Referedum sull'accordo del 23 luglio
Francesco Mele - 28-09-2007
PERCHÉ VOTERÒ NO

... e perchè l'assemblea mono-orientata a cui ho partecipato non mi ha convinto

Sono in corso le assemblee sindacali per convincere i lavoratori a votare SÌ al prossimo referendum sul welfare.

Ho ascoltato con attenzione le ragioni del SÍ, ma devo dire che, nonostante la buona disposizione d'animo, non mi hanno convinto.

Qualche riflessione.

Intanto non si capisce perché si siano fatte assemblee separate tra ordini di scuola e tra docenti e ATA, quando le problematiche sul tappeto riguardavano tutti i lavoratori. Hanno detto perché all'ordine del giorno c'era una informativa sullo stato della contrattazione di categoria, ma penso che in nessuna assemblea si sia riuscito a parlarne visto che l'affaire welfare, così variegato ed articolato, fa fatica da solo a star dentro le due ore destinate all'argomento. L'impressione è che questa volta risultava conveniente frammentare la categoria ed evitare che tante "teste calde" si trovassero concentrate nello stesso posto.

Per quanto riguarda il metodo, però, l'obiezione più preoccupata e critica riguarda il fatto che su tutta questa questione complessa e articolata si chieda il consenso dei lavoratori a cose già fatte, non per la costruzione di una piattaforma condivisa su cui aprire la trattativa, ma per ratificare un accordo con la pistola puntata alla tempia, mettendo sul tappeto tutte le sciagure possibili e immaginabili nell'eventualità che vincano i NO.

E poi, che democrazia è quella che prepara un referendum facendo sentire solo la voce del SÍ? Mi risulta che a Parma i dissidenti della FIOM hanno dovuto minacciare di andarsene per ottenere un'assemblea (concessa solo separata però) per le ragioni del NO. Ma nel resto d'Italia? E nel resto delle categorie?

Nel merito delle questioni, solo un esperto giuslavorista a tutto tondo riuscirebbe a sviscerare e a districarsi in un confronto tra il prima e il dopo di una notevole mole di temi affrontati nell'accordo, insieme ad un'analisi critica delle alternative che si potevano adottare e che invece non sono state sufficientemente supportate da parte sindacale o, addirittura, neanche proposte.

Allora non essendo in grado di entrare nel merito di ciascuna materia, provo a riferire alcune impressioni sulle quali per ora si fondano le mie certezze sulla decisione di voto.

La sensazione generale è che il governo (sindacati ignari?) si sia comportato come quei supermercati che propongono dei prodotti "civetta" col ruolo di attrarre i clienti che poi sul resto della spesa pagano l'uno e l'altro. Una sorta di bilancio a costo zero, una partita di giro in cui molti lavoratori, rinunciando ai propri diritti sacrosanti, sovvenzionano i diritti sacrosanti di pochi, con lo stato che comunque fa la "cresta" sul tutto. Per carità, se si tratta di un'operazione di solidarietà sociale basta che ce lo dicano e ne possiamo parlare, ma messa così sembra una vera e propria burla, la solita guerra tra poveri in cui a pagare sono i soliti, in nome di un'emergenza nazionale di cui conosciamo bene i responsabili.

Se ci pensate, infatti, l'aumento dell'età pensionabile c'è (proprio come nella Maroni, certo più diluito nel tempo, ma solo a vantaggio di chi andrà in pensione il prossimo anno), la riduzione dei coefficienti per il calcolo della pensione c'è, il minimo al 60% della pensione sullo stipendio non sembra garantito, la legge 30 risulta sdoganata dall'accordo e subisce solo piccole correzioni di non grande rilevanza. Questi aspetti a mio avviso sono il prezzo pesante che si paga nell'accordo, a fronte di alcuni vantaggi che risultano micro al confronto.

Ma come, si diceva di abrogare la legge 30 e ora ci si accontenta di qualche piccolo e parziale correttivo? Ma scherziamo!!!

Si diceva di abolire lo scalone Maroni e ora? Allora mi è stato detto, "attento che nel programma dell'Unione c'è scritto superamento, e non a caso". Ah beh, allora chi ha scritto quel programma sapeva già di prenderci per i fondelli, un po' come ha fatto Fioroni quando ha chiesto di approvare in finanziaria l'obbligo di istruzione e non l'obbligo scolastico (ancora qualcuno si confonde sulla cosa, anche nel movimento), che sono due cose molto distanti tra loro, con una deriva possibile che rischia di essere ben peggio del diritto-dovere della Moratti.

