La Repubblica
18-08-04, pagina 31, sezione CULTURA

 

Nel regno della fantasia

 

Ottocento edifici testimonianza di uno stile che non ha paragone. Nella capitale della Lettonia gli architetti si sono scatenati. Il patto fra Molotov e Ribbentrop e il durissimo assaggio del dominio sovietico. Gli ammonimenti dell' Unesco contro un ammodernamento sconsiderato


FRANCO MARCOALDI

Paneriai-Riga - Un passato pesante non garantisce ipso facto un uso efficace della memoria; ne ho la plastica conferma girando nella campagna lituana, in caccia dei luoghi simbolo dei terrificanti trascorsi di questo paese. La prima meta è Paneriai, una foresta nei pressi di Vilnius dove i nazisti - tra il '41 e il '44 - trucidarono centomila persone, in massima parte ebrei. La Lituania non eccelle nelle segnalazioni stradali, anzi è un vero disastro. In più in questo caso nessuno di quelli a cui vado chiedendo sembra conoscere la collocazione del luogo, in cui culminò la distruzione sistematica della vivacissima comunità ebraica lituana. Ma tra pazienza e cocciutaggine alla fine ci arrivo, e una volta arrivato la solitudine è assoluta. Nel placido scenario di una foresta mista di querce ed abeti un' enorme targa di marmo eretta durante il regime comunista ricorda beffarda in caratteri cirillici i «centomila cittadini sovietici» che qui vennero uccisi. Sovietici, non ebrei. Poi è un succedersi di fosse comuni e obelischi; infine un minuscolo, agghiacciante museo con decine di foto-tessera e oggetti della vita quotidiana e lettere e piccole valigie. Tutto attorno il solito, rigoglioso omaggio di una natura quanto mai benefica che spande a piene mani fragoline selvatiche, mirtilli, lamponi, funghi. Lascio Paneriai mesto, muto e nello spazio di poche ore da un passato rimosso mi ritrovo in un passato iperspettacolarizzato: nel sud del paese infatti, vicino alla stazione climatica di Druskinkai, è nato qualche anno fa Grutas Park, che, nelle intenzioni del suo ideatore - il miliardario Viliumas Malinauskas - dovrebbe rappresentare un omaggio alle decine di migliaia di lituani trucidati dal regime sovietico, mentre in realtà si rivela una grottesca e sinistra Disneyland del dolore - prati ben rasati, paperelle a mollo, altalene per i pupi, caffetteria. Pago regolare biglietto ed entro in un immaginario gulag, con tanto di filo spinato e torrette di controllo e cori militari sovietici arrangiati a disco-dance, oltre a un vagone ferroviario utilizzato per il trasporto coatto in Siberia. Pare che inizialmente si fosse pensato di caricare sul medesimo le mandrie dei turisti, con finti agenti del Kgb al seguito. Poi, invece, si è preferito optare per qualcosa di più «sobrio»: le uniche in maschera sono le cameriere che girano per i tavoli del ristorante con il fazzoletto rosso al collo, mentre i turisti non vengono scarrozzati, ma si incamminano lungo un sentiero nel bosco che via via propone la fedele ricostruzione di una scuola di Partito con relativa biblioteca, una mostra di quadri e gagliardetti sovietici, e soprattutto la successione di decine di gigantesche statue in bronzo e marmo e granito di Stalin e Lenin e Marx, appositamente trasportate in loco dalle diverse città da cui vennero rimosse negli anni della ritrovata indipendenza. Tramortito da tanta insulsa bestialità, riprendo l' automobile in direzione di Riga e della Lettonia, senza però tralasciare di vedere un ultimo luogo lituano della memoria, la collina delle Croci. Collina è una parola che da queste parti va presa con beneficio di inventario: lo scenario geografico è talmente piatto che davanti a ottanta-cento metri di altitudine si grida al miracolo. Qui però il vero miracolo sono le migliaia di croci di ogni genere e fattura che come in un' immensa macchina celibe alla Tinguely si aggrovigliano le une alle altre stringendosi in un abbraccio di fede sincretista. In legno, di stoffa, in ferro, alluminio, marmo, il simbolo micro e macro della croce si esalta e si confonde con i precedenti simboli pagani e prima ancora con un più generale folklore patriottico che da queste parti ha rappresentato il collante della resistenza all' oppressore. Ben lo sapevano i sovietici, che difatti rasero ripetutamente al suolo con i bulldozer la collina delle Croci, la quale ogni volta rifioriva più ricca di prima... Ho modo di approfondire ulteriormente il capitolo «cultura popolare» appena giunto a Riga, l' unica metropoli di questo lembo d' Europa. Caso vuole che proprio oggi si tenga la manifestazione finale di un gigantesco festival del folklore europeo. In altre occasioni avrei snobbato tale festoso delirio di cornamuse, nacchere, pifferi e tamburelli. Ma qui la faccenda mi sembra più seria e basta spostarsi di qualche isolato per averne conferma: un visita al Museo dell' Occupazione (1940-1991), risulta in tal senso estremamente istruttiva. Dopo la plurisecolare occupazione di tedeschi, polacchi, svedesi e russi, anche la Lettonia ha conosciuto un breve periodo di indipendenza, a cavallo delle due guerre; indipendenza figlia di un' identità nazionale maturata nella seconda metà dell' Ottocento