Il ministro della mala vita
Giuseppe Aragno - 12-10-2007
Nel 1910, per le edizioni della Voce, Gaetano Salvemini pubblicò un libro che, in 205 pagine, disegnava, come solo gli eretici sanno e possono fare, un quadro impietoso dell'Italia liberale: "Il ministro della malavita". L'Italia era quella della Belle Epoque, destinata ad affondare nel fango delle trincee per far posto all'ordine fascista, il ministro era Giovanni Giolitti, che, fatte le debite proporzioni, oggi sarebbe addirittura un galantuomo.
Nel Paese dei "Vicerè" di De Roberto e del "Gattopardo" di Lampedusa, quel libro giace dimenticato nella polvere delle biblioteche e credo che pochi dei nostri studenti l'abbiano letto.
Viviamo così: siamo un popolo dalle memoria corta e la storia tra noi non ha fortuna. Conviviamo pacificamente - l'abbiamo sempre fatto - con uno Stato che dagli anni dell'unità si è distinto per la sua forza accentratrice, la sua voracità e la sua furia distruttrice. Uno Stato che ha sempre dissanguato la povera gente, per pagare i debiti contratti dalle sue classi dirigenti con una politica estera eternamente dissennata e una politica interna perennemente e fatalmente classista. Uno Stato nel quale la cura principale dei governi è quella di avere via libera nella gestione della politica estera e di quella militare, con gli eterni e insostenibili costi delle armate di terra, di cielo e di mare; uno Stato in cui il potere esecutivo per sfuggire al controllo di quello legislativo è perennemente costretto a far leva su maggioranze spurie, fittizie, che non rappresentano né la realtà del paese, né la volontà di chi vota. Governi rotti ad ogni patteggiamento, ad ogni oscura manovra, per assicurarsi il voto in Parlamento anche quando chiedono il consenso su provvedimenti che ignorano lo Statuto. Governi che hanno comprato il voto col dazio sul grano concesso agli agrari del Sud, la protezione doganale regalata all'industria del Nord, i condoni fiscali e i regali alle lobby, siano gli armatori della marina mercantile, gli assicuratori, i mercanti d'armi o le banche, eternamente libere di taglieggiare i cittadini e spezzarne il destino coi crack pilotati e gli scandali soffocati. Lo Stato che è un eterno segreto, quello degli omissis e dei silenzi di tomba, dei parassiti e degli affaristi.
Oggi, ancora una volta, un governo deciso a salvaguardare i redditi, le rendite e i dividendi delle classi dirigenti, strombazza dalle televisioni più o meno irreggimentate, i risultati di un referendum sindacale che stracciano le più rosee aspettative del padronato, annichiliscono le maggioranze bulgare e ci proponongono, nell'apparente compattezza dei sì, un'immagine paurosamente disgregata e sostanzialmente falsa d'un paese indecifrabile, d'una classe lavoratrice ripresa attraverso lo specchio deformante di un voto che, a leggerlo, richiama alla mente Salvemini, Giolitti e il ministro della mala vita. Un voto che ha escluso i precari e i disoccupati e nasce dalla paura di una destra di cui la sinistra è perfetta supplente.
Contro il ministro della malavita, nella mia Napoli fatta a pezzi dalla cecità del centro sinistra, rompendo con le appartenenze, schierandosi allo stesso tempo con i lavoratori della la Fiat e dell'Alenia e con gli innumerevoli compagni esclusi dal voto per misura profilattica, 932 dei mille operai della Fincantieri, pari al 92 % dei votanti, hanno risposto "no" a governo e sindacato. Un no che fa a pugni con la limpida vittoria del sì ed è la chiave di lettura d'un inganno durato anche troppo. Nella dottrina politica che gli inglesi chiamano liberalismo e che il nostro governo scimmiotta, dire democrazia vuol dire sostenere i diritti delle classi subalterne contro i privilegi di quelle dominanti. Non c'è bisogno di Marx per leggere in quello che accade i rischi d'una involuzione autoritaria. E non basta alzare la bandiera dell'interesse delle classi deboli, per dire di essere democratici.
Salvemini direbbe che "molte controversie sulla democrazia non sono che discussioni senza senso su un essere mitologico e inesistente". Io sarei più prudente, perché credo che ci sia un limite a tutto. Se stasera mi chiedessero di descrivere in concreto una democrazia, penserei ad un corpo che ha i suoi organi, che nasce e cresce, può diventare forte o indebolirsi e ammalarsi. Qualcosa che può anche morire.

