Il pericolo rosso
Giuseppe Aragno - 15-03-2007
I giovani italiani, che pure sono nella stragrande maggioranza cattolici cristiani, affidano alla Chiesa la propria vita in numero sempre minore. Nel 1878, quando non avevamo toccato i 28 milioni di abitanti, tra diocesani e religiosi contavamo 63755 sacerdoti. Oggi, in un Paese di oltre 60 milioni di abitanti non ci sono, a cercarli, 50.000 sacerdoti [1]. I conti li faccia chi legge.
Sta di fatto che, nel 1878, un governo ferocemente classista, espressione di poco più che mezzo milione di cittadini scelti in base al censo, l'élite dell'anemica rivoluzione della nostra borghesia, aveva da poco espugnato Roma a cannonate ed emanato, con atto unilaterale, la legge delle "Guarentigie", che regolava i rapporti dell'Italia unita con l'ultimo sovrano assoluto rimasto in trono nel nostro paese. Con gesto di infinita arroganza, Pio IX, sprezzando i sentimenti profondi dei cattolici, si chiuse allora in Vaticano con tutto ciò che restava dell'antico inganno di Sutri: la falsa donazione d'un falso Costantino, il voltafaccia consumato nei giochi di potere - in hoc signo vinces - la chiesa dei martiri ridotta a chiesa dei martirizzatori, la Provenza devastata, i fiumi di sangue delle guerre di religione, Moro, Galilei, Bruno, il Sillabo e il Sant'Uffizio. Tutto portò con sé, nei suoi palazzi d'oro e nel buio profondo della sua storia, e tutto portò poi al cospetto di quel Dio, in nome del quale la chiesa, che non sa leggere nel cuore dei suoi fedeli, l'ha voluto santo, ed al cui fianco siede coi morti fatti e le condanne a morte sottoscritte.
Il Paese, di gran lunga migliore di quanto i papi sospettino, non visse in verità di gran dolori - altro bruciava i cuori - e tutto procedette come la legge del profitto ebbe forza d'imporre. Vennero, è vero, il 10 settembre del 1874 e l'inutile ricatto fatto alla sensibilità civile dei cattolici: "non expedit", prescrisse Pio X, "non conviene" che i seguaci di Cristo prendano parte alla vita politica. Uno schiaffo in pieno viso al magistero di Cristo - date a Cesare quel che è di Cesare - ed un divieto giocoforza elastico. Agostino Depretis portò di lì a poco la sinistra storica al potere e il Paese percorse la sua strada: del Vaticano non si curò nessuno.
C'erano, allora, i liberali, non erano un candore, però c'erano, sacerdoti d'uno Stato classista che scatenò contro l'opposizione sociale, libertaria e socialista, un diluvio repressivo d'inaudita violenza. Volere o volare, quella volta fu il papa ad andare a Canossa e, di fronte al "pericolo rosso" - non ha torto Vico: la storia si ripete - lasciò da parte il punto d'onore e prestò alla reazione l'ira di Dio, trasformata nelle leggi speciali di Francesco Crispi, prestò uomini, intelligenze e la forza della fede che, con pronto o opportunismo, si lasciò apparire minacciata dai rossi mangiapreti. Il "Patto Gentiloni", quando Giolitti scaricò Turati, sancì il ritorno ufficiale dei cattolici alla militanza politica.
Perché la chiesa tornasse però davvero a ficcare pienamente il naso nella sostanza della nostra vita politica, furono necessari la miserabile canaglia fascista e gli accordi del Laterano contro i quali Benedetto Croce, nel Senato fascista, ebbe animo e forza di levare la sua voce con una fermezza che intimidì persino la teppaglia squadrista accampata in Parlamento.
Ci volle una legge fascista. Ed è lì, in quella legge, nella vergogna dell'11 febbraio del 1929 la radice mai recisa di ciò che oggi ci conduce a tanto. In un clima di rinascente confusione istituzionale e di gravissimi rischi per ciò che resta della democrazia nel nostro Paese, mentre la scuola statale è piegata alla volontà della reazione clerico-moderata e le armi italiane vanno in giro per il mondo in spregio della Costituzione, oggi un papa osa intimare ai deputati cattolici della Repubblica di chinare la testa davanti ai suoi voleri. Questo oggi accade e non c'è Croce che parli in Senato. Prodi non sa chi sia Quintino Sella e Porta Pia non corre alcun rischio
Le cose però non sono chiare come potrebbe apparire. Non è la chiesa che ci impone la sue regole; è vero, scontiamo l'eredità di una legge fascista e l'insipienza di chi volle se ne parlasse nella Costituzione ma, se in Parlamento tanti sedicenti liberali non aprono bocca per dire che la misura è colma, non è perché manchi il cuore di fronte all'arroganza del papa tornato sovrano assoluto. No. C'è di peggio. C'è che si rinnova il "Patto Gentiloni": c'è il "pericolo rosso". Come altre volte, come ogni volta che il nostro Paese fa un passo avanti sulla via della civiltà.

