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Alcune
note per difendere le nostre liquidazioni (TFR/TFS)
e riaprire
la battaglia generale sulle pensioni
1. Smascherare le falsità sulla
bancarotta annunciata della previdenza pubblica
L’argomento principe, usato da governo e sindacati
confederali e autonomi per convincere lavoratori e
lavoratrici ad optare per i fondi pensione finanziandoli con le proprie
liquidazioni e quindi rinunziando ad esse, è il seguente: la vita media si è
allungata, il costo delle prestazioni pensionistiche
per gli enti previdenziali pubblici (INPS, INPDAP,…) si è fatto insostenibile,
i contributi versati non riescono a far fronte alla crescita del numero dei
pensionati che hanno preso la maledetta abitudine di vivere molto più a lungo
che in passato e stanno per superare quantitativamente i lavoratori in
attività; i deficit di INPS ed INPDAP sono incolmabili e tra alcuni anni si
rischia di non poter più pagare le pensioni; perciò bisogna accontentarsi di
pensioni pubbliche molto più basse di quelle attuali e, per garantirsi una
vecchiaia dignitosa, occorre costruirsi un’altra pensione (la cosiddetta
seconda gamba previdenziale), finanziata con le proprie liquidazioni.
In
realtà non è poi così scontato che INPS ed INPDAP siano in deficit, perché, se
andiamo a leggere gli ultimi dati disponibili forniti dai diretti interessati,
scopriamo che nel 2001 l’INPS ha chiuso con un avanzo economico netto di 2645
miliardi di lire; l’INPDAP nel
Lor
signori forse obietteranno che nelle Finanziarie di fine anno si inseriscono fondi di spesa per ripianare eventuali
deficit degli enti previdenziali.
Noi
replichiamo osservando che comunque la situazione non
è per nulla così drammatica come si vuol far credere (avendo tra l’altro gli
enti previdenziali un patrimonio immobiliare e finanziario di riserva di tutto
rispetto) e soprattutto facendo presente che sono a carico dell’INPS tutta una
serie di spese per prestazioni (cassintegrazione,
integrazione ai minimi pensionistici,..) che sono assistenziali e che
dovrebbero far parte della fiscalità generale. Non abbiamo dimenticato che nel
’94 contro la controriforma Berlusconi (in realtà
l’anno successivo sostanzialmente realizzata da Dini)
uno dei cavalli di battaglia del sindacato, in linea
di principio condiviso da tutte le forze politiche, era la separazione della
previdenza dall’assistenza (quest’ultima sarebbe dovuta rientrare nelle spese
della fiscalità generale). Invece tutto questo è
finito nel porto delle nebbie.
Ma
soprattutto l’evasione contributiva (si parla di circa 20 miliardi di euro) messa in pratica dalle aziende contribuisce a far
vacillare i conti degli enti previdenziali. Infatti
recentemente su tutti i media è circolata la notizia di fonte ufficiale secondo
cui, dalle migliaia di accertamenti effettuati dagli ispettori del lavoro, sono
emerse irregolarità contributive per il 75% delle aziende.Non va dimenticato
che, quella accertata, è comunque solo una parte
dell’evasione contributiva totale. Né è un caso che l’organico degli ispettori
del lavoro sia nettamente sottodimensionato alla
bisogna ed in progressiva diminuzione e nel contempo forti pressioni padronali
spingono per modificare i loro compiti, trasformandoli di fatto in consulenti
aziendali; da parte nostra invece occorre rivendicare un notevole potenziamento
del loro organico ed un rafforzamento delle funzioni ispettive, per poter
meglio assolvere ai loro compiti di difesa della previdenza pubblica.
Se
a ciò aggiungiamo le sempre più numerose decontribuzioni
che vengono garantite soprattutto per le nuove
assunzioni più o meno precarie e la sciagurata parte della legge delega del
governo Berlusconi sulla previdenza già in atto dal
1° gennaio –cioè quella che consente a coloro che hanno raggiunto l’età
pensionabile di restare al lavoro senza versamento di contributi che invece
vengono accreditati direttamente in busta paga- allora si comprende che c’è una
chiara volontà politica da parte governativa, accettata più o meno tacitamente
dai sindacati e dall’”opposizione” di centrosinistra, di progressivo
indebitamento e tendenziale liquidazione degli enti previdenziali pubblici.
Da
parte nostra non dobbiamo mai smettere di denunciare questa manovra e
contrapporre una posizione limpida; separazione tra assistenza e previdenza,
recupero dell’evasione contributiva, cancellazione di qualsiasi forma di decontribuzione: questi devono essere i capisaldi alla base
della nostra battaglia per la difesa e il risanamento degli enti previdenziali pubblici.
2. La filosofia dei fondi
pensione
I
sindacati ci dicono che con la riforma Dini e l’introduzione, nel calcolo della pensione, del
contributivo (totale per i nuovi assunti dal 1/1/’96, parziale per quelli che
al 31/12/’95 avevano meno di 18 anni di contributi), le pensioni del futuro,
quindi soprattutto quelle dei neoassunti, saranno pari al 40/50% di quelle
attuali.