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 dalla Rete 28 aprile    - 12-10-2007
Al pari dei personaggi del famoso romanzo manzoniano i sindacati confederali, CGIL in testa, ci hanno raccontato di aver ottenuto il consenso degli italiani sull'accordo del 23 luglio 2007 tra loro ed il Governo. È vero essi hanno vinto, essi hanno ottenuto un consenso pressoché plebiscitario su un documento che influenzerà pesantemente il futuro di milioni di italiani (in negativo dico io) e di qualche migliaio di industriali, banchieri e speculatori (in positivo dico sempre io).

Analizzando l'andamento delle votazioni, dalla costituzione alla gestione delle assemblee fino al voto finale, il tutto però ricorda molto le "vittorie" che Don Rodrigo otteneva su tutti i malcapitati che si trovassero ad intralciare il suo cammino.

Certo Don Rodrigo otteneva le sue vittorie con la paura e l'intimidazione che i suoi "bravi" incutevano tra la povera gente (erano altri tempi). Cgil Cisl Uil hanno ottenuto lo stesso risultato distribuendo i loro "bravi " assemblea per assemblea, fabbrica per fabbrica facendo ben attenzione che il messaggio unilaterale arrivasse forte e chiaro e eliminando ogni minima forma di dissenso, se non auto organizzata sul luogo di lavoro da singoli ed isolati lavoratori.

Hanno ucciso ogni minima forma di democrazia, e quindi di discussione vera nelle assemblee impedendo che le ragioni del no fossero esplicitate, così come Don Rodrigo al fine di raggiungere i suoi scopi non esitava di utilizzare ogni mezzo per affermare la propria volontà.

La democrazia avrebbe voluto che i sindacati prima dell' accordo consultassero i lavoratori per un eventuale mandato, ma non è stato fatto.

La democrazia avrebbe voluto che, essendo comunque alto il dissenso all'interno di molte categorie, anche le ragioni del no fossero presentate, ma codardamente e antidemocraticamente i Don Rodrigo dei lavoratori, per paura del confronto, si sono nascosti dietro le norme statutarie impedendo di fatto la oggettiva informazione.

I nostri Don Rodrigo hanno preferito evitare il confronto e come dei buoni piazzisti hanno girato le fabbriche con i loro "bravi" che vendevano un prodotto scaduto e maleodorante a migliaia di lavoratori.

Che male avrebbe fatto alla democrazia sindacale, all'informazione oggettiva, se al fianco di un "bravo" ci fosse stato anche un "cattivo" sostenitore della bocciatura dell'accordo?

Hanno promosso un referendum un po' come in quella pubblicità di telefonia il cui slogan recita "TI PIACE VINCERE FACILE?", hanno partecipato ad una gara dove sapevano di arrivare primi, anche perché erano gli unici partecipanti.

Hanno promosso dei dibattiti praticamente privi di dibattito, hanno negato l'utilizzo di ogni strumento per sponsorizzare il no, anche minimo. Ad esempio hanno vietato ad aree programmatiche della CGIL, (Rete 28 aprile), di ciclostilare i volantini del no nelle camere del lavoro, proprio come Don Rodrigo avrebbe fatto se fosse vissuto ai tempi nostri.

È paradossale chiedere un voto su un documento che viene, nel novanta per cento dei casi, illustrato, come se fosse la panacea che risolverà tutti i mali degli italiani.

Che cosa dovevano votare le lavoratrici ed i lavoratori informati unilateralmente se non sì?

La prova sta nel fatto che la dove, in maniera del tutto auto organizzata, quasi clandestina, dei sindacalisti o dei semplici lavoratori hanno promosso le ragioni del no nelle assemblee, esse siano risultate fortemente vincenti.

Che cosa sarebbe stato se in ogni assemblea si fosse istituito un dibattito vero? I fatti ci dicono che i "bravi" di Don Rodrigo sarebbero stati cacciati a pedate nel culo e i lavoratori si sarebbero potuti esprimere davvero liberamente e democraticamente.

