breve di cronaca
Palermo: prof assolta
Repubblica - 02-07-2007
Assolta la professoressa che punì lo studente bullo. Palermo, gli fece scrivere cento volte: "Sono un deficiente"

È una sentenza esemplare che sarebbe addirittura perfetta se, chiudendo con l'assoluzione il processo alla professoressa, ne avesse aperto un altro a
carico del padre del bullo, educatore diseducativo che ha dato, a nessun titolo se non le sue nari, della "cogliona" all'encomiabile insegnante che
aveva punito suo figlio: insegnante di lettere, di umanesimo e di buone maniere. È infatti il padre che andava e andrebbe processato, è lui il principale responsabile delle deficienze del figlio deficiente.

Ed è facile immaginarlo a Palermo questo padre "masculu" che pretendeva un risarcimento di venticinquemila euro, un ovvio personaggio di quell'universo ridicolizzato da Brancati: « 'A ttia ti dissi deficiente? A me figghiu? Dammi il quaderno ché rispondo io alla tua maestra». E scrisse: «Non solo
mio figlio non è un deficiente, ma lei è una cogliona».

Attenzione però: non è Palermo che ha prodotto l'apparente eccezionalità del caso. In tutta Italia infatti le istanze familistiche - la difesa del figlio nostro, u
figghiu miu, a creatura, il piccinin, er pischello, il toso - hanno ormai il sopravvento sulle prerogative istituzionali della scuola, sulla formazione del cittadino. Saggiamente infatti la sentenza di Palermo ricorda il terribile caso del ragazzo suicida a Torino perché trattato da omosessuale, maltrattato da un branco di deficienti che diventano, senza capirlo e senza volerlo, per ignoranza e per deficienza appunto, una banda di assassini, di istigatori al suicidio.

Dunque, secondo il giudice, e anche secondo noi, il giovanissimo bullo che, nelle mille varianti del dialetto palermitano, ha dato del frocio al suo compagno e gli ha impedito di entrare nel bagno dei maschi, andava proprio punito ed è stato un atto educativo per tutta la classe oltre che per lui, un addestramento alla responsabilità, l'averlo costretto a riflettere sulle sue deficienze etico-categoriali, scrivendo cento volte «sono un deficiente». E tuttavia almeno quel bullo ha le attenuanti dell'età immatura. Non hanno invece attenuanti nella loro fosca responsabilità gli
adulti: i genitori, innanzitutto, che si compiacciono del figlio "malandrino", e non capiscono che la scuola è un'opportunità formativa di gran lunga superiore a quella offerta dalla famiglia e dalla strada. Sono
loro che, dinanzi alla punizione del figlio, reagiscono da superbulli fabbricatori di bulli. E invece dovrebbero arretrare, cedere il passo, consegnare il figlio all'insegnante.

Un tempo era riconosciuto il diritto alla punizione dello scolaro, si aveva fiducia nella qualità dell'insegnante, e anche gli aristocratici mandavano i
figli a scuola con la convinzione di trovarvi un assemblaggio di strumenti, uomini e opportunità educativi e formativi che in casa, nonostante l'agio,
non c'erano. E la punizione di copiare cento volte una frase educativa sul quaderno scolastico si chiama "penso" ed è un'antica, cardinale istituzione
della scuola, fatta non solo di bullismo, di parole in libertà, di gite, di baby parking, ma anche di compiti a casa, di interrogazioni, di rimproveri e di "penso". Ricordo di avere scritto per cento volte su un quaderno nero "non dirò mai più "piccolo babbeo" al mio compagno Gulizia».