CGIL-CISL-UIL
dicono la verità, solo che dimenticano di dire che la
riforma Dini fu da loro sostenuta e appoggiata come
il male minore che poteva salvare il sistema pensionistico; inoltre fingono di
non ricordare che il sistema contributivo (tu avrai una pensione calcolata
rigidamente sui contributi versati) spezza il patto generazionale insito nel
sistema retributivo (o a ripartizione, secondo il quale la pensione viene
calcolata sulla media dello stipendio degli ultimi dieci anni, o, per essere
più precisi, il 50% sugli ultimi 10 e l’altro 50% sugli ultimi 5), per cui le
pensioni dei padri venivano pagate con il lavoro dei figli e alimenta
l’individualismo (io mi faccio la mia pensione) e lo scontro generazionale;
infine dimenticano che il metodo contributivo non era affatto una novità, ma
esisteva già durante l’Italia fascista, fu cambiato nel dopoguerra con il
retributivo, dopo il tracollo dell’INPS.
Ed è
seguendo questo crinale che governo e CGIL-CISL-UIL ci vengono a proporre i
fondi pensione (istituiti dal primo governo Amato con il d.lgs.
n. 124 del 21/4/’93, i primi fondi sono diventati operativi nel settore privato
nella seconda metà degli anni ’90); lo scopo è quello di tagliare la spesa
sociale e soprattutto vivacizzare l’asfittico mercato finanziario italiano.
I
fondi pensione costituiscono, particolarmente negli USA
e in Gran Bretagna, il cuore pulsante dei mercati finanziari arrivando a
movimentare capitali per diverse migliaia di miliardi di dollari.
Ma
i fondi pensione trovano il loro trampolino di lancio nell’’80 nel Cile di Pinochet dominato dalla scuola ultraliberista dei Chicago boys: in quell’anno
due decreti spazzano via d’un colpo la previdenza pubblica e creano ex novo la
previdenza privata obbligatoria.
Teoricamente
i fondi pensione sono di due tipi: a prestazione definita o a contribuzione definita. In realtà non esistono fondi pensione del primo
tipo, nel senso che nessuno può garantire ai clienti che a tot versamenti
corrisponderà la realizzazione di una tot somma; per cui
i fondi in realtà sono tutti a contribuzione definita, cioè sai quanto versi (e
neanche tanto), ma non sai quanto incasserai (altrimenti i fondi
funzionerebbero come una pensione pubblica).
I
fondi a contribuzione definita sono di due specie: fondi aperti gestiti da
finanziarie, banche,..; fondi chiusi o negoziali di
categoria o aziendali, cogestiti da sindacati e
rappresentanti di organizzazioni padronali; infine esistono già da tempo le
vecchie polizze previdenziali individuali (PIP).
I
sindacati propagandano ovviamente i fondi chiusi, affermando che sono molto più
sicuri, con minori rischi d’investimento e più democratici di quelli aperti.
I
precedenti di Enron,
dell’Alaska Carpenter Pension
Fund (che addirittura aveva investito in obbligazioni
Parmalat), dell’italiana Comit,…
con i loro fallimenti hanno allertato i lavoratori
futuri gonzi da pelare, che vanno quindi in qualche modo rassicurati.
Ma
non si capisce per quale motivo i lavoratori dovrebbero fidarsi di chi non si è
opposto alle precedenti riforme previdenziali di Amato
nel ‘92, Dini nel ‘95 e Prodi nel ‘97, di chi aveva
promesso fuoco e fiamme contro la legge delega sulle pensioni di Berlusconi e, una volta che questa è stata approvata (fine
luglio 2004), ha addirittura dimenticato di menzionarla nell’ultimo sciopero
generale del 30 novembre scorso, nonostante che essa, per la gran parte,
entrerà in vigore solo nel 2008 e ci sarebbe tutto il tempo necessario per
cercare di ribaltarla.
In
realtà, qualcuno lo dice sempre più apertamente, sta nascendo una sorta di
nuovo conflitto d’interesse che attanaglia i sindacati concertativi; infatti che interesse avrebbero a difendere le pensioni pubbliche,
mentre sono intenti a sponsorizzare e a far lievitare l’adesione ai fondi
chiusi? Anche un bambino comprende come, precipitando
le sorti della previdenza pubblica, salirebbero le quotazioni della previdenza
privata e dei fondi pensione (aperti o chiusi che siano).
Ma,
nonostante vecchi dirigenti sindacali non certo barricaderi
come Carniti (che acconsentì al taglio di 4 punti della scala mobile operato da Craxi
con il decreto di San Valentino dell’’84) e Trentin
(che firmò gli accordi del luglio ’92 che cancellavano definitivamente la scala
mobile, e quelli del luglio ’93 che, ingabbiando la contrattazione e le
dinamiche salariali, sancivano la linea della concertazione), avessero
dissentito da tale sciagurata scelta, l’ossequio al libero mercato e al dominio
della finanza ha portato CGIL-CISL-UIL a farsi piazzisti dei fondi pensione.
