Affrontare le vacanze estive con filosofia

 

Non una seduta psicanalitica

Chi ritiene che la filosofia non sia solo – e neppure principalmente – una questione di dispute accademiche e di conventicole d’iniziati, apprezzerà senz’altro una raccolta di articoli e brevi saggi di Ran Lahav che è stata tradotta in italiano col titolo Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza (Apogeo, Milano 2004). Lahav si è formato negli Stati Uniti d’America, insegna presso l’università israeliana di Haifa e gestisce, sin dal 1992, uno studio privato di consulente filosofico. Ho avuto modo di conoscerlo a Roma alla fine del febbraio del 2005 nell’ambito del I Convegno nazionale dell’associazione Phronesis sul tema "Lo specifico filosofico della consulenza filosofica". Come quasi sempre accade con i filosofi, l’incontro da persona a persona dice molto più di qualsiasi testo scritto. E’ stato infatti interessante ciò che ha sostenuto quando ha provato a rispondere alla domanda Where is philosophy in philosophical practice? Ma ancor più interessante mi è sembrato il modo con cui, nel corso della relazione predisposta e soprattutto nel corso della discussione amichevole, si è rapportato ai presenti: con semplicità di vocabolario, con tono pacato, sempre su un registro interlocutorio, senza la minima traccia di arroganza intellettuale. Rispondendo ad una domanda specifica, Lahav ha avuto modo di dichiarare che, dopo oltre dieci anni di esperienza professionale in cui aveva adottato un assetto molto simile alle sedute psicoterapeutiche, era arrivato alla conclusione di dover superare quella modalità e di voler mettere in pratica un sogno: trascorrere, almeno una volta l’anno, con i suoi ‘consultanti’, una settimana fra i monti in situazione di convivenza. A suo parere, infatti, la tradizione filosofica – da Socrate in poi – parla chiaro: la filosofia è una scintilla che scocca più facilmente in un ambito di vita comunitaria piuttosto che in un dialogo a due.

Molto simpaticamente, Andrea Poma – presidente a quella data dell’associazione organizzatrice – ha fatto notare, col suo solito sorriso divertito, la presenza in sala di un collega italiano che, da più di venti anni, sperimentava quella formula di riflessione filosofica. Dal 1983, infatti, prima in quanto responsabile per la formazione giovanile di un’associazione di docenti di filosofia, poi – dopo una pausa di alcuni anni – con la collaborazione decisiva di altri amici a titolo privato, ho avuto modo di proporre, in periodi estivi, le “vacanze filosofiche per...non filosofi”. Ne ho già raccontato le linee essenziali in un libro dedicato, appunto, alla consulenza filosofica (Quando ha problemi chi è sano di mente, Rubbettino 2003), ma mi piacerebbe integrare quelle pagine col resoconto della settimana trascorsa a Crespano del Grappa dal 20 al 27 agosto del 2005.

 

Per rompere il ghiaccio

Come ormai è consuetudine, dopo la cena del primo giorno ci siamo riuniti per un primo incontro di presentazione. Presentazione del tema e del metodo, ma anche – e soprattutto – delle persone. Quest’anno si trattava di affrontare la domanda su che cosa sia la giustizia. Una domanda, dunque, che moltiplicava le scommesse in gioco. Una prima scommessa, infatti, era per così dire generica. O, meglio, di fondo. Appartiene ad ogni edizione di queste vacanze filosofiche: si può riuscire a pensare con rigore, ma senza scadere in  tecnicismi? Si può coniugare, in altri termini, la serietà del conversare filosofico (dunque di chi può avanzare qualsiasi tesi, ma sostenendola con argomenti razionali) con un linguaggio accessibile all’uomo – e alla donna – della piazza? Qualcuna, intervenendo, ha voluto citare (e commentare brevemente) Martin Heidegger: “La generale convinzione dell’opinione pubblica moderna è che si debba intendere il pensiero dei pensatori nello stesso modo in cui si leggono i giornali. Ma impararlo è essenzialmente più difficile: non perché si tratti di un pensiero ancora più complicato, bensì proprio perché esso è semplice. Addirittura troppo semplice per l’attuale modo di rappresentarsi le cose”.