Democrazia sindacale non è lasciar scegliere un accordo già firmato e con un informazione parziale e a senso unico, bensì lasciar scegliere informando a pieno.

Sarebbe importante analizzare perché questi Don Rodrigo hanno promosso il sì con tanto vigore. Una risposta potrebbe essere individuata nel fatto che essi da signorotti di provincia mirino a diventare dei duchi o dei marchesi, cioè mirino tutti a elevare il loro rango sociale, passando ad esempio dal lavoro di segretari di categoria a quello più remunerativo di sindaci e assessori comunali, provinciali o addirittura parlamentari della beata seconda repubblica. Il legame che ormai tiene uniti i sindacati e il mondo della politica (i sindacalisti e i partiti) è evidente a tutti e oggi con questo voto si è maggiormente rafforzato. Così i Segretari Generali delle grandi realtà come Milano o Torino hanno messo un tassello in più verso la loro carriera di parlamentari e quelli delle realtà minori come ad esempio Savona hanno sicuramente ipotecato un posticino da assessori comunali nelle future amministrazioni.

Oggi il sindacato, soprattutto quello confederale, è formato per la stragrande maggioranza dei casi da persone che non hanno mai lavorato in vita loro (o se l'hanno fatto si sono scordati cosa significhi lavorare).

Oggi il sindacato è considerato da chi lo fa come il trampolino di lancio per la carriera politica.

Oggi il sindacato si è trasformato da sindacato di classe a sindacato di casta che tutela un'altra casta (la politica) e che comunemente fanno gli interessi di una casta ancora più esclusiva (banchieri, industriali e imprenditori).

Chi crede ancora nei valori del sindacato (e della politica) come strumento per migliorare le cose potrebbe sentirsi scoraggiato e potrebbe essere tentato di mollare tutto, di fare altro, ma i dati di questo referendum ci dicono una cosa diversa, ci dicono che i lavoratori e le lavoratrici, dove la discussione è stata vera e libera, dove le prepotenze del sindacato sono state evitate la pensano come noi. I dati di questo referendum ci dicono che se ci si organizza i Don Rodrigo restano in mutande, che forse il torpore degli anni novanta sta per terminare, che forse bastano ancora poche spallate per cambiare il sistema e mandare a casa tutti i Don Rodrigo del sindacato e della politica.

Marco Vigna

(Rete 28aprile - Savona)

 il Manifesto    - 13-10-2007
Messaggio dalle fabbriche

Una vittoria dei sì nella consultazione sindacale sul protocollo-welfare ampiamente scontata: troppo ampio il fronte del consenso organizzato, troppo ballerine le regole, a partire dalla scelta di far votare su un'unica scheda due cose così diverse come la riforma delle pensioni e gli istituti che «governano» la precarietà del lavoro. Meno scontato era che i dati - persino quelli della partecipazione al voto - venissero sequestrati per ore e ore all'informazione, dopo l'indicazione di parzialissimi risultati offerti da Cgil, Cisl e Uil, per annunciare fin dal primo pomeriggio un voto bulgaro. Ma tant'è, questo è il prezzo pagato alla politicizzazione di questa consultazione («altrimenti cade il governo») e lo scalpo da portare alle primarie del Partito democratico.
Il copione si è così sviluppato in un crescendo gioioso a supporto di un protocollo intoccabile, secondo il ragionamento per cui più ampia sarà la percentuale dei sì, meno spazi ci saranno alle modifiche di quell'intesa. Un gioco tutto politico, dentro cui viene rimossa l'unica vera crepa nel muro del consenso: il voto delle fabbriche, in particolare di quelle metalmeccaniche. Dove, nonostante una fortissima pressione in senso opposto, i no sono stati tantissimi, in molti luoghi ampiamente maggioritari.
Mentre scriviamo non sappiamo ancora quale sarà l'esito della consultazione nella più importante categoria dell'industria italiana. Sappiamo però che in quasi tutte le medie e grandi fabbriche - dove più emblematica è la condizione del lavoro - il no ha vinto di gran lunga. Ed è in questa crepa che bisognerebbe guardare per scoprire un pezzo importante di verità. Non solo quella di una protesta sul merito del protocollo - considerato un ulteriore schiaffo alla propria vita quotidiana -, ma anche una protesta più generalizzata contro la politica e un messaggio ultimativo alla rappresentanza sindacale. Ognuno di quei voti conta quanto ogni altro proveniente da altri «luoghi», siano essi i cantieri edili, i campi bracciantili o le povere case dei pensionati: è la legge della democrazia e va rispettata. Ma quei voti - di Mirafiori piuttosto che della Riello - vanno anche pesati per il segnale che portano con sé. Per il centrosinistra che, invece, volge lo sguardo di fronte al disagio sociale e alla disaffezione politica; per i sindacati che rischiano di tagliare di netto il rapporto con la parte più attiva (e produttiva) dei propri rappresentati; per tutti quelli che saranno chiamati nei prossimi giorni e mesi a decidere il merito del protocollo sul welfare, cioè le leggi che inquadreranno i rapporti tra capitale e lavoro. Se il no operaio (e non solo quello, aspettiamo i dati completi) verrà ignorato in nome degli equilibri politici (l'instabile governo) e di quelli sindacali («così facciamo fuori la Fiom», è diventato un tormentone), si sarà persa una delle ultime occasioni per correggere un pessimo accordo e ridare un po' di vitalità alla rappresentanza politica. Sarebbe un peccato, forse un dramma.