E’
per questo che CGIL-CISL-UIL, insieme a Confindustria,
Confcommercio e Confservizi,
hanno costituito, alla fine del 2003, l’Assofondipensione,
associazione dei fondi pensione negoziali, che ad oggi
associa 18 fondi, con un patrimonio di 4 miliardi di euro; presidente
dell’associazione è il falco della giunta esecutiva della Confindustria
Alberto Bombassei, vicepresidente la segretaria
confederale della CGIL Morena Piccinini; scopo
dell’associazione è sviluppare la previdenza complementare basata sui fondi
chiusi ed in proposito porsi come
interlocutore istituzionale nei confronti del governo.
I
lavoratori che imboccano la strada dei fondi pensione non
solo rischiano di andare incontro a profonde delusioni che potrebbero
persino compromettere la speranza di una vecchiaia dignitosa, ma addirittura
vivrebbero in una dimensione scissa, schizofrenica; infatti è forse
paradossale, ma probabilmente molto realistico, ipotizzare una situazione in
cui lo stesso individuo è portato in quanto lavoratore a battersi per la difesa
del posto di lavoro, suo e dei propri colleghi, in quanto risparmiatore invece
deve tifare per un congruo numero di licenziamenti (purchè
non capiti a lui), perché molto spesso questa è una condizione ottimale per
aver successo in borsa.
In
tal modo il lavoratore non è più portatore di diritti che difende
collettivamente, ma un individuo atomizzato in feroce competizione con gli
altri per l’affermazione del suo egoistico interesse; il sindacato si trasforma
invece in un comitato finanziario d’affari che gestisce
i soldi dei lavoratori.
La
forza lavoro a vario titolo in attività nel nostro
Paese è costituita da 22,5 milioni di individui, di cui 16,2 milioni lavoratori
dipendenti e 6,3 autonomi; tutti con la legittima aspettativa di percepire una
pensione pubblica. Rivoltando la frittata si può dire
che sono tutti potenziali “clienti” dei fondi pensione già esistenti e/o che si
apprestano a nascere.
In
realtà a cominciare dal ’97 i fondi pensione chiusi, nati da accordi sindacali
tra le parti, hanno cominciato a diffondersi nel settore privato, ove ne esistono 42 (da quelli legati alla singola azienda a
quelli invece estesi ad intere categorie). Come si finanziano? Prendiamo il caso del fondo più grande, quello dei
metalmeccanici, il Cometa.
C’è
una quota di almeno l’1,24% del salario trattenuta direttamente dalla busta
paga più un altro 1,2% che versa direttamente al fondo il datore di lavoro (si
badi bene che questa elargizione padronale vale solo
per i lavoratori aderenti al fondo). Ma ovviamente tali versamenti sono troppo
leggeri per far decollare il fondo, per cui si ricorre
al TFR dei lavoratori, che ne versano il 40%, se assunti entro il 27/04/’93, e
l’intero importo, se assunti dopo il 28/04/’93. Queste sono quote fissate
contrattualmente e possono essere modificate solo da accordi successivi;
l’unica cifra che può variare è la quota versata direttamente dal lavoratore
che può salire, poiché la contrattazione ha già definito accordi in tal senso e
altri potrà deciderne in futuro; l’aumento delle quote
da versare, dopo che così è stato
sancito dall’accordo collettivo, si applica automaticamente e non può essere rifiutato dal singolo
lavoratore, a meno che non receda dalla sua iscrizione al fondo; ma anche in
tal caso c’è la trappola, perché il lavoratore non è libero di abbandonare il
fondo prima che siano passati cinque anni dal momento della sua iscrizione.
Quindi
la cospicua massa finanziaria teoricamente disponibile, su cui governo, Confindustria e sindacati vogliono allungare le mani per
far decollare i fondi pensione, è costituita dalle liquidazioni (TFR cioè Trattamento di Fine Rapporto o TFS cioè Trattamento di
Fine servizio, quest’ultimo per buona parte dei dipendenti pubblici) dei
lavoratori.
Il
TFR si calcola accantonando annualmente –lungo l’intero arco dell’attività lavorativa- il 6,91% dello stipendio lordo annuale
rivalutato dello 0,75% del tasso d’inflazione ufficiale più un 1,5% fisso
(esempio: con un tasso d’inflazione al 3% il TFR viene rivalutato del 2,25%
-equivalente allo 0,75% dell’inflazione- + l’1,5% fisso, quindi del 3,75%).
Nessun
fondo pensione può garantire a priori rendimenti superiori a quelli del TFR,
né, per quanto oculatamente amministrato, può ritenersi del tutto fuori da crisi e crack finanziari.
Al
contrario gli enti previdenziali pubblici garantiscono il pagamento del TFR
maturato anche in caso di fallimento e/o bancarotta aziendale.
Nel
2004 – lo afferma Luigi Scimia, presidente della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione)- i
fondi chiusi hanno dato risultati superiori alla rivalutazione del TFR, ma, se
andiamo a verificare il loro andamento complessivo nei precedenti quattro anni,
il risultato è nettamente favorevole al TFR, risultato che diventa clamoroso,
se paragoniamo, nello stesso periodo preso in esame, il rendimento del fondo Cometa (il più grande fondo chiuso), che si è
apprezzato del 5,25%, a quello del TFR,
che si è rivalutato del 13,44%.
Del
resto, quando ci si avventura nei meandri dei mercati finanziari, certezze e
previsioni esatte non esistono.