A questa prima,  si accompagnava una seconda scommessa altrettanto basilare, costitutiva di questo genere di esperienze: si può pensare insieme, ma da punti di vista davvero differenti? Se ci si riunisce da varie regioni del Paese per confrontarsi, non manca certo la volontà di comunicare. Ma questo desiderio di dialogo va protetto da accorgimenti preventivi, per esempio dalla scelta di ‘facilitatori’ che non siano proprio del tutto in disaccordo? Anche quest’anno si è ritenuto che l’omogeneità ideologica dei quattro ‘relatori – introduttori’ avrebbe reso artificiale, forse addirittura un po’ finta, la discussione. Da qui la decisione di correre il ‘bel rischio’ (per rubare una felice espressione a Platone) di far confrontare  - senza reti di salvataggio preconfezionate – persone provenienti da storie lontane, da posizioni religiose o etiche o politiche talora persino opposte. Come è stato opportunamente ricordato citando Gadamer, “l’arte del domandare è l’arte del domandare ancora, ossia l’arte stessa del pensare, la quale si chiama dialettica perché è l’arte di condurre un vero dialogo”.

A queste due scommesse ricorrenti, il tema della giustizia ne aggiungeva una terza specifica di quest’anno: provare a pensare un tema eminentemente ‘pratico’, ma  senza scadere nella polemica cronachistica. Si può ragionare su ciò che si considera giusto e ingiusto senza fare riferimento a situazioni politiche contingenti, senza perdersi nei dettagli dell’attualità e nelle dispute (per altro, in altra sede, legittime) partitiche?

A questa introduzione metodologica, ha fatto seguito un primo scambio informale: ciascuno dei 30 partecipanti ha avuto modo di esprimere quali concetti o immagini o simboli evocasse in lui il vocabolo  “giustizia”. E, nell’esternare questa impressione, di comunicare al gruppo chi fosse e con quali aspettative si fosse iscritto al seminario.

 

Alcune domande

Il secondo e il terzo degli incontri (di un’ora e mezza ciascuno: alle 9 e poi, dopo una giornata in totale libertà, alle 18) son serviti ad Elio Rindone per porre alcune domande fondamentali (cos’è lo Stato? A cosa serve? Perché bisogna obbedirgli? Non sarebbe meglio abolire ogni forma di potere politico? A quali condizioni riteniamo giusto un governo? Può esso limitare l’arricchimento di alcuni? ...), per ascoltare le opinioni dei presenti  e per evocare, con brevi e intense citazioni, una prima raffica di risposte provenienti dal mondo antico, sia greco-latino che cristiano-medievale. Se etimologicamente gius-tizia deriva da jus (termine di non facile traduzione: ‘diritto’, ‘regola’, ‘norma’, ‘legge’, ‘via’...), sin dagli albori la civiltà occidentale si è posta l’interrogativo sulla radice di questo jus: nasce certamente da un accordo fra concittadini (è uno jus ‘positivo’, nel senso di positum, stabilito, creato, inventato), ma riceve il proprio valore da questo meccanismo procedurale? O lo jus positivo non è a sua volta sottoposto alla critica in nome, e sulla base, di uno jus naturale, nel senso di un diritto innato, non scritto su tavole di legno, che ciascuno può ascoltare nell’intimo della propria coscienza? Alcuni sofisti, come Trasimaco, non hanno avuto dubbi e – riducendo la legge a pura normativa prodotta dai detentori del potere – hanno identificato il ‘giusto’ con l’utile del più forte. In un certo senso, molto sommariamente, si potrebbe dire  - pensando a Kelsen ed a pensatori come Ross per il quale la giustizia è un pugno battuto sul tavolo – che hanno inaugurato il filone del positivismo giuridico. Altri sofisti, come Antifonte, hanno invece insistito sulla netta preminenza delle “leggi di natura” rispetto alle convenzioni sociali, inaugurando il filone alternativo del giusnaturalismo. E’ la prospettiva che dagli Stoici si trasmette ad esponenti prestigiosi del pensiero medievale come san Tommaso d’Aquino (a giudizio del quale, quando l’autorità politica comanda qualcosa di intrinsecamente peccaminoso, “non solo non si è obbligati ad obbedire all’autorità, ma si è obbligati a disobbedire”).

Ed è stata proprio questa prospettiva  ad essere approfondita, collegialmente, nel quarto e nel quinto incontro, dedicati alla Modernità. Con Hobbes, Spinoza, Locke si continua a parlare di giusnaturalismo: ma la continuità sul piano del linguaggio rispecchia una continuità di contenuti? Bisognerebbe almeno – si è notato – aggettivare i due giusnaturalismi: ‘ontologico’, cioè basato sulle leggi dell’essere, quello ‘classico’; ‘antropologico’, cioè basato sulle leggi della ragione umana, quello ‘moderno’. Insomma: come l’Antigone della tragedia di Sofocle, si continua a ritenere che le leggi dello Stato non possano considerarsi assolute e che vadano sottoposte ad un’istanza critica più radicale, ma si individua tale istanza non più nella Natura (o, più in radice, nel Dio creatore), bensì nella Ragione dell’umanità. E’ un giusnaturalismo che nasce dall’uso corretto dell’intelligenza da parte dei soggetti adulti e responsabili; si potrebbe dire – con una metafora – che nasce da una forma di accordo contrattuale. Le leggi statuali sono accettabili solo se – e quando – le si possono concepire come frutto di un ipotetico gioco primordiale o, se si preferisce, come risultato di una simulazione: un giusnaturalismo ‘contrattualistico’ che, per evitare equivoci, si potrebbe forse meglio definire un giusrazionalismo.