[1] Annuario Statistico della Chiesa - 2006

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 dal Corsera    - 17-03-2007
«Bisogna ascoltare la gente e dire quello che la gente capisce»

Martini e lo strappo sui Dico: la Chiesa non comandi dall’alto.

L’ex arcivescovo di Milano: dietro le parole ci sia una ragione. Dialogo con chi non crede


BETLEMME — Avanza piano col bastone nella Chiesa di Santa Caterina, accanto alla Basilica della Natività. Per festeggiarne gli ottant’anni, l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi ha guidato il pellegrinaggio di 1.300 pellegrini milanesi che scandiscono «Carlo Maria» battendo le mani. E lui, il cardinale Martini, a dispetto delle sopracciglia imbiancate come i tetti di Betlemme («mai successo, una messa di Natale a marzo e addirittura nevica!»), ha nello sguardo la solita luce d’ironia mentre ringrazia i fedeli e invita la Chiesa ad «ascoltare la gente»: «È un grande compito che dobbiamo portare avanti, per il quale io prego nella mia intercessione quotidiana: che ci sia dato, anche come Chiesa italiana, di dire quello che la gente capisce: non un comando dall’alto che bisogna accettare perché è lì, viene ordinato, ma come qualcosa che ha una ragione, un senso, che dice qualcosa a qualcuno... ».

Due giorni prima, a Nazareth, il cardinale Tettamanzi aveva parlato di famiglia e della necessità di «avvicinare» i non credenti e le coppie di fatto adottando («E se non ci pensa la Chiesa, ci penserà il Signore») lo stile evangelico. Ora il biblista Martini commenta accanto al successore la lettera di San Paolo a Tito, l’invito a «vivere con sobrietà, giustizia e pietà», e sillaba: «Sono parole laiche, questo mi colpisce». Ecco il punto, spiega più tardi: «Bisogna farsi comprendere ascoltando anzitutto la gente, le loro necessità, problemi, sofferenze, lasciando che rimbalzino nel cuore e poi risuonino in ciò che diciamo, così che le nostre parole non cadano come dall’alto, da una teoria, ma siano prese da quello che la gente sente e vive, la verità dell’esperienza, e portino la luce del Vangelo».

Niente discorsi «strani o incomprensibili», ma «parole che tutti possono intendere: anche chi non pratica una religione o chi ne ha un’altra, perché sono il primo passo». Martini dice di «non credere molto nel dialogo interreligioso », perché «ciascuna religione è un po’ incasellata nel suo schema, e gli schemi si ripetono », però c’è «un livello di verità delle parole che vale per tutti, credenti e non, e in cui tutti si sentono coinvolti e parte di una responsabilità comune». Il cardinale parla dell’età, «sono giunto nella lista d’attesa, di chiamata», e lo fa «senza rimpianti, sereno», San Paolo dice che «non c’è proporzione tra le sofferenze del presente e la gloria che ci attende».