E ricordo anche che mio padre, convocato a scuola, si mise a dare fin troppo ragione all'insegnante, accusandomi più di quanto non avesse fatto il
professore, il quale, a un certo punto, fu costretto a difendere me, il deficiente: «Non esageriamo, il ragazzo vale». Qui, al contrario, in un processo che non si doveva proprio celebrare con quell'imputata, si volevano far passare per categorie nobili, forti e civili la schiuma della sozzura e i preconcetti sul sesso. E' purtroppo vero che la responsabilità non è solo del padre che, comunque, andrebbe punito da un tribunale di Stato. C'è anche la responsabilità di altri adulti, parlamentari, uomini politici, altri professori, altri giudici e anche uomini di chiesa. Non solo il padre dunque, ma tutti quelli che nella diversità sessuale vedono crimini, depravazioni, abnormità e mostruosità naturali, vizi dell'anima, e magari anche l'assenza di Dio. Tanti in Italia dovrebbero scrivere, cento o mille volte, sul quaderno nero «sono un deficiente». E la parola giusta è proprio deficiente, che viene da deficio, indica un deficit, un buco di bilancio, un vuoto di testa, un conto in rosso, una vacanza di educazione sessuale e dunque di intelligenza della complessità della sessualità.

Ecco perché questa sentenza è un'assoluzione con l'encomio per avere commesso un fatto che non solo non è un delitto, ma è il suo contrario: è una buona azione, una di quelle rare e sorprendenti in questo parcheggio sfasciato che è la scuola italiana. Nelle sue otto pagine dattiloscritte il giudice di Palermo scrive anche che l'ordinamento italiano non prevede
adeguate punizioni per quel bullismo che offende la sfera sessuale. Più propriamente, la scuola italiana di oggi non è attrezzata a liberare i figli dal familismo, dal mammismo, dai padri malandrini che esclamano offesi: «a mme figghiu!». Perciò forse la sentenza si può riassumere così: lasciate che la scuola difenda i figli dai loro genitori.

di Francesco Merlo
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 Anna Di Gennaro    - 02-07-2007
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http://www.docentinclasse.it/content.php?article.253

MEDAGLIE DI VERGOGNA PER I BULLI

Ferdinando Camon da "La Stampa" domenica 01 luglio 2007

Dunque: a Palermo uno studente cosiddetto «bullo» fa un sopruso a un compagno, gli impedisce di accedere al bagno dei maschietti durante l’intervallo, sbarrandogli la porta e chiamandolo «gay». La professoressa viene a saperlo, per punizione gli fa scrivere cento volte sul quaderno «sono un deficiente», il padre del ragazzo così punito s’infuria, va dalla professoressa, la chiama «cogliona» e le pianta un processo. Adesso attenzione, perché viene il bello. Il pm chiede per la professoressa una condanna pesante: due mesi di galera. Il pm rappresenta lo Stato. Dunque lo Stato, in quella vicenda, vede il bulletto smargiasso come uno studente perbene, l’ingiuria sessuale (poiché di questo si tratta) a un coetaneo come innocua, e la decisione dell’insegnante, che ha risolto la cosa con una punizione didattica e istruttiva, come un reato.

Tiriamo le somme: lo Stato non sa cos’è la scuola; non sa cosa significa chiamare «gay» un ragazzino in età di scuola media; non sa cos’è il bullismo; non sa come si può e si deve estirparlo. Il bullismo dei maschietti, in età di scuola media inferiore e superiore, ha come posta in gioco la conquista delle compagne. Il bullo vuole emergere sugli altri maschi: vuole entrare nella vista e nel cervello delle compagne. Nelle classi due tipi di scolari guidano le compagnie e formano proseliti: i migliori e i peggiori. I bulli sono i peggiori. Un insegnante ha pochi mezzi per impedire la leadership dei peggiori: le note a casa non servono, il bullo falsifica la firma del papà, le note sul registro non solo non servono, ma ottengono l’effetto contrario. Perché il bullo è in guerra con i compagni perbene e con gli insegnanti, nella guerra ci sono le battaglie, e dopo le battaglie ci sono le medaglie e le decorazioni. Le note sul registro sono medaglie e decorazioni. Più note ha, più alto è il prestigio del bullo sui compagni di gruppo e sulle ragazze conquistate o da conquistare, e più perdente è il professore o la professoressa che gli dà
quelle note. Guardate i gruppi davanti alle scuole alla mattina: attendono il bullo, quando il bullo arriva il gruppo si apre per accogliere il capo.