Ma se l’impianto giusrazionalistico è ricorrente nella Modernità, diversi sono gli esiti cui pervengono i diversi protagonisti del dibattito sulla giustizia politica: per Hobbes, infatti, il contratto sociale giustificherebbe l’assolutismo (tutti i cittadini si sarebbero spogliati dei propri diritti per conferirli nelle mani dello Stato, vero Mostro che dispone della vita e della morte dei sudditi ma in cambio garantisce sicurezza all’interno dei confini e difesa dai nemici esterni); per Spinoza, Locke e Kant, invece, il costituzionalismo liberale (i cittadini non si sarebbero spogliati di tutti i propri diritti, ma solo di alcuni, conservando dunque il diritto alla disobbedienza – o, per lo meno, della critica pubblica - nel caso di ordini che violino la loro libertà originaria).

Sappiamo che, anche grazie alla Rivoluzione Americana ed alla Rivoluzione Francese, a prevalere nel mondo occidentale sarà proprio questo secondo  modello liberal-costituzionale, preoccupato di garantire l’intangibilità dei diritti individuali contro ogni prepotere dello Stato o delle chiese. Un passo avanti, certamente, nell’evoluzione della civiltà: ma del tutto soddisfacente?

 

Libertà o giustizia?

Già nello stesso secolo XVIII, solitaria e provocatoria, la voce di Jean Jacques Rousseau si incarica di sollevare obiezioni radicali: questa legalità formale, che certamente assicura la libertà dei borghesi benestanti, non si risolve in una cappa per i ceti sfavoriti? Non è un modo elegante per cancellare le esigenze della giustizia sociale inchiodando i meno abbienti in una condizione di perenne inferiorità? La soluzione suggerita da Rousseau (una sorta di totalitarismo democratico basato sulla supposizione che i cittadini rinunzino ad ogni volontà privata, individuale, in nome della “volontà generale” e dunque ad ogni possibilità di obiezione di coscienza agli ordini degli organi legittimi) non è risultata convincente, ma dai suoi scritti si configura il dilemma che lacererà i due secoli successivi, l’Otto e il Novecento: la libertà dell’individuo anche a costo di sacrificare la giustizia sociale o la giustizia sociale anche a costo di sacrificare la libertà dell’individuo?  In termini meno rozzi: va privilegiata una libertà ‘formale’ che sottovaluti le pari opportunità (intendendo la formula nel senso più esteso e dunque considerando lo svantaggio femminile come caso particolare delle disuguaglianze sociali in generale)  oppure una giustizia ‘sostanziale’ che svaluti l’oggettività delle regole? In un certo senso, è stato questo il dilemma fra liberalismo (specie quando coniugato con il liberismo in campo economico)  e comunismo marxista.

 

Il tentativo di John Rawls

 Il sesto e il settimo incontro sono stati dedicati alla focalizzazione non più di problematiche generali, bensì di un pensatore in particolare: John Rawls. Perché proprio lui? La storia del Novecento attesta il disagio, da parte  di Stati e popolazioni, di adottare unilateralmente liberalismo o comunismo e, conseguentemente, la faticosa ricerca di una ‘via media’. Tra questi tentativi un rilievo attuale conserva la socialdemocrazia, prospettiva nota – secondo i luoghi ed i tempi – con varie altre denominazioni (socialismo liberale, liberalsocialismo…) e che, significativamente, si è incarnata in Italia anche in una piccola, gloriosa e poco fortunata formazione partitica dal nome “Giustizia e libertà”. Già Benedetto Croce ha etichettato questo tentativo di mediazione come “cretinismo filosofico”, senza contare le denigrazioni da parte opposta, cioè marxista: ma difficilmente potrebbe contestarsi il suo successo storico lungo il XX secolo. Anche chi continua a proclamarsi verbalmente liberale o comunista, nella pratica politica adotta strategie che non sono né puramente liberali né, ancor meno, puramente comuniste.

