Valutazione scolastica
La valutazione si fonda
sulla premessa che qualunque forma di attività organizzata è finalizzata ed ha
bisogno di essere continuamente controllata allo scopo di verificare il suo
razionale procedimento ed i suoi risultati.
Il presupposto della
valutazione scolastica si fonda sul principio che le attività che insegnanti ed
alunni compiono, nell'ambito della scuola, sono anch'esse attività organizzate
e finalizzate, perciò hanno bisogno, come le altre, di essere controllate e
verificate.
La scuola dell’autonomia
deve continuamente valutare se stessa e usare i risultati di quest’azione al
fine di un miglioramento costante della propria condotta.
Non può essere valutato
ciò che non è misurato: non è
possibile controllare se gli obiettivi siano stati raggiunti o no, senza avere
informazioni, senza, in pratica, aver misurato.
Pur sapendo che le
misurazioni possono essere eseguite bene o male, e che è opportuno eseguirle
bene, sappiamo altresì che la valutazione non può pretendere di fare a meno
delle misure, vale a dire di dati di fatto.
Molteplici sono i fattori
che determinano il processo di apprendimento: ciò che lo studente apprende non
è più il risultato solitario ma la conseguenza dell’azione didattica, delle
caratteristiche dell’istituto, della continuità didattica, della validità e
della composizione del gruppo docenti, insieme ad altri fattori, espressamente
socio-ambientali, che ne determinano il processo di apprendimento.
L'efficienza della
scuola dell’autonomia è definibile (come efficienza ottimale) come corrispondenza
tra la quantità di apprendimento che la scuola intende far conseguire agli allievi e la
quantità di apprendimento effettivamente realizzata da questi.
La cultura della valutazione
negli anni Cinquanta, oltre che sulle procedure di rilevazione ed elaborazioni
dei dati ottenuti dall’azione didattica, era anche informata al concetto di valutazione
predittiva: per esempio, gli esami di ammissione alla scuola media, aboliti
verso la metà degli anni Cinquanta, avevano anche lo scopo di predire le
possibilità di successo degli allievi che aspiravano a iscriversi a tale tipo
di scuola.
Un più impegnativo indirizzo
di ricerca si è sviluppato successivamente centrando la propria attenzione sui collegamenti
tra didattica e valutazione, proponendosi di stabilire più stretti nessi
funzionali tra le attività finalizzate all’acquisizione di competenze e abilità
e la verifica dei fenomeni in atto.
Mentre, tradizionalmente,
l’attenzione era posta sulla valutazione finale, Scriven apporta un
contributo di grande importanza operando una distinzione tra funzione
formativa e funzione sommativa della valutazione.
L’attività di valutazione è
posta in stretta relazione alle attività didattiche: non si tratta più di
prendere atto di un risultato più o meno positivo, ma la valutazione stessa
diventa un elemento che concorre a determinare il quadro stesso dell’attività
formativa.
La valutazione formativa,
fornendo l’informazione sul modo in cui ciascun allievo procede nel suo compito
di apprendimento, ha il compito di rendere possibile una rapida
ristrutturazione del percorso didattico, adeguandolo alle necessità individuali
del discente.
Fulcro determinante
dell’attività didattica è l’attività di apprendimento svolta dal discente: a
questa è rivolta l’attività di insegnamento.
Scriven applicando il
principio di retroazione permette all’attività didattica di procedere in avanti
solo dopo aver analiticamente osservato quanto è avvenuto in ciò che si è già
fatto.
In seguito all’allargamento della
base sociale del servizio scolastico si deve intervenire perché la maggioranza
degli allievi, l’80-90%, raggiunga la totalità, o quasi, degli obiettivi di
apprendimento posti da un determinato intervento formativo.
Il mastery learning
ribalta l’interpretazione attribuita fin’allora al ruolo della scuola: non si
dà più per scontata la validità della proposta didattica, elaborata su un
modello astratto di studente, in ogni caso e senza alcuna verifica, sempre
provvisto di caratteristiche idonee a quella proposta formativa, ma tale
validità viene continuamente sottoposta a verifica in rapporto proprio alle
caratteristiche degli allievi.
I precedenti modi in cui si
esplicitava la valutazione portavano alla rappresentazione di una realtà
semplificata, una realtà che non richiedeva di assumere decisioni, non creava
ansia, ma rassicurava proprio per il fatto di consentire comportamenti
consueti.
