L’appuntamento è fissato per
le 11 in un bar della zona di Porta Garibaldi. Pietro Valpreda arriva in
anticipo, con il collo sprofondato nel bavero della giacca per combattere il
freddo intenso e umido di questa mattinata milanese. È gentile, come sempre e
come d’antica consuetudine meneghina, che rivendica con fiero orgoglio. Ci
salutiamo, entriamo nel bar e ordiniamo i "lubrificanti" per
l’intervista: un marsala e un caffè.
Il Bar è grande ma mezzo vuoto, ci accomodiamo in una saletta da thè
dall’aspetto volutamente modesto ma dall’atmosfera intima, complice.
Domani (oggi, per chi legge) ricorre il trentesimo anniversario della strage
di Piazza Fontana: una strage della quale Valpreda, ballerino anarchico, fu
incolpato. Subì l’umiliazione del processo, del carcere ma soprattutto del
pubblico ludibrio, del disprezzo dei benpensanti che lo additavano -
ignoranti e compiaciuti - come "il mostro".
Come ricorderà il trentennale della strage di Stato?
"Non certamente in piazza con le istituzioni, non certamente con Dario
Fo e la Rame. Ho deciso, abbiamo deciso, noi anarchici, di restarne fuori, di
non mischiarci: noi ricorderemo da soli e mercoledì sera sfileremo per
Giuseppe Pinelli. Vedi, noi anarchici siamo stati colpevolizzati, messi
all’angolo, massacrati per quella strage. Io, personalmente, ho pagato con il
carcere per una colpa non mia e ancora oggi, a trent’anni di distanza, ho i
sigilli sul televisore e sul videoregistratore perchè devo ancora pagare
parte delle spese processuali. Il discorso riguardante piazza Fontana è
valido oggi come allora, il nostro assunto riguardo il fatto che la strage
fosse di Stato non è stato intaccato. È un discorso storico, prima che
giudiziario e istituzionale".
Mi è sembrato molto duro con Fo?
"Parliamoci chiaro: Fo era ed è un marxista. Un marxista che oltretutto
oggi sta tirando il carretto ai Ds. Cosa c’entro io, gli anarchici, con un
discorso prettamente di potere. Fo non va in piazza come extraparlamentare,
ma come marxista. Noi, o almeno una buona parte di noi, sappiamo che quanto
accaduto 30 anni fa non fu uno sbaglio ma una costruzione voluta artatamente
per fini strumentali di potere. Per questo, per questo senso di diversità e
per la voglia di restare puliti, noi anarchici ci chiamiamo fuori dalle
celebrazioni. Domani (oggi, ndr) post-comunisti e post-fascisti celebreranno
insieme l’anniversario. Significa che il potere vuol porre la parola fine
senza aver trovato la verità".
Lei si definisce ancora oggi orgogliosamente anarchico?
"Certo. La questione, però, è che la portata del potere attuale è
differente dal 1969. Oggi è stato fatto un ulteriore, enorme passo indietro.
È una questione di dinamica e di approccio differente: l’uomo ormai è carne
da macello, siamo ad una ridefinizione del ruolo di essere nei confronti del
potere. Una ridefinizione drammaticamente pericolosa. Ti faccio un esempio,
proprio riferito al 1969. All’epoca bastava una bomba come quella di piazza
Fontana per garantire un effetto destabilizzante - o stabilizzante -
all’interno di dinamiche di potere nazionale e internazionale. Oggi, in pieno
mondialismo, il potere ha dovuto alzare il tiro: la bomba, l’atto eversivo
non basta più. Ora ci vogliono la guerra del Golfo, quella in Jugoslavia, la
Cecenia. Quest’ultimo esempio, poi, mi pare calzante: soprattutto quando si
scopre che una parte del grande capitale ha finanziato i ribelli ceceni. Il
potere usa guerre sul territorio per il mantenimento della supremazia, dello
status quo. Finchè c’era il muro di Berlino, la gestione del potere era
divisa tra est e ovest. Ripeto, oggi il potere è globalizzato e destabilizza
a livello geopolitico".
Ok, ora però torniamo alla strage. Qual è il suo ricordo di Pinelli? Ma,
soprattutto, qual è il suo ricordo del commissario Calabresi?
"Pinelli era un bravo compagno, un anarchico vero, fortemente legato
alla propria moglie Licia e alle due figlie. Anche per questo non posso
credere alla versione del suicidio, perchè lo conoscevo bene ed ero, sono,
certo che non lo avrebbe mai fatto. Il suo fermo di polizia, poi, fu una cosa
allucinante. Durò molto più delle 72 ore previste ed ebbe delle modalità
assurde: Pinelli era libero di muoversi in Questura, telefonava alla moglie
alle dieci di sera. Figurati che per un semplice furto, durante il fermo, non
si veniva lasciati soli nemmeno in bagno: venivi accompagnato dai poliziotti che
aspettavano fuori ma con la porta aperta. La sera del 15 dicembre, quando
Pino fu assassinato, Calabresi non era nella stanza: c’erano cinque
funzionari di cui si conoscono nomi e cognomi che furono chiamati a
rispondere solo formalmente. Calabresi aveva solo responsabilità
dirigenziali. Ho pensato molto alla morte di Pino, a quei dettagli
incredibili, a quelle situazioni kafkiane che hanno caratterizzato il suo
fermo. Figurati che quando fu convocato in Questura non ci andò sulla
volante, seguì l’automobile con la sua bicicletta: ti sembra la modalità con
cui si può trattare un sospettato di un reato come strage?".