No, non ci siamo, questo accordo è l'ennesima burla, l'ennesima svendita in nome di un realismo che è ancora ostaggio della paura di Berlusconi, una paura in nome della quale vogliono farci digerire cose che Berlusconi non si era neanche sognato. E gli esempi di quanto dico sono sotto gli occhi di tutti.

Concludo con gli scenari possibili dopo il referendum.

La vittoria del SÍ non assicura alcunché sull'accordo, perchè sarà fondamentale il passaggio parlamentare e nessuna garanzia viene data riguardo al mantenimento dei pochi vantaggi e/o al peggioramento dei costi da pagare; è prevedibile cioè che a seconda degli equilibri difficili in parlamento, l'asse dell'accordo possa essere spostato ancora più verso il negativo. Dall'altra parte viene legittimata una politica sindacale timorosa e remissiva rispetto alla quale continueremo ad essere ostaggio di logiche di compromesso che accettano di scaricare le tensioni nel conflitto tra le fasce più deboli della società.

La vittoria del NO viene presentata come una sciagura, come un via libera al governo a fare il peggio, rendendo tra l'altro inevitabile l'entrata in vigore della legge Maroni dal 1° gennaio 2008.
Io penso invece che sarebbe un segnale, forte e chiaro - sia al sindacato, sia al governo, sia al Parlamento - che i lavoratori dipendenti non ci stanno a pagare ancora una volta il peso di uno sfascio di cui altri sono responsabili, e che richiederebbe che altri comincino finalmente a risanare. Nessuna sciagura quindi, e anche l'inevitabilità della legge Maroni non è scritta nella Bibbia o scolpita nel marmo delle tavole di Mosè dalla volontà divina. Come tutte le leggi può essere modificata purchè i diretti interessati siano in grado di far sentire tutto il peso delle loro ragioni, senza abusare troppo di deleghe, dimostratesi fin qui immeritate.

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 Redazione    - 29-09-2007
Non possiamo che convenire con le osservazioni di Francesco alle quali ci permettiamo di segnalare un sito che dice NO argomentando nel merito e sul metodo.


 Attac Italia    - 29-09-2007
23 luglio: una pessima data per i lavoratori! mai fidarsi di accordi e protocolli balneari

Sono diverse le macroscopiche criticità contenute nel “Protocollo su previdenza, lavoro e competitività” del 23 luglio 2007.

Si va dall’attacco al contratto nazionale di lavoro mediante la detassazione e la decontribuzione della parte del salario che nel contratto di secondo livello (aziendale o di zona) è in tutto e per tutto una variabile dipendente della produttività e del profitto.

Si passa alla soppressione della contribuzione aggiuntiva sul lavoro straordinario, che ne risulta incentivato.

Si arriva alla sostanziale conferma - con qualche foglia di fico (peraltro indecorosa) - della liberalizzazione dei contratti a termine, fonte tra le principali e più devastanti della precarizzazione del lavoro.

Ma senza voler fare un’analisi puntuale di un testo - che più che fissare cose, dichiara volontà e intenzioni onweb-, pur nelle diverse criticità che affiorano qua e là, quel che caratterizza il protocollo è una dichiarata “bonomia”, l’espresso desiderio di coniugare equità sociale con crescita economica in un quadro di sostenibilità.

Ovvero, fissati i vincoli di bilancio e le necessità determinate dalla competitività sui mercati - evidentemente ineludibili - si dichiara di voler provare a ridistribuire in maniera più equa tra lavoratori, disoccupati, precari e pensionati quello che questi stessi hanno (n.b.: quello e niente altro. Per esempio si arriva a far finanziare il 50% dell’aumento delle pensioni minime dai collaboratori a progetto con l’aumento dell’1% dei contributi a loro carico!).

Peccato che, nella sua “bonomia”, da questa equa redistribuzione siano escluse le rendite e i profitti. Ovvero proprio chi ha usufruito e goduto negli ultimi 15 anni della “un po’ meno equa” redistribuzione della ricchezza prodotta.

Nella sostanza il Protocollo fa salvi gli interessi forti e dice alla platea di coloro che devono vivere del loro lavoro che, utilizzando “meglio” le risorse loro “spettanti”, sarà possibile un miglioramento complessivo sia in termini di reddito che di condizioni di vita e di lavoro.

Ma, almeno questo, è vero?

In realtà non è logico aspettarselo.