L’individualizzazione
dell’attività didattica diviene possibile solo se le decisioni necessarie per
indirizzare la formazione nella direzione desiderata vengono assunte con ritmo
frequente: alla percezione del disagio deve poter far seguito la fase volta a
comprendere e definire gli elementi del contesto per consentire le ipotesi di
risoluzione.
Le differenziazioni del
processo didattico hanno lo scopo di offrire a ciascun allievo la proposta di
apprendimento di cui effettivamente necessita.
Il sistema scolastico
italiano ha scarsa dimestichezza con una cultura della valutazione e risente in
tal senso di una mancanza di tradizione ed esperienza con pratiche e strumenti
valutativi: nel dibattito comunque aperto su questo tema attuale e cruciale si
avverte la compresenza di più filoni di pensiero, da un lato l’ansia cartesiana
di andare alla ricerca di valutazioni certe e oggettive, dall’altro, in linea
con un fondamentalismo relativistico, la convinzione che nulla sia misurabile.
Tentando di pervenire ad una
sintesi bisognerebbe forse entrare nell’ottica che è più interessante pensare a
valutazioni sensate e ragionevoli all’interno della specificità di un contesto
e che le valutazioni di maggiore impatto sono quelle degli stessi protagonisti,
magari supportati da consulenti esterni.
Una fase molto delicata e
cruciale della ricerca valutativa, in relazione ai molti elementi oltre alle
loro interrelazioni che devono essere tenuti in considerazione, è l’identificazione
degli obiettivi dell’attività che si vuole valutare.
La valutazione deve,
innanzitutto, verificare che gli obiettivi posti inizialmente in un programma
siano stati raggiunti: una buona verifica è possibile solo se gli obiettivi
posti erano chiari e i risultati sono oggettivamente rilevabili.
L'imprescindibile
riferimento agli obiettivi precedentemente prefissati, può interessare sia il
prodotto sia il processo della stessa formazione: processo e prodotto possono
apparire sia in antitesi, sia tra loro correlati.
La raccolta dati circa il
comportamento e l'apprendimento degli allievi deve essere fatta per soddisfare
le esigenze didattiche e di orientamento in funzione della migliore formazione
della persona.
Parleremo, quindi, di valutazione
diagnostica o iniziale, se svolta all’inizio dell’ itinerario formativo; di
valutazione formativa o "in itinere", quando l’attenzione è posta
sul processo formativo e accompagna costantemente il processo didattico nel suo
svolgersi; di valutazione sommativa o complessiva, finale, se condotta
al termine di un processo didattico
che ha come oggetto il risultato dell’attività di formazione e come obiettivo
la certificazione della qualità della formazione.
La valutazione sembra essere
un campo di ricerca colmo di pregiudizi e riserve mentali, che andrebbero
superati per fornire davvero la scuola di strumenti che rendano possibile il
monitoraggio dell’apprendimento degli studenti, dell’attività d’insegnamento e
del sistema nel suo complesso.
Lo strumento dei test è
quello che più d’ogni altro ha generato equivoci allorquando il test è stato
utilizzato come unico mezzo di verifica.
Negli USA, il paese dei test
standardizzati, si stanno affermando forme di valutazione più corrette che in
precedenza, con l’uso di una vasta gamma di strategie valutative, come le
osservazioni e annotazioni sistematiche, le raccolte documentali, domande a
risposta aperta e test strutturati a scelta multipla.
Il problema della valutazione è un aspetto specifico della professionalità del docente e sembra necessario fare in modo che non sia affidato a agenzie esterne, che non venga fondato unicamente sulla tipologia di strumenti standardizzati utilizzata per le indagini nazionali o internazionali o, ancora sull’unicità delle prove, con conseguenti danni difficilmente rimediabili per la costruzione di un valido rapporto insegnamento-apprendimento.
Il nuovo Esame di Stato terminale
della scuola superiore ha riportato al centro dell’attenzione la tematica della
valutazione con la malcelata intenzione di rendere “oggettiva” la valutazione
finale degli studi.
Per sgombrare il campo da
improduttivi malintesi è necessario affermare che essendo, sicuramente,
l’oggettività un dato non raggiungibile, se non al costo di usare violenza alla
stessa realtà è, allora, utile esercitarsi con la soggettività per raggiungere
elevati livelli d’imparzialità e di equità.
