In “Professione docente”, XI, 2 febbraio 2001

 

Tre “punti caldi” della valutazione

di Guido Armellini

 

In questo intervento vorrei considerare il problema della valutazione dal punto di vista del mestiere dell’insegnante.  Ritengo infatti che ci siano aspetti del valutare e dell’essere valutati che trovano la loro misura nella concreta relazione tra esseri umani che si instaura ogni giorno nelle aule scolastiche più che nell’adesione a questo o quell’orientamento del pensiero pedagogico e filosofico.  Mi limiterò ad accennare a tre “punti caldi” della valutazione, emersi dalla mia pratica di insegnante e di essere umano che vagabonda per le scuole, confrontando la propria esperienza con quelle di colleghe e colleghi.

1.  Il tutto e le parti

Uno strumento valutativo diventato quasi obbligatorio nelle scuole di ogni ordine e grado, e avvolto da un’aura di indiscussa scientificità, è la cosiddetta “griglia”:  prima di correggere un elaborato si individuano una serie di indicatori a ciascuno dei quali si attribuiscono un punteggio massimo e un punteggio minimo;  la valutazione complessiva risulterà dalla somma dei punteggi relativi a ciascun indicatore.  Il risultato è che, nove volte su dieci, il punteggio così ricavato non corrisponde all’idea complessiva che l’insegnante (o la commissione d’esame) si è fatta di quell’elaborato. Avviene allora che si dà qualche ritocco qua e là, aggiungendo o togliendo punti a questo o quell’indicatore, per far tornare i conti.  Se consultassimo sulla questione un docimologo ministeriale, certamente deplorerebbe questo processo di aggiustamento come approssimativo e impressionistico, e avrebbe le sue ragioni. 

Ma è proprio così indiscutibile che la valutazione più scientifica e attendibile è quella analitica, basata sulla somma di valutazioni parziali, svolte separatamente, e non quella olistica, che considera l’oggetto valutato come un tutto, da giudicare nel suo complesso?  La mia opinione è che, nell’esercizio della valutazione scolastica come in numerose altre operazioni relative tanto alle scienze umane quanto alle scienze naturali, il tutto non sia equiparabile alla somma delle parti, e che la parcellizzazione della valutazione, anziché fornire risultati più attendibili e confrontabili di un approccio globale, produca un effetto di distorsione e di disturbo, aggravato dalla presunzione di oggettività.  Basta considerare la più ovvia (apparentemente) delle operazioni preliminari:  l’attribuzione del punteggio minimo e massimo relativo a ciascun indicatore.  La decisione aprioristica che quella variabile debba “pesare” più o meno di quell’altra è già in sé un atto astratto e arbitrario:  l’esperienza concreta dimostra che la maggiore o minore rilevanza e complessità  delle diverse competenze messe in campo dagli studenti emerge spesso soltanto dopo che gli elaborati sono stati corretti, e che in ogni elaborato una specifica competenza può avere un peso diverso in relazione alle altre, a seconda dell’impostazione che ogni studente ha dato al suo compito.

Questo non significa naturalmente che, nel valutare, ogni insegnante debba affidarsi all’arbitrarietà delle sue idiosincrasie e impressioni personali, senza esplicitare, discutere, condividere i suoi criteri.  Semplicemente, l’esplicitazione, la discussione, la condivisione non si appoggeranno a dosaggi aprioristici, a calcoli aritmetici, a quantificazioni standardizzate, ma a criteri generali, costruiti cooperativamente a partire dall’esperienza, per i quali vale, più che l’oggettività della dimostrazione, l’intersoggettività dell’argomentazione.  Nulla vieta che, in questo processo, si faccia riferimento a un repertorio di indicatori, a patto che essi siano utilizzati come promemoria, strumenti di regolazione a posteriori, punti di riferimento per “tarare” la soggettività inevitabile in ogni  valutazione, e non come garanti di una presunta oggettività, garantita dalla frammentazione dell’oggetto valutato. 

Sulla stessa filosofia atomizzante si basa il meccanismo valutativo del nuovo esame di stato, imperniato sull’addizione di punteggi parziali (credito scolastico +  tre valutazioni delle prove scritte + valutazione del colloquio + eventuale bonus della commissione nel caso di prestazioni eccellenti). Anche in questo caso l’esperienza dimostra che il tutto non è uguale alla somma della parti:  addizionando numeri riferiti a grandezze di natura disomogenea, misurate con criteri disparati (voti di temi, “saggi brevi”, colloqui; punteggi di test; medie di voti finali aumentate o diminuite in considerazione di fattori come la “partecipazione” e l’ “impegno”; punteggi legate ad attività sportive o di volontariato...), si compie un’operazione matematicamente indebita, che ottiene il risultato opposto a quello che vorrebbe proporsi:  sommando le pere coi fichi secchi, l’arbitrarietà e l’inconfrontabilità dei risultati, anziché diminuire, aumentano a dismisura.