La
stessa dinamica generale su scala internazionale e sul
lungo periodo (1921-1996) dell’andamento degli investimenti azionari -che è
l’unica che ci permetta di fare previsioni di una qualche affidabilità- rivela
che nel 50% dei 39 paesi analizzati si è verificato un loro apprezzamento medio
dello 0,8%, in Italia è stato vicino allo zero, in altri 17 paesi il tasso è
stato negativo (dati tratti da una ricerca dell’Università della California e
di Yale).
Di
recente, per convincerci a mollare il nostro TFR, si fa un gran parlare nel
nostro Paese di gestione “prudenziale” dei fondi, in grado di garantire un
rendimento sicuro, comparabile a quello del TFR, o almeno del 2,5% annuo; una
simile garanzia sarebbe costituita dall’investimento, piuttosto che in azioni,
in obbligazioni (in inglese bond); in realtà le
obbligazioni, spesso, vengono emesse da aziende
fortemente indebitate che non sono in grado di ottenere crediti a tasso
agevolato e le banche ritengono di guadagnare di più preferendo incassare le
commissioni ricavate dalla vendita delle obbligazioni piuttosto che anticipare
i soldi; il rischio di speculazione non è per nulla scongiurato; si pensi ai
casi di Cirio e Parmalat, che hanno emesso
obbligazioni con il benestare delle autorità di vigilanza finanziaria e borsistica e, quando c’è stato il crack, hanno gettato sul
lastrico migliaia di risparmiatori; ma sono rischiose anche le obbligazioni
emesse da stati, come quelle argentine e russe, che negli anni scorsi non sono
mai state rimborsate.
Intanto
però i fondi -che rappresentano una torta potenziale di 15 miliardi di euro da spartirsi tra San Paolo Imi, Unicredito,
Intesa, Arca, Generali,.. o potenti assicurazionni
come Mediolanum (di Berlusconi),
Unipol (legata alla CGIL), Cattolica assicurazione
(legata alla CISL),.. che già attualmente sono in poole
position e che hanno i loro sponsor in tutto l’arco politico e sindacale- non
decollano.
Finora a quelli esistenti nel settore privato hanno
aderito meno del 14% dei potenziali clienti, che costituiscono meno del 10% del
totale dei lavoratori dipendenti; non esistono ancora fondi pensione per i
lavoratori autonomi; nel Pubblico Impiego solo da poco è partito il fondo
chiuso Espero per la scuola, si ritiene che a breve partiranno anche negli
altri comparti.
Perciò
gli esperti si affannano a dare assicurazioni circa la maggiore sicurezza che i
fondi pensione italiani offrono rispetto a quelli anglosassoni, ma poi sono
costretti ad ammettere sconsolatamente che “C’è una notevole incertezza perché
non è stato ancora definito un meccanismo in grado di replicare il TFR, che
offre un rendimento garantito e il consolidamento di quanto maturato ogni anno
di contribuzione” (così afferma Nadia Vavassori,
responsabile Seconda Pensione di Credit Agricole Am sgr., in un’intervista ad Affari
Finanza supplemento de “
Da
qui una duplice necessità: quella di dirottare più o meno
subdolamente, con un’apposita legislazione di sostegno, gran parte o tutto il
TFR dei lavoratori nei fondi pensione; quella di rendere meno appetibile, con
una altrettanto apposita legislazione deterrente, il mantenimento del TFR nelle
mani dei lavoratori.
Questo
spiega dal ’93 in poi i numerosi interventi legislativi e pattizi
per generalizzare i fondi pensione nel settore privato e tentare di estenderli
al settore pubblico, con provvedimenti di finanziamento alle imprese, detassazione dei fondi pensione, tassazione vessatoria dei
TFR (dal 2001 è stata introdotta dal centrosinistra la tassazione dell’11% sulla rivalutazione del TFR, che il governo Berlusconi si è ben guardato dal cancellare con la sua
riduzione fiscale tutta proiettata nei confronti dei ceti abbienti,
dimenticando dal 2003 l’applicazione al TFR della no tax
area).
Ma
neanche ciò riesce a far crescere vistosamente i
fondi; le stesse aziende lamentano perplessità, perché, con il dirottamento del
TFR verso i fondi, si vedrebbero sottratto uno strumento prezioso di liquidità
nelle loro mani; gli sgravi fiscali loro promessi dal governo in cambio dello
smobilizzo dei fondi non sono ritenuti adeguati e stentano a trovare la
necessaria copertura finanziaria.
E
questo disagio arriva a trasformarsi in dileggiante e realistica “provocazione”
nelle parole degli economisti Tito Boeri e Agar Brugiavini
-pubblicate su Lavoro.info e
riprese con un certo rilievo dal confindustriale “Il Sole-24 Ore” del
27/01/2005- che scrivono: “Se in un’impresa solo alcuni lavoratori chiedono lo
smobilizzo del TFR, mentre gli altri trattengono i fondi presso l’impresa, il
rischio di licenziamento finisce per concentrarsi sui primi. Infatti
il datore di lavoro, chiamato a decidere quale lavoratore mettere in esubero in
caso di crisi aziendale, ha un forte incentivo a non licenziare proprio quei
lavoratori, cui dovrebbe, in caso di separazione, liquidare il TFR”.