Ebbene, è proprio in questa scia che si distingue, proprio sul tema specifico della giustizia, l’americano John Rawls. Il problema da cui parte lo si potrebbe formulare presso a poco così: lo Stato di diritto è una conquista rispetto all’assolutismo, ma come evitare di farne lo strumento di sopraffazione dei privilegiati sugli svantaggiati? Si è provato a sintetizzare la soluzione scandendola in alcune tappe principali.

La prima è  delineare una teoria della giustizia come equità. A tale scopo, Rawls si ricollega alla tradizione contrattualistica (Hobbes, Spinoza, Locke…) secondo cui il potere non poggia sul volere di Dio ma su un patto sociale. Ma a che condizioni tale contratto potrebbe non essere il risultato di un mero rapporto di forze? Se lo si immaginasse stipulato in una situazione di equidistanza da parte dei contraenti. Un contratto sociale sarebbe equo, insomma, se si supponesse (e siamo ad una seconda tappa)  che a concordarlo fossero degli individui razionali che  - bendati da un “velo di ignoranza” (così l’autore a p. 28 del suo Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2004) – dovessero fissare delle regole senza sapere quale posto effettivo nella società toccherebbe a sé stessi e ai propri congiunti. Se “un certo numero di uomini deve dividere una torta” e si dà per scontato che la divisione più equa preveda parti uguali, “la soluzione più ovvia è quella di far sì che un uomo divida la torta e prenda l’ultima fetta, lasciando che gli altri la scelgano prima di lui. Egli dividerà in parti uguali la torta, poiché in questo modo può garantirsi la parte più grande possibile “(p. 85).

A quali criteri troverebbero conveniente  ispirarsi gli ipotetici stipulatori di un contratto sociale in una “posizione originaria” ? Rawls individua due principi basilari:  l’eguaglianza dei diritti e dei doveri fondamentali; l’accettazione condizionale delle ineguaglianze economiche e sociali. Insieme i due principi articolano “una concezione della giustizia più generale” che può essere così sintetizzata: “Tutti i valori sociali – libertà e opportunità, ricchezza e reddito, e le basi del rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale, di uno o di tutti questi valori, non vada a vantaggio di ciascuno. L’ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti” (p. 67).

 

Oltre liberalismo e socialismo

In perfetta sintonia con le regole del gioco concordate la prima sera, Alberto G. Biuso ha utilizzato l’ottavo  ed il nono incontro per contestare radicalmente non solo la proposta, da me illustrata, di John Rawls ma – più ampiamente – le dottrine liberali e socialiste che sarebbero confluite, a suo parere, in un blocco monolitico, dogmatico e monopolizzante. Nonostante le apparenti differenze, esse sarebbero due sorelle: caratterizzate, geneticamente, da alcune convinzioni tanto radicate quanto disastrose (lo storicismo progressista, l’antropocentrismo, il primato della scienza e della tecnica, il politicismo, l’economicismo...).

Ribaltare ed invertire la folle corsa avviata dall’umanità su simili binari esigerebbe niente di meno che una rivoluzione culturale. Si tratterebbe prima di tutto di guadagnare un punto di vista meta-politico: per quanto paradossale ciò possa sembrare, è solo relativizzando il piano politico che (pur senza cedere a illusioni ‘buoniste’) lo si può rivitalizzare. Mosse qualificanti di tale rivoluzione sarebbero certamente un recupero della visione ciclica della storia (secondo la quale ciò che viene dopo non è per questo, necessariamente, migliore di ciò che lo ha preceduto); una più viva coscienza della finitudine umana direttamente proporzionale ad rivalutazione della natura come grembo dell’uomo e, conseguentemente, un rispetto per la sacralità del mondo animale e vegetale; un ri-orientamento verso la contemplazione della bellezza e, più in generale, verso la dimensione simbolica...Sul piano più specificamente socio-politico, si tratterebbe di sostituire l’attuale esaltazione dell’individualismo con una forte impostazione comunitaria e l’attuale tendenza all’egalitarismo (livellatore) con un ‘differenzialismo’ in grado  di valorizzare ciò che di specifico, anzi di unico, possiedono le esistenze. La traduzione operativa di simili ottiche comporterebbe il declassamento della democrazia dal rango di  valore indiscutibile al piano, più modesto e realistico,  di uno dei metodi possibili di governo: ‘giusta’ è una società dove prevale non la forza dei numeri (tanto meno dei soldi), quanto il merito dei migliori in senso intellettuale e morale.