Se il pm del processo avesse vinto e la povera (ma saggia, intelligente) professoressa si fosse beccata due mesi di prigione, quel bullo sarebbe salito sul trono, e quella classe sarebbe diventata incorreggibile: lo Stato si schierava col bullismo e tradiva l’educazione, tradiva la sua scuola. Che
bisogna fare, in questi casi? Una sola cosa: trasformare le medaglie al vanto in medaglie alla vergogna, le decorazioni al merito in attestati di ludibrio. Far svergognare il bullo di fronte a tutta la classe. Esporlo al ridicolo. In questo modo, il castello di seduzione che lui sta costruendo sulle ragazzine gli crolla addosso. E lui non farà il bullo mai più. Una buona prassi sarebbe, nei casi di bullismo, far venire il ragazzo col genitore, in piena classe, e riammetterlo solo dopo che ha chiesto (che hanno chiesto) scusa per il disturbo recato alle lezioni. Il padre: cappello in mano, testa bassa. La vergogna personale e la vergogna famigliare sono la morte secca del bullismo, e distruggono la carica erotica che potrebbe esercitare sulle ragazzine.

Quella professoressa ha fatto bene. Il giudice che l’ha assolta ha fatto bene. Un’altra cosa però doveva fare, quel giudice: i due mesi di condanna doveva affibbiarli al padre del bullo, per quel «cogliona» scagliato sulla professoressa. Così non solo nella classe, ma in tutta quella scuola i bulli sparirebbero sotto terra. Le ragazzine potrebbero indirizzare il loro nascente eros su maschi più degni. È quel che a loro auguro.

Ferdinando Camon


 camilla    - 06-07-2007
L'assoluzione va bene, la professoressa non è una criminale ma solo un'incompetente. Quello che ha fatto non è lodevole, non è intelligente e sicuramente non è educativo. Ha prevaricato genitori, preside e colleghi. Ha fatto da sola il processo, ha emesso la sentenza e applicato la pena senza consultare nessun altro. Non facciamo finta che deficiente per il volgo abbia il significato etimologico; deficiente è, per il ragazzo e per i suoi genitori, un insulto. Non doveva comportarsi così, non ne facciamo un'eroina o un simbolo di riscossa della scuola . Il fatto che l'opinione pubblica plauda a un'iniziativa del genere, come se fosse la "rivincita dei nerds" della cattedra, non è un successo.
Da una collega che si trova nelle condizioni della prof come ci si trovano tanti altri ma è convinta che gli educatori, fino a prova contraria, siamo noi e i genitori ( che andavano convocati prima e non invece), mentre i ragazzi sono gli educandi cui bisogna offrire modelli di correttezza e legalità.

 C66    - 10-07-2007
Io sono assolutamente solidale con la Collega e con i suoi metodi educativi tradizionali: quando questi metodi venivano applicati diffusamente tanti degli attuali atteggiamenti di profonda inciviltà sarebbero stati addirittura impensabili.

Ciò premesso riporto con profondo sconcerto un articolo relativo agli sviluppi della vicenda:

Dal Corriere della Sera:

"Maestra assolta a Palermo, appello del pm"
L'insegnante era stata processata per aver punito un alunno facendogli scrivere 100 volte su un quaderno «sono un deficiente»

PALERMO - Il pm di Palermo Ambrogio Cartosio ha presentato appello contro la sentenza di assoluzione dell'insegnate processata per avere punito, obbligandolo a scrivere 100 volte sul quaderno «sono un deficiente», un alunno, che aveva dato del «gay» a un compagno di classe. «Il sistema adottato dalla docente per correggere lo studente - ha scritto il magistrato - è consistito nel costringerlo a insultarsi e rendere pubblica la propria autocritica: un metodo da rivoluzione culturale cinese del 1966». La professoressa, che insegna in una scuola media, era stata imputata di abuso di mezzi di correzione e lesioni. Il sostituto procuratore, nelle 37 pagine dell'impugnazione, fa riferimento anche all'articolo 3 della Convenzione di Ginevra «che tra l'altro dice che nessuno può essere sottoposto a trattamenti degradanti». «La Convenzione - scrive Cartosio - non si applica solo ai comportamenti sui detenuti dovendosi interpretare il termine nessuno come riferito a qualunque essere umano sottoposto al potere o all'autorità di qualcuno».
09 luglio 2007