Né
infine va sottaciuto che i versamenti finanziari da parte dei padroni privati e
delle amministrazioni pubbliche per foraggiare i fondi pensione chiusi non sono
graziosi regali elargiti generosamente ai lavoratori, bensì sono stanziamenti
sottratti agli aumenti salariali contrattuali, alla spesa sociale e alle
pensioni pubbliche per tutti i lavoratori e la collettività.
Il
grimaldello utilizzato per far saltare resistenze, perplessità e la, seppur non ancora pienamente esplicitata, opposizione dei
lavoratori, è quello del silenzio/assenso nel trasferimento del TFR dei
lavoratori ai fondi pensione contenuto nell’ultima controriforma delle pensioni
di Berlusconi.
CGIL-CISL-UIL, così come il centrosinistra, ritengono inevitabile e necessario un
forte ridimensionamento del sistema previdenziale pubblico, però, essendo
consapevoli dell’antipopolarità di tale scelta padronale e liberista,
preferiscono lasciarla fare a Berlusconi, senza
disturbare più di tanto il manovratore.
In
più CGIL-CISL-UIL, perfettamente consapevoli
dell’”ineluttabilità” delle “magnifiche sorti e progressive”
della previdenza complementare, che va ad affiancarsi ed in linea tendenziale a
sostituirsi a quella pubblica, avevano già da tempo deciso di investire in
questa direzione.
Da
qui, dopo un qualche traccheggiamento soprattutto cigiellino rispetto alla troppo sputtanata proposta originaria del governo e della
CISL circa l’obbligatorietà del trasferimento delle liquidazioni (TFR) dei
lavoratori all’interno dei fondi pensione, i confederali e Maroni
hanno convenuto insieme sulla bella trovata del silenzio/assenso, completamente
capovolta rispetto alla precedente e consolidatissima
prassi, per cui in futuro, se un lavoratore vorrà mantenere il proprio TFR,
quindi restare nella situazione attuale, dovrà fare esplicite dichiarazioni al
datore di lavoro e all’ente previdenziale di riferimento (INPS, INPDAP,…).
Anche
uno sciocco, purchè correttamente informato, comprenderebbe la
portata dell’inganno e della truffa; si gioca sulla disinformazione, sulla
distrazione, sulla superficialità di tanti, per trasferire comodamente milioni
di liquidazioni nei fondi pensione.
In tal modo CGIL-CISL-UIL entrano direttamente in
concorrenza con finanziarie, assicurazioni, banche, per cercare di convogliare
il TFR, che
costituisce parte del salario differito dei lavoratori, all’interno dei fondi
di categoria chiusi (da loro cogestiti con la parte datoriale), piuttosto che in quelli aperti.
La
controriforma Berlusconi/Maroni
sulle pensioni, L. 243/2004, è stata pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale il 6/10/2004, da quella data il governo ha un anno di tempo
per varare i decreti attuativi, in particolare quello che regola i fondi pensioni e la loro stretta connessione, tramite il
famigerato meccanismo del silenzio/assenso, con il trasferimento ad essi del
TFR; dal momento del suo varo, i lavoratori avranno sei mesi di tempo per
comunicare all’azienda e all’ente previdenziale di appartenenza la loro
indisponibilità ad aderire ai fondi pensione, in caso di silenzio si troveranno
scippato il proprio TFR, che andrà a costituire la polpa dei fondi pensione.
Sono
stati già quantificati i finanziamenti per il decreto attuativo
(20 milioni di euro per il 2005; 200 milioni per il
2006; 500 milioni per il 2007), che, non avendo trovato posto nella Finanziaria
2005, forse si pensa, da parte del governo, di inserire nell’imminente decreto
sulla competitività.
Il
governo ha rispetto ai fondi pensione una posizione sostanzialmente
“egualitaria”, tutti sullo stesso piano: fondi aperti, fondi
chiusi, polizze individuali.
In
gennaio Maroni, per accattivarsi le simpatie
padronali, nella bozza di decreto aveva anche inserito la proposta di far
scegliere direttamente ai datori di lavoro la destinazione del TFR del
lavoratore che non avesse espressamente optato per un
fondo di riferimento; in realtà il suo tentativo ha sortito l’effetto opposto,
spingendo
Nonostante
stiano cercando di fare in fretta, non riescono però a far andare al posto giusto tutte le tessere di questo ineffabile
mosaico. Non sono sicuri che i lavoratori ci cascheranno; non sono sicuri di
rastrellare la massa finanziaria sufficiente a far partire in
grande stile l’operazione.
Ed
allora le sparano grosse; così il viceministro
dell’economia Baldassarri (AN) arriva a proporre, per
rimpinguare i fondi, non solo l’utilizzo del TFR che il lavoratore maturerà dal
momento della sua adesione, ma addirittura l’intero TFR già maturato nel corso
di tutta la sua precedente attività lavorativa; Maroni
dal canto suo rilancia, suggerendo di dar maggior slancio ai fondi
finanziandoli con i soldi degli ammortizzatori sociali; sono delle boutades che però indicano
comunque la necessità di superare la soglia oltre la quale non c’è più la
certezza dei diritti, nemmeno quelli già acquisiti, dei lavoratori.
