significativo che abbia segnato sul piano strutturale la storia del nostro sistema formativo è stata l'istituzione della scuola media unica che, in piena armonia col dettato costituzionale, realizzava un passo concreto - e tardivo - nella rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione dei lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
A rendere successivamente difficoltosa la realizzazione della legge, contro cui si era levata con ogni mezzo la Democrazia Cristiana, furono l'opposizione politica dei ceti moderati e le difficoltà economiche frapposte dall'esiguità dei finanziamenti concessi; un'esiguità che fu subito finalizzata a un obiettivo preciso: dequalificare quella "scuola di massa" la cui nascita il centrodestra aveva dovuto accettare sotto la spinta delle forze avanzate e di rinnovamento. Socialiste anzitutto.
Fu subito chiaro, si era all'inizio degli anni Sessanta, che la debolezza della scuola in via di costruzione avrebbe poi fornito l'alibi alla volontà di repressione. Di disciplina e merito si cominciò a parlare in quegli anni e si trattò subito di un ragionamento ambiguo: il vero problema, quello che realmente sarebbe stato necessario affrontare non era infatti, come si voleva far credere, la necessità di fronteggiare la "massa" imponendo la disciplina e promuovendo il merito, ma di adeguare le strutture, i metodi e le finalità di una scuola di élite ai bisogni e agli scopi della "scuola di massa". Ieri come oggi, una buona scuola è in grado di incidere sul tessuto sociale senza esserne condizionata, sicché non ha bisogno di imporre chissà quali regole per ottenere la disciplina e, per il resto, la promozione del merito fa parte del suo Dna. Selezione e disciplina sono, da sempre, le armi cui ricorre una scuola inefficiente o costretta a rispondere a finalità che non le sono proprie. Alle soglie del Sessantotto - questo era il problema - l'Italia che contava e che aveva in mano le leve del potere non era disposta ad accettare che tutte le classi sociali potessero giungere alle scuole superiori ed alle "professioni liberali"; così come oggi probabilmente, ma non è questo che qui mi interessa, l'Italia che conta ha bisogno di pupazzi rassegnati da massacrare nella "globalizzazione".
Ci vollero ben quindici anni perché l'abolizione del latino conducesse a una reale unificazione della scuola media. Anche in questo caso mi pare che il Sessantotto non abbia svolto alcun ruolo: la partita è stata tutta politica e si è giocata nei palazzi del potere. E' invece nel pieno della contestazione sessantottina, nel breve periodo in cui le rivendicazioni degli studenti si intrecciano con i problemi concreti dei lavoratori, che nasce, contro la Democrazia Cristiana e buona parte delle destre che fanno guerra per bande, la scuola materna statale con i suoi Orientamenti; contemporaneamente, nelle scuole superiori, dove la presenza del personale docente fascista è ancora estremamente cospicua, viene modificato, rendendolo meno nozionistico e classista, l'esame di maturità. Una modifica apportata con un provvedimento preso in tutta furia, che è definito "sperimentale", ma rimane in vita per trent'anni. Per la prima volta nella storia della Repubblica, intanto, nelle università - in cui ancora insegnano indisturbati gli "scienziati" che hanno firmato il "Manifesto fascista della razza", è messo in discussione il potere illimitato dei "baroni". Anche in questo caso, tuttavia, il peso determinante non è quello prodotto dalla spinta degli studenti, ma dalle controspinte del potere politico e delle forze più retrive e conservatrici del Paese.
Ai giovani, che pure esprimono un disagio concreto, reale e motivato, la politica non sa e non intende dare risposte. Nulla viene fatto per combattere l'evasione scolastica che, in una scuola rimasta strutturalmente di classe, assume dimensioni sempre più preoccupanti. E non sono gli studenti sessantottini, marxisti e contestatari a tempo perso, a porre l'accento in maniera rivoluzionaria sul drammatico fenomeno della "selezione esplicita". E' don Milani a farlo in una maniera che ancora oggi commuove e sommuove: un cattolico di origine controllata, che punta l'indice sulla bocciatura di massa denunciata come la risposta di classe della borghesia all'affermazione della "scuola di massa".