L’assenza di quelli che sono
definiti “standard di contenuto” - ciò che gli studenti devono sapere e saper
fare - e “standard di prestazione” - i livelli di una preparazione sufficiente
degli studenti - è la principale difficoltà in cui ancora oggi si dibatte il
processo di valutazione nella scuola.
Molto sentita dagli
insegnanti, proprio perché essa incide sul loro ruolo e sulla loro
professionalità, è la questione degli strumenti che devono essere utilizzati ai
fini della valutazione.
Il problema non è quello
dell’alternativa tra test a risposta multipla o test di performance, quanto nel
giusto mix tra i due nell’ambito di due funzioni differenti che sono quelle
della valutazione formativa e della valutazione sommativa.
Gli obiettivi della
valutazione esterna possono essere di tipo selettivo, come per esempio la
destinazione degli studenti a programmi o a scuole particolari o, anche, per
trovare i punti di forza e i punti di debolezza degli studenti, per fornire
informazioni ai genitori, per aiutare gli studenti nelle loro scelte di
prosecuzione degli studi.
Pur rimanendo in capo ai
docenti la valutazione complessiva dei loro studenti, la valutazione esterna
degli apprendimenti può essere utile per giudicare il livello dei propri
allievi in rapporto ai parametri nazionali e internazionali.
La valutazione esterna
potrebbe, altresì, essere utile al potere politico che potrebbe utilizzarla per
confrontare i risultati dei diversi paesi e definire gli obiettivi minimi di
apprendimento che devono essere conseguiti nei diversi ordini di scuola e per
le diverse età.
Per quanto riguarda la
valutazione nazionale degli apprendimenti l’Italia, finora inserita nella
semplice partecipazione a indagini promosse dallo IEA o dall’OCSE, si trova in
forte ritardo nei confronti di altri paesi europei e presenta una notevole
diffidenza nei confronti delle prove oggettive di rilevazione delle conoscenze
e delle competenze (i test), di cui si critica la meccanicità e il non tener
conto della complessità dell’azione educativa.
L’ambito di rilevazione del
PISA (Programme for International Student Assessment) ha riguardato le
competenze funzionali di lettura, matematica e scienze e costituisce l’indagine
internazionale più completa e avanzata che ha coinvolto 265 mila studenti di
quindici anni e trentadue paesi di quattro continenti.
Questo programma mira ad
accertare il livello di competenza nella comprensione di testi scritti e
nell’uso di concetti matematici e scientifici alla fine della scuola dell’obbligo.
I risultati di
quest’indagine sono stati resi noti nel dicembre 2001, mentre una nuova
indagine dello stesso tipo è in cantiere per la primavera del 2003.
Nel 2000, l’accento è stato
posto prevalentemente sulla lettura; nel 2003, indagine in corso nel mese di
marzo, è posto sulla matematica e nel 2006 sarà sulla cultura scientifica.
Questo vuol dire che in due ore e più di test, ogni volta si riserva la maggior
parte delle domande ad uno di questi settori.
L’obiettivo generale del
PISA consiste nell’elaborazione di indicatori e parametri di confronto
internazionali “che consentano di accertare quanto gli studenti alla fine
dell’obbligo scolastico abbiano acquisito in termini di conoscenze e abilità
essenziali ad una piena partecipazione sociale”.
Si tratta di competenze
ritenute essenziali perché i giovani possano esercitare domani in modo pieno i
propri diritti di cittadinanza, e svolgere con consapevoli motivazioni i loro
futuri ruoli occupazionali.
Le prove mirano ad appurare
non tanto quel che si è imparato a scuola, ma come si utilizzano le conoscenze
e le competenze apprese a scuola per affrontare, nella vita quotidiana,
problemi di natura non scolastica.
Grande interesse hanno
suscitato, negli altri paesi, le conclusioni dell’indagine PISA.
Purtroppo la stessa cosa non
è accaduta in Italia dove, con il cambio della maggioranza di governo e, in
conseguenza dello spoil sistem, con l’allontanamento del Prof. Vertecchi dalla
direzione del CEDE, nessun rapporto, tranne una giornata di studio della fondazione
privata Treelle, è stato pubblicato in merito ai risultati italiani.
Si è forse persa
definitivamente l’occasione di interpretare i risultati, sfruttarli al meglio
ai fini del cambiamento, suscitare un serio dibattito nazionale sulle ragioni
che collocano i giovani del nostro paese agli ultimi posti per quanto riguarda
le capacità nell’ambito di alcuni settori disciplinari e soprattutto in quello
della logica-matematica.