Così, non diversamente dall’utilizzo pedissequo delle “griglie” di correzione,  gli automatismi aritmetici dell’esame creano situazioni che fanno a pugni con il buon senso didattico.  Consideriamo per esempio il caso di un ragazzo che abbia sempre ottenuto ottimi risultati scolastici e, nel corso dell’esame, abbia un tonfo improvviso, dovuto a vuoti di memoria, problemi emotivi o altri fattori analoghi:  è chiaro che, in una situazione simile, la considerazione del suo rendimento precedente dovrebbe avere un peso molto più rilevante del 20% previsto dalla normativa.  Al contrario, se uno studente, dopo due anni di profitto scadente, nel corso dell’ultimo anno avesse acquisito pienamente le competenze richieste, i risultati del terzultimo e del penultimo anno dovrebbero avere un rilievo minimo:  in presenza di un buon risultato dell’esame, sarebbe palesemente insensato far pesare su di lui i “debiti” precedenti.

Conclusione: bisognerebbe lasciare alle e agli insegnanti l’onere di una valutazione globale, senza imbrigliarla nel meccanismo aritmetico della somma.  Questo non impedisce di far riferimento a prove “oggettive”;  l’importante è non confondere la misurazione con la valutazione.  La situazione dell’insegnante che valuta uno studente  è simile a quella del medico che deve definire le condizioni di salute di un suo paziente: l’apporto dei dati risultanti dagli esami di laboratorio può essere un punto di riferimento fondamentale, ma la diagnosi consisterà in una interpretazione dei dati, non  nella loro combinazione matematica!

2.  Oggettività e complessità

Si mette così in discussione un secondo caposaldo del pensiero dominante sulla valutazione:  che un atto valutativo sia tanto più attendibile quanto meno reca la traccia della soggettività  degli esseri umani che lo hanno prodotto.  La mia opinione è specularmente opposta:  una valutazione risulta tanto più seria, utile per il valutato, confrontabile con altre, quanto più l’apporto della soggettività del valutatore o dei valutatori è consapevole ed esplicito.  In altre parole, l’oggettività non mi sembra una garanzia di trasparenza e di equità, ma una riproposta particolarmente subdola del dogmatismo, un alibi per chi non vuole assumersi la responsabilità delle sue scelte.  Come genitore, oltre che come insegnante, ho potuto constatare che nessun docente è tanto pericoloso per l’apprendimento, l’autostima e l’igiene mentale suoi studenti quanto quello che presume che le sue valutazioni siano “oggettive”.

Oltre ad essere inevitabilmente presente nella scelta di ciò che valga la pena valutare, e di ciò che nella valutazione debba pesare di più o di meno, la soggettività dell’insegnante è chiamata in causa anche nel momento in cui deve decidere se la risposta data dallo studente sia giusta o sbagliata, convincente o inaccettabile. Questo avviene in misura diversa a seconda del tipo di domanda. Di fronte a domande che vertono sul possesso di conoscenze elementari del tipo: “Dov’è nato Giacomo Leopardi?”, il criterio di verità è talmente solido e condiviso che persino io sarei quasi disposto a scomodare la parola “oggettività”.  Qualcosa di simile può accadere per singole abilità del tipo:  “Individua gli enjambements nel testo dell’Infinito”.  Ma se le domande vertono su competenze complesse, che richiedono allo studente di mettere in campo strategie non riconducibili a un unico procedimento standard (p. es. “Analizza il testo dell’infinito”), la soggettività del valutatore è inevitabilmente chiamata in causa. Per non parlare delle consegne che fanno esplicitamente appello a interpretazioni o giudizi  dell'esaminato (“Che cosa può significare, per noi oggi, l’opera di Leopardi?”).

Per dirla in termini generali:  quanto più la prestazione richiesta è banale ed elementare tanto più se ne può accertare “oggettivamente” la correttezza;  quanto più le operazioni valutate sono complesse, tanto meno oggettivo può essere l’apprezzamento.  Conclusione:  se vogliamo essere massimamente “oggettivi”, dobbiamo  limitarci a verificare il possesso mnemonico di nozioni, o la capacità di svolgere mansioni meramente addestrative; se invece vogliamo vagliare la capacità di far uso di processi di analisi, sintesi, critica, invenzione (ciò che il didattichese attualmente in uso designa con la parola “competenza”), dobbiamo rinunciare apertamente a ogni presunzione di oggettività. 