Così invita la Chiesa alla fiducia. Clima ostile? «Le nostre comunità troppo spesso si lamentano, con buoni motivi, ma senza accorgersene rimangono un po’ imprigionate in questa lamentosità: e questo è il gioco del demonio». Ai parroci scontenti, racconta, «io dicevo: ma non avete dei beni di cui ringraziare Dio? Ecco, cominciate a fare l’elenco delle cose belle perché la vostra fede in una situazione così secolarizzata è già un miracolo, un dono di Dio. Bisogna partire dalle cose belle, magari poche, e ampliare. Invece l’elenco delle cose che mancano è senza fine. E tutti i piani pastorali che partono dalla lista delle lacune sono destinati a dare frustrazione anziché speranza».

Rapporti difficili tra Chiesa e modernità? «La modernità non è una cosa astratta, ci siamo dentro, e ciascuno di noi èmoderno se vive autenticamente: non è questione di tempi ma di essere realmente presenti, in ascolto». Come sulla famiglia: «Ricordo che avevo fatto un discorso di Sant’Ambrogio, sarebbe da riprendere oggi». Vi metteva in guardia dal «panico d’accerchiamento » e dal «tentativo di imporre come d’autorità una nostra concezione della famiglia ». Bisogna promuoverla, ripete: «È una istituzione che ha una forza intrinseca, la forza non è data dall’esterno e da chissà dove. Bisogna che questa forza sia messa in rilievo, che la gente la desideri, la ami, e faccia sacrifici per essa».

Farà discutere. Ma fu Martini a parlare della «necessità» di discutere liberamente. Ora sorride e conferma: «Non era neanche un auspicio mio, ad esempio l’aveva già fatto Karl Rahner: la necessità di una pubblica opinione nella Chiesa. Se poi sia aumentata o diminuita non saprei dirlo perché venendo a Gerusalemme, fuori dei doveri pubblici, mi sono posto l’impegno a osservare rigorosamente Matteo 7,1: non giudicate e non sarete giudicati. Quindi non giudico perché con la misura con cui giudico sarò giudicato anch’io. Ma l’auspicio è questo».

Gian Guido Vecchi

 da Aprile online    - 17-03-2007
Il padre del ddl: "DICO che Martini..."
Manuela Bianchi, 16 marzo 2007

Intervista
Il cardinale Martini ha esortato ieri la Chiesa a "non imporre ordini dall'alto" e a riprendere una posizione più conciliante in materia di diritti civili: non bisogna penalizzare le coppie di fatto ma sostenere le famiglie. Abbiamo sentito il prof. Stefano Ceccanti, capo dell'ufficio legislativo del ministro delle Pario Opportunità ed estensore del ddl sui Di.co.

Dalle parole del cardinal Martini, pronunciate ieri da Gerusalemme dove il porporato ha celebrato una messa e ha festeggiato i suoi ottant'anni in compagnia dell'arcivescovo Dionigi Tettamanzi e di circa 1.300 pellegrini provenienti da Milano, uno sprone alla Chiesa cattolica perché dialoghi e non ordini dall'alto: ''È un grande compito che dobbiamo portare avanti, per il quale io prego nella mia intercessione quotidiana: che ci sia dato, anche come Chiesa italiana, di dire quello che la gente capisce: non un comando dall'alto che bisogna accettare perché è lì, viene ordinato, ma come qualcosa che ha una ragione, un senso, che dice qualcosa a qualcuno... ''. Una esortazione che si inserisce nel dibattito tutto italiano sui Di.co, che attendono di seguire l'iter parlamentare tra le polemiche trasversali agli schieramenti, e sui quali Martini proietta un cono di luce, invitando a riprendere il suo testo del 2000 sulla famiglia, nel quale l'allora arcivescovo di Milano affermava: '' Al vertice della nostra preoccupazione deve stare non già il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma piuttosto di sostenere le famiglie in senso proprio''. Abbiamo chiesto un commento alle parole del cardinale a Stefano Ceccanti, capo ufficio legislativo del ministro alle Pari opportunità Barbara Pollastrini, nonché estensore del ddl governativo sulle coppie di fatto.