grazie alla concomitanza di svariati fattori. Anche e soprattutto di ordine culturale. Nelle stanze dell' albergo dove alloggio, il Gutenberg, tra i tanti libri antichi c' è una copia della prima edizione delle Dainas, canzoni popolari lettoni raccolte e pubblicate nel 1878; «un patrimonio inestimabile per conoscere il folklore e le antichità dei baltici», a detta del baltista Dini. Del resto, l' elemento precipuo della vitalità baltica è proprio il canto, come hanno dimostrato i giorni del definitivo distacco dall' Unione Sovietica, quando in tutte e tre le nazioni si sono svolte immense manifestazioni popolari, che hanno dato vita alla cosiddetta «rivoluzione del canto». E proprio in Lettonia, a metà dell' Ottocento, prese avvio l' istituzione delle feste di canto corale, capaci di raccogliere sin dalle prime edizioni qualcosa come cinquemila cantori. Ora, per tornare al museo, che racconta i terribili anni dal 1940 al 1991, risulta chiaro da subito il rilievo assunto da queste e altre manifestazioni folkloriche, sulle quali difatti i due successivi regimi totalitari - nazismo e comunismo - cercarono di mettere il cappello. Già, perché in virtù del patto Ribbentrop-Molotov le nazioni baltiche erano finite sotto l' ala sovietica e nel '40 ne conobbero un primo, durissimo assaggio; talmente tremendo da indurre buona parte della popolazione a ritenere il successivo arrivo dei nazisti una liberazione. Inutile dire che non sarebbe andata così, ma certo è che da allora si innescò un groviglio senza fine di incomprensioni e vendette e orrori, che, come scriveva il Baltic Times, rende a tutt' oggi tutt' altro che pacificata la lettura della seconda guerra mondiale. Mentre la minoranza russa (più del trenta per cento della popolazione) saluta ogni anno la sua fine come la liberazione europea dal nazi-fascismo, la maggioranza lettone pensa al contrario che la vera liberazione cade nel 1991, con la riconquistata indipendenza e la fine del comunismo. E non si tratta affatto di un dibattito accademico, come dimostra la ferita ancora aperta del diritto di cittadinanza dei russi residenti in Lettonia; diritto tutt' altro che pienamente acquisito, e che vede il ministro degli Esteri russo nell' improbabile parte del difensore delle minoranze etniche. Proprio questo è il punto più dolente di una città e di una nazione in rapida trasformazione, protese verso un ammodernamento a volte indifferente alla preservazione del passato; come testimoniano i recenti ammonimenti dell' Unesco al comune di Riga, in seguito alla costruzione di un balordo grattacielo non lontano dal centro medioevale. D' altronde è pur vero che proprio a un altro momento di particolare vivacità economica, quello a cavallo tra Otto e Novecento, si deve il fiorire del massimo charme architettonico della capitale: uno Jungendstil che non ha paragoni con nessun altra città europea, da Bruxelles a Vienna a Praga. Là infatti si tratta di alcuni edifici, qui invece di strade intere, che videro scatenarsi la fantasia di architetti indigeni (a cominciare da Mikhail Eistenstein, padre del famoso regista) i quali lavoravano su commissione di una nuova classe borghese arricchitasi grazie all' espansione cittadina legata soprattutto alle attività del porto. Janis Krastins, uno studioso che al tema ha dedicato il volume The masters of architecture of Riga, insiste molto sulla specificità nazionale dei quasi ottocento edifici che a vario titolo hanno dato vita a tale, straordinaria fioritura. Coincidendo con un inatteso revival letterario e la pubblicazione di libri e giornali in lingua lettone, il Liberty di Riga sarebbe un' ulteriore manifestazione, la più visibile, del rinnovato senso di identità nazionale, finalmente al di fuori delle abituali influenze straniere. Rimango per ore col naso per aria a rimirare incantato gli infiniti motivi floreali, i mascheroni, i pavoni e i gatti e i leoni e le sfingi e gli ippogrifi e le Atene e gli Ermes che in una sarabanda senza fine compaiono sulle facciate dei palazzi, a decoro di torrioni e pinnacoli che li fanno rassomigliare ad altrettanti castelli di sabbia. Se tra tutti dovessi sceglierne uno, la mia preferenza andrebbe all' edificio che si colloca al numero 2 di Smilsu iela. Non è certo il più bello né il più flamboyant, ma ha qualcosa che mi pare incarni alla perfezione lo spirito di questa magnifica città: il piccolo balcone è sovrastato da un pavone, simbolo dell' orgoglio e della bellezza, ed è sostenuto da alberi i cui tronchi si trasformano nelle figure di un atlante e di una cariatide, le cui membra a loro volta si trasformano in radici arboree, per simbolizzare l' idea della perenne metamorfosi. Lascio Riga con negli occhi l' immagine della metamorfosi e mi dirigo verso il parco Nazionale del Gaujas. Mi si promette una Svizzera lettone, ma almeno sin qui il panorama è quello di sempre: bello e monotono. Perciò acquisto un certo numero di compact disc, nell' intento di animare musicalmente il paesaggio. E mentre Maria Callas canta J' ai perdu mon Eurydice, io per la terza volta perdo la strada dell' introvabile Birini.