 

Il punto di vista delle donne

Da Socrate a Rawls, sino alle considerazioni in circolo negli ambienti intellettuali contemporanei, il tema della “giustizia”  - come altri temi filosofici - è stato lumeggiato, per ragioni storiche arcinote, dal punto di vista maschile. Solo negli ultimi decenni si è andata costruendo un’interpretazione femminista  - o, più ampiamente, femminile – degli interrogativi esistenziali e sociali. Graziella Morselli, nel decimo e nell’undicesimo incontro, ne ha voluto rendere conto attraverso un taglio ancora diverso: a partire non più da domande (come Elio Rindone) né dall’esposizione di un volume (come avevo provato utilizzando Una teoria della giustizia) né da considerazioni originali intrecciate a vicende autobiografiche (come aveva preferito Alberto G. Biuso), quanto da brani di pensatrici (selezionati secondo un certo itinerario e distribuiti in fotocopia anche per renderne possibile una lettura meditata personale). La sua preoccupazione, beneficamente spiazzante, è stata di dar voce alle donne con simpatia critica, evitando di rispondere all’unilateralismo maschile con enfatizzazioni altrettanto unilaterali. Impossibile riprendere le molteplici suggestioni guidate da due principali preoccupazioni: di sottolineare la differenza tra “giustizia politica” e “giustizia sociale” (perché la seconda non è realizzabile senza il potere della legge e quindi implica la priorità della prima) e di evitare, anche in questo ambito,  l’assolutizzazione delle nostre interpretazioni (Carol Gilligan ha osservato come il mancato riconoscimento della relatività della verità abbia indotto Gandhi a imporre, sotto le spoglie dell’ amore, la sua verità agli altri).

E’ stato riportata, fra tante altre, una citazione da Simone Weil : “O si accetta il potere, e dunque la logica della violenza, o si opta per il primato dell’amore”. Alla Morselli è sembrata significativa in quanto denunzia della doppia morale del cristianesimo (quella stessa morale che  per secoli ha imposto alle donne la sottomissione “per il loro Bene”): da una parte condiscendente alla logica del  potere quando usa la forza (crociate, benedizione delle armi e degli eserciti etc.), dall'altra basata sulla predica dell’amore. Anche a me la frase – sia pur interpretata forse parzialmente -  è risuonata significativa: sia per ciò che non mi è sembrato condivisibile (perché contrapporre – già sul piano concettuale - ‘potere’ e ‘amore’ , come se il primo fosse intrinsecamente diabolico e si dovesse escludere per principio l’esercizio dell’autorità legittima come servizio finalizzato alla crescita delle persone e del Bene comune?) sia per ciò che mi è sembrato illuminante (l’ambito della giustizia, per quanto prezioso, non può essere considerato l’orizzonte ultimo di una vita pienamente umana: come una pista di decollo è funzionale all’esercizio della com-passione, della solidarietà attiva, insomma di tutto ciò che – con termine logorato dalla retorica – chiamiamo amore).

 

Questioni in sospeso

Il dodicesimo – ed ultimo – incontro è servito per tentare un qualche bilancio ‘filosofico’ della settimana: dunque dal punto di vista della eventuale chiarificazione teorica dei problemi e dal punto di vista della risonanza interiore della convivenza sperimentata.

Dal primo punto di vista, come era agevole prevedere, più che dare risposte si è riusciti – forse – a porre in maniera un po’ più corretta le domande. A distinguere almeno due ‘giustizie’: l’ordinamento giuridico prodotto dalle assemblee legislative, interpretato e applicato ai casi concreti dai diversi sistemi giudiziari;  il valore morale che l’intuizione spontanea, dei singoli come delle collettività, percepisce in maniera confusa ma certa. La giustizia come legalità non va dunque identificata – e neppure separata del tutto – dalla giustizia come criterio etico: vivono in un rapporto dialettico, sottoposto all’evoluzione mentale dell’umanità nel suo complesso come ai precari rapporti di forza fra i popoli e, all’interno di ciascuno Stato, fra i ceti sociali.

Dal secondo punto di vista, ancora una volta i questionari restituiti e le dichiarazioni verbali hanno confermato che dai partecipanti la ‘vacanza filosofica’  è stata vissuta come un’esperienza positiva: le diverse opportunità di fruire della bellezza dei luoghi (a partire dalla Villa Scalabrini che ci ospitava nell’Alto Trevigiano, alle pendici del Monte Grappa), la spontanea cordialità dei rapporti interpersonali, la rilevanza dei contenuti intellettuali non certo estranei alle vicende quotidiane hanno finito col configurare, ancora una volta, un mix  originale di raccoglimento e di rilassamento, di maturazione consapevole e di gratificazione psicologica. A dimostrazione - per riprendere il vecchio Epicuro - che a darci la serenità nella vita non sono le cose più costose e più difficili da raggiungere, bensì quelle più a portata di mano. 

 

 

 

                                                                                                     Augusto Cavadi