Il Sessantotto avvia certamente un processo di cambiamento nella mentalità della gente e mette nell'angolo le istanze repressive e selettive del fascismo riciclatosi nella repubblica, che non ha come obiettivo la promozione del merito, ma la selezione di classe e la conservazione del potere. E se la partita non può esser vinta in una battaglia campale, la via più sicura diventa quella della svalutazione, dello svilimento, della "pauperizzazione".
Una via imboccata iimmediatamente dall'ala reazionaria dell'integralismo cattolico e dal vecchio e nuovo fascismo che trova ampia rappresentanza nella destra democristiana e nel Movimento Sociale di Almirante e del giovane Fini. Quel fascismo che - Pansa e Vespa non bastano a riscrivere la storia, non ne hanno i numeri e i documenti - quel fascismo che non ha pagato alcun prezzo per la tragedia in cui ha trascinato il Paese. L'alba del Sessantotto, ha nomi di indiscusso prestigio: don Milani, con cui collaborò non a caso Gaetano Arfè, Raniero Panzieri e Gianni Bosio, che pochi ricordano e qualcuno disprezza: personalità di grande spessore, non di certo per furiosi iconoclasti o scellerati massimalisti.
Alla richiesta di rinnovamento che viene dagli studenti e dagli operai, la risposta vera - quella sì eversiva - non giunge dalla politica ma dall'ombra del Palazzo e dalle pieghe nascoste dei servizi segreti; si materializza in un preciso momento storico e ha un nome definito: strage. La fine del Sessantotto è lì, nella bomba di piazza Fontana e in tutte le bombe che vennero dopo. Quelle bombe che suggerirono presto uno slogan agghiacciante: "la strage è di Stato".
Scossa violentemente dall'onda d'urto dell'attentato del 12 dicembre 1969, la storia del nostro Paese fu così ricondotta sull'antico e tradizionale binario della reazione.
Da quel momento il peso reale che il Sessantotto ha sulla vicenda della formazione è praticamente nullo. Negli anni Settanta la riforma della scuola secondaria superiore si perde nei meandri delle discussioni parlamentari e nel 1972 naufraga quella universitaria: i "baroni" - e quindi la negazione del merito - tornano in pompa magna alla guida del vapore. Ed è paradossale che la lezione sulla meritocrazia ci venga oggi sempre più spesso dagli accademici - Ichino, per fare un esempio - che, tra sindacato e università, hanno letteralmente pugnalato alla schiena l'idea stessa della "carriera per merito". Se qualcosa resta del Sessantotto, ma anche quello si va smantellando nel revanscismo dilagante, è quel cambiamento per così dire "extraparlamenare", nato fuori dai languori di un finto riformismo, qualcosa di cui è traccia nella dignità acquisita dall'istruzione tecnica, nella sia pur marginale riduzione del distacco tra istruzione maschile e femminile, nella diminuzione delle disparità legate al sesso e nelle attutite discriminazioni di genere. Ma anche su questio terreno, in tempi di "quote rosa" e donne soldato, la reazione recupera.
E' vero, col tempo sono caduti verticalmente i livelli dell'apprendimento, ma non fa meraviglia. La premeditata dequalificazione della scuola si è rivelata un'arma di sconvolgente efficacia. La caduta , tuttavia, non ha nulla a che vedere col Sessantotto e le sue istanze. E' il prodotto naturale dello smantellamento della scuola dello Stato, studiato a tavolino con metodo scientifico e realizzato con gelida indifferenza per le sorti del Paese.