Gabriele Polo

 Anubi D'Avossa Lussurgiu    - 13-10-2007
L'asse Montez-Epifani-Bonanni dice: cancellare il dissenso. E la politica...

Il Day After è tutto in un gesto: il primo incontro del giorno dopo la consultazione sul protocollo di luglio, il segretario generale della maggiore confederazione sindacale, la Cgil, lo fa con il presidente della Confindustria.

Da Epifani, tra il plauso del collega Cisl, Raffaele Bonanni, e quello di Pietro Ichino, viene un duplice messaggio, affidato per intero alle parole di Montezemolo:

1) l'accordo su pensioni, welfare e mercato del lavoro adesso «non si tocca»;
2) comincia «una nuova stagione di relazioni industriali».

Ma per capire il significato di questo stesso messaggio, in entrambe le sue parti, occorre citare altre parole. Quelle del primo commento, "emotivo", del leader Cgil sui risultati del voto: «Abbiamo fatto cappotto!». E per capire ancora meglio, occorre confrontarle con le altre, pronunciate da Bonanni: «Gli abbiamo fatto un culo così!».

Prima evidenza: Epifani parla adesso lo stesso linguaggio ( mutatis mutandis ) della leadership cislina. Non a caso, ben oltre le battute sui "vinti", la convergenza di prospettiva si salda in quel gesto, nell'incontro con Montezemolo. E Ichino proprio a questo plaude: parlando di una Cgil che ha «seguito» la Cisl. Infierendo un po': chiedendo cioè ad Epifani di fare ora «autocritica» per aver «un anno fa» chiesto «la cancellazione secca della legge Biagi» quando oggi «il protocollo conferma quasi integralmente l'impianto» di essa. Mentre lo stesso Bonanni proclama: «La Cgil è uscita cambiata da questo referendum».

Seconda evidenza: si sancisce l'apertura di una «nuova stagione» di rapporti con la controparte, il padronato, con uno spirito preciso, quello appunto della "vittoria" su un avversario comune.

Chi è? L'identificazione è facile: basta vedere dove hanno vinto i No. Con un apparente paradosso: il dissenso ha prevalso per intero proprio nelle fabbriche di Montezemolo, nel gruppo Fiat. Apparenza di paradosso perché proprio così si identifica quell'avversario. Quello che il terzo segretario generale, Angeletti della Uil, definisce così: «La categoria che ha sempre detto no». Proprio mentre predica di «rinnovare i contratti» come priorità per «interpretare sul serio il malessere diffuso»: il rinnovo più duro alle porte essendo quello dei meccanici. Sorge il sospetto che l'altra priorità indicata, «ridurre le tasse sul lavoro dipendente», già condivisa da Montezemolo, si pensi come sovraordinata ai rinnovi contrattuali.