Oggi
CGIL-CISL-UIL-UGL-CONFINDUSTRIA-CONFCOMMERCIO-CONFARTIGIANATO-CONFAPI hanno ormai
raggiunto, il 17 febbraio, l’accordo per un avviso comune delle
parti sociali sulla previdenza complementare, subito inviato al governo, basato
essenzialmente su questi punti (come si ricava dal documento redatto in merito
dall’Assofondipensione): a) rinvio alle parti sociali
e quindi alla contrattazione per quel che riguarda la gerarchia delle forme
integrative cui destinare il TFR, trasformando la non opzione del lavoratore
“silente” in adesione al fondo chiuso di categoria; b) detassazione
sul rendimento dei fondi chiusi e sulla loro portabilità (vale a dire eguali
facilitazioni fiscali garantite tramite contrattazione nel caso di passaggio da
un fondo all’altro in seguito al mutamento del posto di lavoro e della posizione
previdenziale del singolo lavoratore); c) compensazioni adeguate per i datori
di lavoro secondo le indicazioni contenute nella legge delega (facilitazioni
creditizie soprattutto per piccole e medie aziende, riduzione del costo del
lavoro tramite la fiscalizzazione degli oneri sociali e magari anche con nuove
forme di decontribuzione, eliminazione del contributo
al fondo di garanzia del TFR presso l’INPS); d) estensione della previdenza
integrativa a tutti i dipendenti pubblici; e) vasta campagna d’informazione
(sarebbe meglio dire propaganda), rivolta ai lavoratori, sulla bontà dei fondi
pensione, sotto la forma della Pubblicità Progresso (forse, non bastando i
persuasori occulti, che si voglia tornare al minculpop?).
L’avviso
comune costituisce un manifesto ideologico, di stampo neocorporativo, che segna
un punto di non ritorno nella miserabile commistione d’interessi che lega datori di lavoro e sindacati confederali e
(post)fascisti in una specie di lobby “liberista”, che sottolinea la
divaricazione stellare nel mondo del lavoro tra rappresentati e rappresentanti,
che potrebbe avere -se non gli si risponde con adeguate e generalizzate
iniziative di lotta- delle conseguenze materiali devastanti sul futuro di
milioni di lavoratori
Al di là delle divergenze tra sindacati/padroni da un lato e governo dall’altro, il
tentativo comune è quello di arrivare al varo del decreto entro giugno, in modo
da smaltire entro la fine dell’anno (i famosi 6 mesi entro cui ci si deve
pronunciare) la pratica del silenzio/assenso e rilanciare alla grande con i
fondi chiusi all’inizio del 2006.
CGIL-CISL-UIL e compagnia cantando non si pongono minimamente il problema
dell’antidemocraticità dell’attuale formulazione del silenzio/assenso,
sostengono che tale meccanismo è perfettamente legittimo e garantisce
ampiamente la facoltà di scelta dei lavoratori.
Costoro
dimenticano che, alcuni anni fa, la legge sulla donazione degli organi, aveva originariamente stabilito che, in caso di silenzio da
parte dell’interessato, si procedesse, automaticamente, dopo la morte,
all’espianto degli organi. Allora bastarono alcuni opinionisti a sottolineare il pesante vizio antidemocratico di quella
legge incurante delle volontà dei singoli; ci fu un dibattito a mezzo stampa e
la legge fu cambiata, introducendo l’obbligo di un’esplicita dichiarazione
preventiva del singolo per procedere post mortem
all’espianto.
Noi
non possiamo assistere passivamente all’espianto delle nostre liquidazioni, per cui dobbiamo far di tutto per far saltare questa formulazione
truffaldina del meccanismo del silenzio/assenso.
5. La peculiarità del
Pubblico Impiego e della scuola
Nel
Pubblico Impiego i fondi pensione sono ancora assenti, se si eccettua la
recente costituzione nel settore scuola di Espero.
Le
liquidazioni dei lavoratori sono però calcolate in maniera diversa e con altri
strumenti.
I
dipendenti pubblici a tempo indeterminato assunti prima del 31/12/2000 sono a
regime TFS (Trattamento di Fine Servizio), quelli a tempo determinato assunti a partire dal 30/5/2005 e quelli a tempo indeterminato
assunti dopo il 31/12/2000 sono invece già adesso a regime TFR.
Si
sono sviluppate a partire dal ’95 una contrattazione
ed una legislazione di sostegno finalizzate ad armonizzare le regole fra
settore pubblico e privato e a creare le condizioni ottimali per la
costituzione e lo sviluppo dei fondi pensione.
Per
i dipendenti pubblici il TFS equivale ai 13/12
dell’80% dell’ultimo stipendio lordo (negli enti locali e nella sanità si
calcola sull’80% della media dell’ultimo anno di stipendio), vale a dire
l’86,66% dell’ultimo stipendio moltiplicato per gli anni di servizio (non solo
quelli effettivamente prestati, ma anche quelli riscattati). Il TFS non è salario differito (come il TFR), bensì salario previdenziale
istituito per legge, gode di un trattamento fiscale più favorevole (solo
il 40% del TFS è tassato) rispetto al TFR.