Stefano, come commenti l'invito del Cardinal Martini, riportato dal Corriere della sera di oggi, a riprendere il testo del 2000 sulla famiglia?

Mi sembra che il testo del cardinal Martini del 2000 sulla famiglia abbia degli aspetti molto interessanti perché spiega come la logica solidaristica dello Stato debba venire indirizzata, in maniera diversa, sia alle famiglie fondate sul matrimonio sia alle convivenze. Quindi lo stato per sua impostazione di fondo, seguendo la Costituzione, deve riconoscere questi valori che sono presenti sia pure in modo diverso. Penso all'articolo 2 della Costituzione...

Cosa recita l'articolo 2 della Costituzione?

Parla dei diritti e della tutela della persona nelle formazioni sociali dove cresce la personalità. Che rappresentano anch'esse dei valori per lo Stato anche se sono di formazione sociale diversa dalla famiglia fondata sul matrimonio. E qui Martini è importante perché riprende le varie sentenze della Corte costituzionale che hanno stabilito che anche le convivenze dotate di una certa stabilità meritano delle tutele. Perché un conto è la stabilità che è promessa col matrimonio, e lo Stato si impegna ad aiutare i coniugi, però c'è anche una stabilità non è promessa preventivamente e che è dimostrata da chi vive nelle convivenze. Queste convivenze sono di fatto, però anche lì c'è un valore di stabilità. Non c'è impegno a formare però c'è una stabilità dimostrata e per questo lo Stato deve approntare in questi casi dei diritti in rapporto alla stabilità dimostrata. Questo è quanto dice la Corte costituzionale e Martini, infatti, prima di arrivare a parlare in positivo spiega che questo è il punto di equilibrio che ha raggiunto la Corte costituzionale.

Come interpretare le esternazioni di Martini all'indomani della nomina di Bagnasco ai vertici della Cei e a pochi giorni dalla nota vincolante della Cei sui Di.co?

Innanzitutto è da tenere presente che il Papa ha deciso di nominare alla presidenza della Conferenza Episcopale l'arcivescovo di Genova e quindi non ha mantenuto la tradizione del doppio incarico tra vicario del papa e presidente della Cei, iniziata con Poletti ancor prima di Ruini. Questo vuol dire che il Papa esprime sì una linea, tuttavia riconosce che sia importante un certo livello di dibattito e di collegialità nella Chiesa perché la fine del doppio incarico significa che c'è una situazione di maggiore collegialità in cui si possono anche esprimere, dentro certi binari, delle posizioni anche parzialmente diverse.

E questo come si concilia con il l'esortazione postsinodale del Papa "Sacramentum Caritatis" di qualche giorno fa?

Questo si concilia benissimo con l'esortazione postsinodale, anzitutto perché quel documento risultava da un confronto svoltosi all'interno del sinodo dei vescovi, e che ha tenuto molto conto delle conclusioni che i vescovi avevano elaborato. E poi perché è stata travisata in buona parte l'indicazione che da lì deriva, che era in positivo a fare leggi e non rappresentava una specie di veto. Il passaggio chiave del paragrafo dove si parlava delle leggi, non diceva affatto non fate leggi contro natura, non era calcato in negativo, bensì intendeva esprimere fate leggi conformi ad alcuni principi, era un invito contro l'inazione. Per esempio nell'ambito delle politiche familiari molti di coloro che oggi criticano l'attuale governo in realtà non hanno fatto nulla. Non è che avessero fatto leggi contrarie alla famiglia, semplicemente non ne avevano fatte. Quindi quelle formulazioni di Ratzinger sono state equilibrate, ma un po' distorte dai media.