Terza evidenza: i vertici confederali si compattano in ragione di una sfida a una controparte non più esterna, non più determinata da un'organizzazione conflittuale delle rivendicazioni del lavoro. La prima controparte, oggi, è interna. La resistenza nel lavoro al "nuovo modello" è questo avversario comune. Una resistenza operaia, quella metalmeccanica, di cui così parla Bonanni: «Sono disposto a prendere la mia parte di fischi, insieme con gli amici di Cgil e Uil, dai lavoratori iscritti alla Fiom, ma non mi sottopongo al giudizio di chi è contro il sindacalismo confederale per partito preso». L'avversario è interno, naturalmente "fuorviato" da «lavoro politico e scontro ideologico» come dice il suo segretario del Piemonte, Scotti. E ora il capo della Cisl scandisce: «Chiederemo a Cgil e Uil di rivedere il sistema democratico all'interno del sindacato».


Quarta e ultima evidenza: il Vae Victis , il "guai ai vinti", si esercita su una resistenza sindacale e sociale ma si completa politicamente. Ecco perché, nel Day After , Epifani derubrica le sue stesse «riserve» espresse all'indomani della firma del protocollo e ne ratifica invece l'immutabilità, propugnata da sempre dalla Confindustria (come dalla Cisl). E ora accusa anche lui i «molti esponenti politici» che «non solo non hanno fatto un passo indietro ma ne hanno fatti due in avanti». Piuttosto chiaro con chi ce l'abbia. E dunque, Bonanni adesso intima: «Io aspetto che Prodi con lingua dritta domani (oggi nel consiglio dei ministri, ndr ) vari l'intero provvedimento che deve andare in finanziaria». Di più, avverte il governo ma non solo...: «Se Prodi domani sbaglia (come sopra, ndr ) significa che non è buono per fare il presidente del consiglio».

Conclusione provvisoria: chi vuole imporre il divieto di interpretare, «pesare», il dissenso espresso all'intero del voto delle lavoratrici e dei lavoratori, lo fa per affermare un'interpretazione ben disinvolta del voto stesso. E vuole pesare eccome, da una parte sola, sulla politica. Il risultato della consultazione sindacale diventa così un mandato alle leadership confederali, mandato da loro stesse presunto: quello a sancire una nuova "natura" dell'azione sindacale. La «nuova stagione» della quale si parla. Una stagione segnata da una Pax che porta un segno inequivocabilmente confindustriale. La politica, come l'intendenza, deve seguire.

Il Corriere della Sera ieri ha segnato la via, con quell'insolito commento di poche righe in prima pagina, siglato dal vicedirettore Dario Di Vico. Il cui passaggio centrale era: «Davanti all'incapacità di trovare un punto di equilibrio che non finisca per premiare come sempre la sinistra massimalista, Guglielmo Epifani insieme a Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti ha dato un contributo decisivo di leadership e di tenuta». Corollario tutto proiettato sull'attualità politica (e messaggio nemmeno troppo cifrato): «Ha insegnato a una coalizione rissosa e inconcludente che le controversie si possono risolvere con il voto». Un epitaffio per la sinistra, per il rapporto storico sinistra-sindacato e più immediatamente per l'attuale maggioranza parlamentare. Dal titolo perfetto quanto beffardo: «Il Dono di Epifani». Ora, il referente del messaggio del Corsera è preciso: sono «i riformisti», che «dovrebbero pesare di più perché contano di più». E c'è un solo interlocutore che può raccogliere questa indicazione, nella politica, essendosi candidato esplicitamente a rappresentare e guidare tale "riformismo": è il candidato favorito alle primarie che eleggeranno il segretario del Piddì, per quanto esso non sia ancora nato. Fra il giorno di Walter Veltroni, che è domani, e quello del Day After di una consultazione sindacale trasformata in plebiscito politico, che è stato ieri, c'è la giornata di oggi: che è quella di Romano Prodi. Sta tutta nelle sue mani la decisione di farsi annullare tra un plebiscito e un altro, nella stessa, rafforzata delegittimazione della scommessa dell'Unione e del suo programma, oppure provare a frapporvisi. Anzi, a smarcarsene: uscendo finalmente dall'infernale trappola che si è dimostrata la contesa sulla genesi del Piddì. E' una scelta che non si esaurisce con eventuali "aperture" formali - peraltro prevedibilmente molto limitate, giocoforza - nella riunione odierna del governo: perché dopo, nel tempo successivo che è quello della discussione parlamentare cui la traduzione in legge del protocollo (tanto più un suo "miglioramento") è affidata, ci sarà un convitato di pietra. E cioè il nuovo leader del nuovo partito-azionista di maggioranza della maggioranza. Il quale a sua volta avrà in mano una scelta definitiva.