Ora
non è il caso di innescare una querelle infinita,
tendente a dimostrare che il TFS sia economicamente più conveniente del TFR,
perché molto dipende dal trend dell’inflazione.
Ma
per tutti i dipendenti a regime TFS conviene mantenere
tale forma di liquidazione, perché, qualora oggi optino per il TFR,
automaticamente si troverebbero in un fondo pensione (infatti non è possibile scegliere
il TFR senza aderire ad un fondo pensione).
Diverso
è il caso dei neoassunti, che oggi già sono a regime
TFR; essi a tuttora non sono vincolati ai fondi pensione, almeno finchè non scatterà il meccanismo del silenzio/assenso.
Per
i “neoassunti” (a partire dal 30/5/2000 quelli a tempo
determinato, dopo il 31/12/2000 quelli a tempo indeterminato) che scelgono di
aderire ai fondi pensione, automaticamente tutto il TFR maturando (il famoso
6,91% dello stipendio) più l’1% dello stipendio, più l’1% versato
dall’amministrazione di appartenenza confluiscono nel fondo di riferimento; in
più l’amministrazione pubblica aggiunge un versamento/bonus dell’1% per un anno
se l’adesione avviene entro il primo anno di operatività del fondo, o dello
0,5% sempre per un anno se l’adesione avviene entro il secondo anno di vita.
Per
gli assunti a tempo indeterminato entro il 31/12/2000 che scelgono la
previdenza complementare, la quota che confluisce nei fondi pensione è
costituita da un versamento dell’1% dello stipendio, a cui si somma il
versamento di eguale entità dell’amministrazione di
appartenenza, a cui vanno aggiunti il 2% dello stipendio trattenuto dalla quota
del TFR maturando e l’1,5% trattenuto dal TFS precedentemente maturato, infine
c’è da addizionare l’1% o lo 0,5% elargito per un anno dall’amministrazione se
l’adesione ai fondi avviene entro il primo o il secondo anno di vita della loro
operatività. Le quote da prelevare sul TFR e versare ai fondi potrebbero
variare in seguito a sopravvenuti accordi in sede contrattuale. Al momento attuale non è ancora del tutto chiaro se, all’atto
dell’eventuale entrata in vigore del meccanismo del silenzio/assenso, tutto il
TFR maturando dei vecchi assunti passerà ai fondi pensione.
Devono
ancora sciogliersi alcuni problemi di carattere giuridico per armonizzare la
disciplina del trasferimento del TFR ai fondi già nei fatti
definita per il settore privato con quella del settore pubblico. Se si
applicasse subito la stessa regola del silenzio/assenso del settore privato al
settore pubblico ed in particolare ai dipendenti in regime TFS, cosa ne sarebbe del TFS? Un conto è dire da oggi che chi non
dichiara nulla vede il suo TFR trasferirsi al fondo pensione; ma chi invece ha
il TFS e non dichiara nulla, come fa il TFS a trasformarsi in TFR? E’ chiaro,
specie dopo lo scempio del silenzio/assenso, che lor
signori la gabola tecnica sono
in grado di trovarla, ma intanto devono farlo.
Le
nostre indicazioni non possono che essere semplici e chiare: per chi è in
regime TFS mantenerselo stretto altrimenti si va a finire dritti nei fondi
pensione; anche per chi è in regime TFR –quei neoassunti verso cui più
martellante è la campagna della previdenza complementare- non optare per i fondi, non farsi infinocchiare dalle
mirabolanti promesse di un’altra pensione che sostituisce la parte amputata a
quella pubblica; perché nulla è certo, anzi no, l’unica cosa certa è che si
ritroveranno con una pensione pubblica miserabile e senza TFR; in quanto poi
alla pensione integrativa è stato calcolato che, per arrivare a 900 euro
mensili, occorre, a inflazione ferma, versare qualcosa come 5.000 euro all’anno
e con gli stipendi e i salari attuali per i più giovani è come chieder loro la
luna.
Intanto
con grande battage pubblicitario nelle scuole è
diventato operativo il fondo Espero sostenuto da CGIL-CISL-UIL-SNALS-GILDA-ANP
(Associazione Nazionale Presidi), tutte insieme appassionatamente, quando si
tratta di lucrare sui soldi dei lavoratori. Sono stati debitamente formati un
migliaio di funzionari e attivisti sindacali, trasformati in promoters finanziari in cerca di allocchi
da prendere all’amo nelle assemblee organizzate ad hoc dai sindacati di stato
(stavolta è proprio il caso di dirlo, tanto più che, per sponsorizzare i loro
fondi, hanno ottenuto una deroga dall’amministrazione che consente loro di
sforare il tetto di 10 ore annue di assemblea); mentre le segreterie delle
scuole sono state invase da 14 tonnellate di materiale cartaceo di propaganda
(a detta dei promoters medesimi).
Per
Espero valgono più o meno le stesse regole dei fondi
del settore privato: l’adesione è libera, come è libera la recessione… ma prima
di cinque anni d’iscrizione non puoi recedere; dopo otto anni di iscrizione
puoi chiedere l’anticipo di una parte di quanto maturato per sostenere spese
importanti (acquisto prima casa, particolari cure mediche,…) debitamente
documentate; la quota di adesione (una tantum) è di € 2,58; la quota
associativa è fissata annualmente dal consiglio di amministrazione e (bontà
loro) non può superare lo 0,12% della retribuzione annua. Per essere operativo
il fondo deve raggiungere almeno 30.000 adesioni e i piazzisti di fondi devono
far presto per evitare la tagliola del 31/12/2005, data ultima (però
trattabile!) per il passaggio dal TFS al TFR.