Per quanto contenuti ed al di sotto delle medie internazionali ed europee, sono previsti e prevedibili nel breve e medio periodo nel nostro paese aumenti di produttività e, in misura minore, di produzione.

Questo significa - anche se sembra che tutti se lo dimentichino - che a breve e medio termine avremo una riduzione del tempo (e del costo) necessario per unità di prodotto, riduzione non compensata da un equivalente aumento della produzione.

Dal punto di vista del lavoro salariato questo significa una diminuzione quantitativa della sua necessità (serviranno meno lavoratori per produrre gli stock di prodotti e servizi richiesti), ovvero avremo l’aumento della disoccupazione o il depauperamento di quote di lavoro “stabile” in forme di lavoro intermittente e precario.

Una politica che volesse coniugare effettivamente equità e crescita economica non potrebbe prescindere da questo snodo essenziale. E le leve per poter intervenire su di esso sono essenzialmente:

la redistribuzione del lavoro necessario e socialmente utile attraverso la riduzione del tempo di lavoro (e il protocollo incentiva l’esatto opposto, incentivando il lavoro straordinario) a parità di salario. Con la partecipazione ai relativi costi di tutti, ovvero anche di chi gode di rendite e profitti (altro che annunci di riduzione di tasse!);

la redistribuzione di una quota di aumento della produttività sul reddito di tutti (e non certo il legare quote di salario al profitto di ogni singola azienda).

la destinazione di una quota di aumento di produttiva per la creazione di occupazione aggiuntiva.

Di questo o di qualcosa di analogo non c’è traccia nelle trentuno pagine del Protocollo, che mai mette in discussione i paradigmi ed i dogmi del liberismo più integralista.

In fin dei conti, in nome delle compatibilità di bilancio e della competitività sui mercati, il Protocollo si guarda bene dal sottrarre i futuri incrementi di produttività al profitto e si prefigge di governare una nuova stagione di stenti e precarietà con l’ausilio delle concertanti parti sociali.

... Tutto questo ricorda qualcosa ...

Cambia il decennio, ma il 23 luglio resta una pessima data per i lavoratori.

Severo Lutrario (Attac Italia)

 Francesco Mele    - 29-09-2007
Siccome (a partire da me) mi sembra ci sia poca iinformazione sulle ragioni del NO, ho provato a fare una ricerca in rete e oltre ad altri contributi su foruminsegnanti.it (Rete 28 Aprile, Coordinamento RSU, COBAS) ho trovato sul sito della Rete 28 Aprile una nota con le ragioni del NO molto dettagliate, a questo indirizzo:
Penso che sia opportuno cominciare a diffondere tali documenti.

 Giuseppe Aragno    - 29-09-2007
Semplicemente, con chiarezza e senza lasciare spazio ad ambiguità: il “Protocollo” è l’ennesima dimostrazione dell'impossibilità di contare su un cambiamento di rotta della nostra classe dirigente accomunata da interessi inconfessabili e allineata di fronte alle logiche del mercato. Questo in soldoni. Poi, certo, si può andare nel dettaglio per scoprire quanto pesino la malizia e l’esperienza di sindacalisti passati alla politica nell’elaborazione di un'intesa che è destinata a peggiorare le condizioni di vita delle classi meno abbienti. Sotto tiro sono strumenti essenziali di tutela dei lavoratori come il contratto nazionale. Si fa spazio al lavoro straordinario, si elude – se non si acuisce – la questione della precarietà nel lavoro, che vuol dire impedire ai giovani di avere speranze nel futuro. Un progetto molto più criminale e fascista di quanto non sia quello sull’ordine pubblico che vien fuori dalle stanze di quel galantuomo di Amato.
Ciò che si legge chiaramente tra le righe dell’accordo è una concezione della società e della vita: chi sta male, si rassegni a star peggio, perché non possiamo tirar fuori un quattrino per aiutare chi ne ha bisogno: prima della qualità della vita dei lavoratori ci sono i conti del ragioniere. Non altro. E’ un protocollo che risponde perfettamente ad un disegno politico: la rendita non si tocca, le spese militari sono sacre,
il sistema pensionistico deve costare sempre di più ai lavoratori e va smantellato a favore del privato. Al fondo del “protocollo” un pilastro: nessuna modifica alla divisione della ricchezza.
Questo non altro. Governo di classe dicevamo un tempo. Governo classista dovremmo dire oggi.
Sostenuto in una logica suicida dai presunti alternativi. E’ incredibile: persino da Caruso e Luxuria,