Ipotesi A: affossare la stagione politica apertasi con le elezioni del 2006 e il ritorno del centrodestra all'opposizione, per avventurarsi nella materializzazione della «nuova fase» che ha vagheggiato in un crescendo minaccioso in questo finale di primarie, proponendola come cornice alla «nuova stagione» nel frattempo cercare dalla sovrapposizione della Cisl alla Cgil, nelle braccia di Confindustria. Può farlo in due modi: dando retta ai più "ultras" dei suoi "riformisti", che il protocollo in sede legislativa vantano di volerlo persino peggiorare, a fronte di un'iniziativa emendativa della sinistra; oppure facendo finta di non avere nulla a che fare con il confronto parlamentare, con questa maggioranza, con questo governo, e lasciare passivi i gruppi dell'Ulivo nel fuoco di uno scontro che vede già in gioco altri "incursori", dai diniani ai radicali.

Ipotesi B: fare davvero un passo indietro e lasciare che si metta alla prova il patto, votato dagli elettori un anno e mezzo fa, senza il quale non avrebbe tanto facilmente potuto «coronare il sogno politico di una vita», come dice ora della sua presa di potere nel Piddì. E impedire a sé stesso di trasformare questo sogno nell'incubo del partito democratico più consociativo nei confronti la destra economica e sociale, che si sia visto al mondo.

Se il «dono» è quello affidato dal padronato alle mani di Epifani, sarà il caso che ogni avventurista ricordi l'adagio: « Timeo Danaos et dona ferentes ».

Anubi D'Avossa Lussurgiu

 Annamaria Tranfaglia    - 13-10-2007
Nemmeno Salvemini saprebbe come descrivere quello che sta accadenso. Nessuno lo dice, ma ora siamo al surreale: è bastato modificare le virgole dell'accordo - il tetto al numero dei lavoratori impegnati in attività usuranti che possono andare in pensione anticipatamente e una sola proroga per i contratti a termine oltre i tre anni - e la Cgil si è ritrovata a protestare assieme a Montezemolo contro il governo. Il programma da realizzare, per Epifani, non è quello dell'Unione, ma il programma della Confindustria.
Così in basso sindacato e Paese, non erano mai caduti.

 Mauro Lazzarini    - 14-10-2007
Condivido pienamente. Quello che mi preoccupa di più è il fatto che di queste cose moltissimi non vogliono nemmeno parlare. Anche a scuola si respira ormai aria di rassegnazione. Non è solo perché siamo delusi. Cominciano a mancare gli strumenti di analisi e c'è una crescente tendenza a vivere alla giornata. Ieri a Roma, alla manifestazione di Alleanza Nazionale, c'era chi se la prendeva acriticamente con la scuola perché i professori sono sessantottini. C'erano centinaia di migliaia di persone. Nessuno faceva proposte serie, ma c'era tantissima rabbia. Questo governo ha commesso troppi errori e tradito troppi giovani elettori.

 Antonio Budruni    - 14-10-2007
Nel leggere certe analisi, avverto un brivido freddo lungo la schiena e mi viene da chiedere: ma dove vivono queste persone?
Per riprendere il filo della storia, mi viene da pensare alle analisi di alcuni "grandi" capi del partito comunista nei primi anni '20, di fronte all'arrembante ascesa del fascismo. Non se ne curavano, talmente convinti di inseguire le loro analisi ideologiche che, per definizione e "a prescindere", come avrebbe detto Totò, assicuravano che l'ascesa al potere del fascismo fosse solo un cambio di personale politico nel governo della borghesia.
Oggi, siamo ancora lì: Berlusconi o Prodi, pari sono, entrambi nemici dei lavoratori. Il segretario generale della CGIL? Un nemico del popolo. L'80% di si al referendum? Niente altro che una truffa delle centrali sindacali asservite alla confindustria contro i lavoratori. Non si dice, ma lo si pensa: i lavoratori, minus abens, non sono in grado di decidere con la loro testa! Quelli che hanno votato "No", invece, decidono con la loro e non con quella di Cremaschi e Rinaldini. Che dire?