Perche ritieni che i media abbiano dato una lettura distorta delle parole del Papa?

Perché hanno cercato un meccanismo informativo che ha estrapolato solo quelle 5 righe traducendole in negativo. Quasi tutti hanno virgolettato "non fate leggi contro natura" frase che non figura nel testo.

Ho letto che Colombo, parlamentare del Prc lascia il partito perché non puo' votare i Di.co in quanto cattolico...

Qui c'è un cortocircuito, nel senso che i cosiddetti principi non negoziabili in questa materia sono fondamentalmente due: il primo, per un cattolico, è che il matrimonio è indissolubile. Fuori dall' idea di indissolubilità non c'è un vero e proprio matrimonio. Però il nostro ordinamento non prevede il matrimonio indissolubile, e i Di.co, sotto questo punto di vista, sono molto simili al matrimonio civile. I Dico non introducono nel nostro ordinamento una forma di unione non indissolubile che altrimenti non c'è, perché il matrimonio civile è meritevole quanto si vuole, ma non è comunque indissolubile.
Il secondo principio non negoziabile è il fatto che l'unione civile non si chiami matrimonio, perché il matrimonio, per l'impostazione cattolica, è l'unione stabile di un uomo e di una donna. Quando si è votata la legge sul matrimonio omosessuale in Spagna c'è stata un'illustre obiezione di coscienza nel gruppo socialista al Senato, quella del senatore Vazquez, che è stato poi nominato da Zapatero ambasciatore di Spagna alla Santa sede, senza ricevere alcuna punizione dal partito. Vazquez ha votato contro il matrimonio omosessuale dicendo che era per riconoscere tutti quei diritti, ma senza chiamarli matrimonio. E questo è il punto. Non che ci sia una legge che riconosca dei diritti che tra l'altro non discriminino le coppie omosessauli, ma di non chiamare l'unione tra omosessuali matrimonio. Questi sono i due punti, ma i Di.co non vivono nessuno di questi due aspetti. Quindi è immaginabile una obiezione di coscienza nel caso che si faccia una legge che chiami matrimonio omosessuale l'unione tra due persone dello stesso sesso. Ma questo non si dà nel caso dei Dico, che sono fatti per tutti i tipi di coppie, a prescindere anche dall'orientamento sessuale.


Ho letto che i teodem si stanno muovendo per emendare i Di.co...

Bene, speriamo che scrivano degli emendamenti interessanti. Per esprimermi in proposito attendo di leggerli, tenendo presente che quando ci sono emendamenti parlamentari anche una virgola può cambiare tutto.

Un'ultima battuta: pensi che l'iter parlamentare dei Di.co potrà portare a qualcosa di positivo?

Lo spero ardentemente. Mi sembra che ci sia una maturazione del Paese intorno a questi temi. Io spero che ne venga fuori un testo equilibrato che mantenga alcuni pilastri che noi abbiamo individuato. In particolar modo penso che la soluzione di riconoscere queste coppie all'anagrafe sia la più felice, perché rappresenta una garanzia anche dello Stato di poter individuare chiaramente chi sono i beneficiari. Detto questo tutto si può migliorare.

 Daniela Albertazzi    - 18-03-2007
Come non condividere un'analisi così lucida? Più passa il tempo, più la delusione per i comportamenti e le scelte di questa maggioranza cresce. Non si può lasciare che torni Berlusconi, ma occorre far sentire questa delusione a Prodi e alla sua armata Brancaleone. Incalziamoli così, con spirito critico e con la forza della cultura. Tra noi ci saranno anche degli incapaci, ma se la scuola sta ancora in piedi è perché tanti, tantissimi insegnanti SONO PREPARATI CULTURALMENTE e danno alla loro attività professionale il valore di un IMPEGNO CIVILE. Non arrendiamoci.