Sono passati decenni. La questione del merito si pone oggi da più parti - talora con intenti evidentemente strumentali: è l'ultima spiaggia, si dice. Più mi guardo intorno, più elementi raccolgo per valutare il livello medio delle nostre classi dirigenti, più me ne vado convincendo: in Italia, molto più che in qualsiasi altro Paese d'Europa, occorre che la scuola accetti l'idea d'una duplice selezione. Anzitutto quella che, guardando verso il basso, offra tutte le possibili opportunità alla povera gente: che esiste, è numerosa, aumenta quotidianamente e inizia il percorso formativo con il pesante handicap della condizione sociale. Una selezione alla rovescia, quindi, che riconosca le difficoltà di partenza e tenda a rimuoverle, assicurando agli alunni il meglio possibile in tema di strutture, garantendo accoglienza, affidando l'insegnamento a docenti competenti, preparati, ben pagati e motivati dal riconoscimento della loro funzione sociale. Una selezione alla rovescia che cominci in Parlamento, con l'assegnazione alla scuola di risorse che superino in larga misura quelle sperperate per la guerra e passi per l'università, ponendo fine allo strapotere baronale e imponendovi - è di là che occorre cominciare - la logica ferrea del merito. Lo scrivo, ma so che non è possibile. Siedono in Parlamento - nessuno li ha votati - personaggi di scarsa cultura. Siedono in Parlamento - e le Istituzione pagano prezzi altissimi - personaggi che hanno avuto a che fare con la giustizia e sono stati condannati in ultima istanza. Siedono in Parlamento - e il paese è sconcertato - ministri che si sottraggono ai giudici e, indagati da sostituti procuratori, ne chiedono e ne ottengono la rimozione.
E' sinceramente sconcertante che forze politiche protagoniste di questo sfascio, discutano di merito e addossino al Sessantotto la responsabilità di un naufragio di cui esse stesse sono state consapevoli protagoniste. E' quantomeno singolare che a farci la lezione sulla meritocrazia siano personaggi che, direbbe Salvemini, "per salire non hanno avuto bisogno che di soppiantare con vergognosi intrighi i più degni e i più capaci, e non hanno portato nei loro uffici che cinismo e ignoranza, e non sanno far altro che vivere alla giornata, salvo a perdere vergognosamente la testa non appena si trovino di fronte a un passo pericoloso o ad una impreveduta difficoltà" [1].
Fa male dirlo, ma è vero: quando le Istituzioni sono trascinate nel fango da chi le rappresenta, nessuno ha il diritto di meravigliarsi se le nuvole che si addensano all'orizzonte portano con sé la violenza della tempesta.


[1] Gaetano Salvemini, La riforma della scuole media, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1908; in Idem, Opere, vol. V, Scritti sulla scuola, a cura di Lamberto Borghi e Beniamino Finocchiaro, Feltrinelli, Milano, 1966, pp. 546-548.
interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Ciro Vona    - 28-10-2007
La tempesta probabilmente verrà e per questa ragione è importante che ognuno resti al suo posto e faccia la sua parte senza farsi prendere dallo sconforto. Bisogna che le persone colte e pulite diano alle giovani generazioni strumenti critici e punti di riferimento. Questa rivista offre tante opportunità di riflessione e mi auguro che continui sulla strada che segue da tempo.

 Gemma Gentile    - 28-10-2007
Trovo lucidissima l'analisi e giusto il commento di Geppino Aragno. Finalmente un articolo sulle problematiche che si stanno affrontando in questi giorni nel dibattito sulla scuola che ritengo completo, rispetto ai temi messi in campo, e puntuale, da quello storico che è, nell’esposizione e nel commento delle vicende secondo il suo stile di persona che non teme di rappresentare la verità dei fatti nel difendere i deboli che sono sempre e perennemente ignorati.
Eccellente è la puntualizzazione che non è imputabile al '68 e alla scuola di massa la svalorizzazione della scuola, quanto al fatto che quelle istanze sono state tradite da chi ha finto di accoglierle e poi non ha fatto niente perchè le scelte fatte sulla carta fossero realizzate. Dopo aver immesso le masse nella scuola, non sono stati elargiti i necessari e adeguati finanziamenti né sono state adottate le strategie adatte, tutt’altro, e i governi che si sono succeduti lentamente si sono adoperati per distruggere la scuola statale, dando la colpa del degrado agli alunni con problematiche sociali
Si può parlare di merito, in un paese democratico, solo quando si è fatto in modo che tutti possano partire dallo stesso livello, indipendentemente dalle condizioni sociali dei ragazzi. Il riconoscimento del merito cioè è auspicabile solo dopo che si è assicurata un'uguaglianza reale di condizioni. E' vergognoso usare la meritocrazia come una clava da parte di squallidi personaggi politici, che stanno al loro posto senza alcun merito, ma solo perchè fanno parte di famiglie potenti o sono al soldo dei poteri forti!