 Patrizia Rapanà    - 15-10-2007
Queste persone, come lei sprezzantemente le chiama, Budruni, vivono nel suo paese. Un paese che Prodi ha prima ingannato e ora sta conducendo a un tracollo. Queste persone vivono in un paese che processa i giudici se indagano su politici come D’Alema, Fassino, Prodi e Mastella.. Salvemini aveva perfettamente ragione e Aragno è lucido e conseguente. Lei lo attacca in maniera ideologica e strumentale, ma non oppone alcun serio argomento. Questo suo commento aggressivo e intollerante non sa entrare nel merito dei problemi che l’articolo pone e implicitamente dà ragione a chi lo ha scritto.

 Giuseppe Aragno    - 15-10-2007
Caro Budruni, mi spiace, ma Salvemini non può risponderle. Se n’è andato da tempo. Pragmatico com’era, per il freddo le consiglierebbe probabilmente un cappotto. A nome di “queste persone” che la inquietano – ma dove vivono? si chiede con la consueta finezza – poche parole: quelle che merita. Se non se n’è accorto, e vuol dire allora che è lei che dovrebbe spiegare in quale mondo vive, i comunisti non c’entrano niente con quello di cui si discute. Qui abbiamo un Parlamento che nessuno ha eletto, un governo che non si regge in piedi, racconta frottole al paese, dà di sé uno spettacolo penoso e copre di ridicolo le Istituzioni. Abbiamo pezzi di maggioranza che se ne fregano del governo e costruiscono un partito senza programma, pieno zeppo di notabili, fatto apposta per un listone. Dulcis in fundo, abbiamo un sindacato più o meno di Stato che non solo esclude dal voto coloro che pagheranno il peso delle sue scelte esclusivamente politiche, ma si trova in casa la guerra con la Fiom. Il freddo alla schiena, Budruni, lo fa venire questa situazione politica, non chi è costretto a prenderne atto. Se domani si dovesse votare davvero, lei lo sa bene: l’80% di cui si mostra fiero si squaglierebbe come neve al sole e la destra avrebbe una valanga di voti. La destra Budruni. A “prescindere”, come direbbe Totò.
Di questo dovremmo - o dovremo? - ringraziare lei e quelli come lei.
Per finire, il filo della storia cui maldestramente fa cenno. La memoria la inganna. Nel bene e nel male, i “grandi” capi del comunisti, tra carcere e confino politico, guidarono per vent’anni l’unico partito che scelse di lottare in clandestinità contro il fascismo. Con loro rimasero solo gli anarchici, che per lei naturalmente fanno parte di “queste persone”. Gli altri, rimasero incerti tra il che fare e il suo che dire e si zittirono, si pentirono, presero la tessera fascista e fornirono al regime quel personale politico di cui lo squadrismo aveva disperato bisogno. Stia tranquillo, comunque: la storia non si ripete. I suoi amici, perciò, non potranno resuscitare il fascismo. Si limiteranno a tenere in vita il berlusconismo. Che forse è peggio.

 Oliver    - 16-10-2007
Spero presto che torni il suo caro amico F..i che farà recuperare a Napoli e ai napoletani tutti le sue potenzialità. Strano ma non si è mai chiesto che forse una parte del degrado è dovuto agli stessi napoletani con i loro atteggamenti. Provi a riflettere e a non sparare sciocchezze.

 Redazione    - 16-10-2007
Come già sottolineava Patrizia, commenti che non entrano nel merito dei problemi che l’articolo di riferimento pone non aiutano a sviluppare il confronto cui questo spazio è dedicato. Quando poi i commenti contengono offese palesi, pur parzialmente criptate, e del tutto assiomatiche, il dibattito diventa conflitto inutile. I temi sono caldi e il periodo bollente, ma questo non impedisce, soprattutto a gente di scuola e di cultura, di tenere alto il livello degli interventi. Non esistono sciocchezze sparate laddove c'è una ricerca motivata e seria intorno alle questioni che ci interessano. Sarà difficile, ma non è impossibile piantarla con polemiche sterili e aprirsi a un dialogo vero.

 Anna Maria Milanesi    - 16-10-2007
Caro Oliver, ci sono commenti che non meritano commento.