Nella
scuola sperimentano le probabilità di successo, per il settore pubblico, dei
fondi pensione; nella scuola abbiamo cominciato ad organizzare la resistenza
per ricongiungerci con la lotta che sta partendo nel settore privato ed
estenderla a tutto il pubblico impiego.
6.
Far saltare la truffa del silenzio/assenso e riaprire la
partita generale sulle pensioni
Dobbiamo
mettercela veramente tutta per far saltare il meccanismo del silenzio/assenso;
gli interessi coalizzati contro di noi sono potentissimi, ma abbiamo il dovere
politico di provarci fino in fondo per non farci scippare il TFR/TFS.
Nei
posti di lavoro il mugugno dei lavoratori su pensioni/liquidazioni cresce;
bisogna far leva sulla nefandezza del meccanismo del silenzio/assenso per
cercare di capovolgere in positvo le sorti delle
prospettive generali del sistema previdenziale pubblico.
Deve
apparire chiaro che l’operazione fondi pensione e il suo veicolo portante del
silenzio/assenso mirano alla definitiva distruzione
della previdenza pubblica e all’abbattimento di un sistema universalistico del welfare.
Per
difendere oggi, democratizzare e riqualificare socialmente in futuro il sistema
pensionistico pubblico occorre sconfiggere, con la mobilitazione la più
capillare possibile, i fondi pensione. Solo boicottandoli, mostrando la loro
insensatezza, insicurezza e inaffidabilità, la mancanza di convenienza
economica, denunciando il processo di desolidarizzazione
individualistica e qualunquistica che rischiano di innescare tra i lavoratori,
si potrà creare nel Paese un’inversione di tendenza che faccia avvertire a
livello generale la necessità di ritornare a puntare e a
investire sulla previdenza pubblica.
Non
aspettiamo l’uscita del decreto sul silenzio/assenso per organizzare il puro e
semplice dissenso; è chiaro che anche questo, qualora sarà necessario, andrà
fatto, ma a suo tempo, soltanto dopo l’eventuale varo del decreto attuativo.
Adesso
costruiamo la discussione e prepariamo le mobilitazioni per imporre il ritiro o
la riformulazione del meccanismo
del silenzio/assenso (se voglio cedere il mio TFR al fondo pensione, lo devo
esplicitare direttamente attraverso una apposita dichiarazione).
Né
questa mobilitazione contro il silenzio/assenso è fine a se stessa (e comunque se la spuntassimo, sarebbe proprio una gran bella
vittoria), ma ci può consentire di riaprire il discorso generale sulla
controriforma pensionistica, i cui punti essenziali –non scordiamoci mai di
ripeterlo- entreranno in vigore solo nel 2008.
Quindi
i giochi non sono già fatti; la rapina di liquidazioni e pensioni non è inevitabile.
Possiamo
riaprire la partita nella chiarezza degli obiettivi da perseguire.
Dobbiamo
ribadire il nostro no a qualsiasi aumento dell’età
pensionabile e ai 40 anni di contribuzione per andare in pensione (35 anni di
contributi sono già troppi); così come anche le finestre per accedere alla
pensione devono rimanere 4 all’anno.
Nel contempo dobbiamo tendere a scardinare la controriforma Dini, che è il vero architrave su cui si regge la
demolizione della previdenza pubblica; per cui va chiesto con forza il
ripristino del sistema retributivo che è l’unica garanzia per una pensione
dignitosa e costituisce un importante collante solidaristico
tra i lavoratori vecchi e giovani.
Gli
eventuali deficit degli enti previdenziali vanno abbattuti con la separazione
tra previdenza e assistenza; recuperando l’ingente evasione contributiva;
cancellando tutte le forme di decontribuzione che
ormai stanno divenendo la norma nei nuovi contratti di assunzione
o di trattenimento al lavoro per chi già dovrebbe essere in pensione.
Va
rivendicata con forza l’applicazione di un meccanismo di contribuzione
figurativa per tutti quei lavoratori precari che non sono coperti nei periodi
di disoccupazione dalla contribuzione, tali contributi figurativi possono
essere finanziati con i fondi recuperati dall’evasione fiscale e con i
contributi dell’1% e i bonus vari che aziende e
pubbliche amministrazioni così “generosamente” oggi elargiscono per far
lievitare i fondi pensione.
Dai
posti di lavoro ai territori, articolando mobilitazioni settoriali, categoriali e nazionali, con la prospettiva di una eventuale e necessaria generalizzazione della lotta, con
l’auspicio della costruzione di un vasto fronte sociale e la ricerca su questi
obiettivi della massima unità con il sindacalismo di base e conflittuale che
non si concilia con la banda degli sponsor dei fondi e delle speculazioni
finanziarie, dosiamo bene le nostre forze, ma cerchiamo di utilizzarle tutte
quante con la necessaria coordinazione e fino in fondo.