Direi di no. Ha detto di averci pensato tanto. È giunto a qualche
conclusione con gli anni?
"Devo ammettere che sono arrivato a pensare che sia stato ucciso dai
servizi segreti greci, che in quei giorni erano a Milano poichè era in
discussione l’ingresso della Grecia dei colonnelli nella Nato. Questo si sa,
gli agenti segreti stavano in un albergo vicino piazza Pattari, in pieno
centro. Lo ammetto, ho pensato a tante cose ma il chiodo fisso è
l’allucinante gestione del suo fermo. La domanda da porsi è una sola: cos’è
successo in quella mezz’ora in cui Pino restò da solo nella stanza insieme ai
cinque funzionari. Può essere, non lo escludo affatto, che Giuseppe sia stato
ucciso non per la strage, non per Piazza Fontana ma perchè aveva sentito
qualcosa che non doveva sentire, una parola, un codice, un discorso.
Ricordati, all’epoca a Milano c’erano i servizi greci ma non solo".
E di Calabresi?
"L’ho già detto, indirettamente, parlando di Pinelli. Durante gli
interrogatori, diceva: "Guarda che io ho letto Bakunin, ho letto
Malatesta".
Che ricordo ha del processo, del carcere?
"Il processo è durato vent’anni ma si è deciso nei primi quindici
giorni. In quell’arco di tempo, volendo, erano stati acquisiti tutti i
riscontri documentali "sconvolgenti" di cui oggi parlano le
ricostruzioni. La vicenda della deposizione di Lorenzon, pezzo grosso del Dc
veneta, con i magistrati fu emblematica: alla fine lui venne definito un
mitomane e Ventura "una persona perbene". La commessa del negozio
di valigie di Padova dove vennero acquistate le borse di fabbricazione
tedesca usate per contenere l’esplosivo ammise dopo dieci giorni
dall’attentato che un ufficiale dei Carabinieri era andato da lei. In pochi
mesi, direi giorni, tutti gli elementi - o almeno un quadro sostanziale degli
stessi - erano acquisiti. Ma il nostro processo è proseguito, tra cambi di
sede, testimonianze, ritrattazioni. Hanno creato un coacervo tale attorno
alla strage che alla fine non si capiva più chi erano i buoni e i cattivi, i
colpevoli e gli innocenti".
Sono passati trent’anni esatti da quella strage. Cosa sente dentro Pietro
Valpreda: rabbia? Voglia di vendetta?
"Non sono un paranoico, non ho permesso alla mia vicenda giudiziaria di
condizionare - o meglio, pregiudicare - il resto della mia vita. Non ho
rabbia, non voglio vendetta: sono soltanto curioso, ho una voglia enorme e
incontenibile di sapere la verità su quanto è accaduto. La mia è una
curiosità esistenziale. Prima di chiudere definitivamente gli occhi vorrei
vedere la parola fine non per la vicenda giudiziaria, ma per la realtà
storica e politica che sottende questa strage. Voglio soltanto questo. Vedi,
il 12 dicembre è rimasto in sé una data di memoria storica, di impegno civile
reale. Oggi come oggi, però, in questo andirivieni di buoni e cattivi, non
riesco a vederci chiaro, a capire cosa ci sia di positivo. Anche questo fa
parte della nostra volontà di isolamento, nostra perchè parlo degli
anarchici. Qualche giorno fa Bruno Vespa mi ha contatto per "Porta a
Porta" su Piazza Fontana. Gli ho detto di no. In studio saremmo
stati Freda, Rauti, Micheli ed io. Paradossalmente avrei addossato meno colpe
a Freda e Rauti che ai detentori del potere, ai gestori di una stagione
infame finalizzata unicamente al mantenimento dello status quo".
È già passata un’ora ma parla a ruota libera, Pietro Valpreda. Parla con la
voracità di chi sa ma anche di chi non si accontenta e vuole abbeverarsi fino
in fondo alla fontana della verità. Parla da uomo che ha sofferto ma che non
ha strepitato, che non ha reso pubblico, spettacolarizzato il proprio dramma
umano e politico. Parla da anarchico che non accetta il potere in quanto
tale, perchè - uomo tra gli uomini - solo nella libertà trova una dimensione
che lo soddisfa. L’unica che conosce per essere uomo, l’unica possibile. Il
marsala è finito, le ultime boccate di sigaretta liberano altro fumo in
un’aria già satura di parole e pensieri pesanti ma espressi con la serenità
del giusto, dell’innocente. Il ballerino, l’anarchico, ci saluta con calore e
poi abbassa gli occhi sul giornale, fermo al tavolino di quel bar anonimo.
Ferdinand Celine - grande amore letterario di Valpreda - scriveva che
"al mondo esistono donne in grado di dar musica al cuore per far ballare
la vita". La donna, in questo caso, si chiama Libertà, musica che - da
trent’anni e più - fa danzare senza sosta questo piccolo, grande ballerino
dell’anarchia. Libero dall’infamia e dai luoghi comuni tipici dell’essere
contro per convenienza.
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