Da questa consapevolezza dovrebbe scaturire il principale correttivo all’arbitrarietà valutativa, che non sta nell’uso di marchingegni tecnicistici o di intricati congegni matematici, ma nell’etica del valutatore: che consiste prima di tutto nella consapevolezza del limite (non si può “valutare tutto”;  quanto più ci si avvicina alla valutazione di capacità complesse, atteggiamenti, modi di essere, tanto più occorre tener conto della relatività del proprio giudizio, ed esprimerlo nella forma conseguente); e in secondo luogo nella ricerca dell’intersoggettività, basata sull’esplicitazione dei criteri adottati e sul confronto aperto e paziente con gli altri esseri umani coinvolti nel processo valutativo.

3. Presupposti e prerequisiti

Un terzo caposaldo del pensiero dominante sulla valutazione è costituito dal binomio obiettivi/prerequisiti, su cui si dovrebbero fondare l’efficacia della programmazione didattica e il successo del processo di insegnamento-apprendimento.   Per dirla con Gaetano Domenici, massimo teorico della “didattica modulare”:

Quanto più la definizione degli obiettivi di apprendimento di un percorso formativo e dei relativi prerequisiti cognitivi risulta precisa e analitica, tanto maggiore è la probabilità di ottenere in uscita esiti di alta qualità[1].

Questa immagine perfettamente razionale, controllabile e trasparente dell’insegnamento-apprendimento si basa su tre presupposti: a) che il cammino della conoscenza sia lineare e univoco; b) che tra gli esseri umani coinvolti nel processo formativo vigano presupposti comuni su che cosa valga la pena di imparare e come; c) che di conseguenza le strategie cognitive di ogni studente siano perfettamente trasparenti e controllabili da parte dell’insegnante.  Si suppone che ogni discente, per raggiungere un certo obiettivo O, debba necessariamente passare attraverso un ben definito prerequisito P;  e che il docente, avendo raggiunto sul rettilineo della conoscenza un traguardo di gran lunga più avanzato dei suoi alunni, possa diagnosticare con la massima oggettività e precisione la situazione di partenza di ciascuno, per condurlo passo passo dal punto P al punto O, che a sua volta fungerà da prerequisito per la conquista di un nuovo obiettivo.

Il modello è indubbiamente rassicurante, ma ha il difetto di essere astratto.  L’esperienza ci dice infatti che le giovani generazioni organizzano il loro modo di impadronirsi della realtà in base a percorsi, criteri di valore, orizzonti di senso, modelli di comportamento molto diversi da quelli seguiti dalle generazioni adulte.  E’ una svolta antropologica a cui sono stati dedicati negli ultimi anni studi di grande interesse[2], che consentono di inquadrare i problemi dell’educazione in una prospettiva meno semplicistica, e più rispettosa della loro complessità:  ciò che rende particolarmente difficile la trasmissione dei saperi e dei valori codificati alle ragazze e ai ragazzi di oggi non è tanto una loro mancanza di conoscenze e competenze di base (prerequisiti), quanto la profonda diversità delle loro finalità, modalità e strategie cognitive (presupposti).  In altre parole:  l’incontro fra insegnanti è studenti non è semplicemente un incontro fra livelli di conoscenza, ma tra esseri umani caratterizzati da orizzonti culturali differenti, che devono prima di tutto cercare un contesto comunicativo condiviso, attraverso la costruzione di presupposti comuni.

Se le cose stanno così, non basta che l’insegnante si ponga come inossidabile controllore di prerequisiti cognitivi e cronometrico programmatore di percorsi didattici attraverso i quali far passare i suoi studenti.  Più che un trasmettitore di conoscenze/competenze/capacità, dovrà essere un “esploratore di mondi possibili”[3], capace di affacciarsi sull’alienità degli orizzonti dei suoi “barbari” interlocutori, per costruire insieme a loro un modello di mondo che nasca dall’incontro fra il sapere canonico e la nuova domanda di senso, le nuove strategie cognitive, i nuovi orizzonti d’attesa che essi esprimono.  E gli studenti non gli interesseranno solo per ciò che non sanno e che lui sa, come minus habentes che devono essere aiutati a fare qualche passo avanti su un percorso precostituito; ma come “esperti di altre forme di vita”, esseri umani che sanno e pensano cose che lui o lei non sa e non pensa, con i quali dialogare e costruire cooperativamente un cammino di conoscenza. Da questo punto di vista, un insegnante, più che di programmazione, ha bisogno di strategia, nel senso proposto da Edgar Morin:

Il problema della complessità non consiste nella formulazione di programmi che le menti possano inserire nel loro computer.  La complessità richiede invece la strategia, perché solo la strategia  può consentirci di avanzare entro ciò che è incerto e aleatorio.  L'arte della guerra è un'arte strategica perché è un'arte difficile che deve tener conto non soltanto dell'incertezza relativa ai movimenti del nemico ma anche dell'incertezza relativa a ciò che il nemico pensa, e quindi anche a ciò che il nemico pensa che noi pensiamo.  La strategia è l'arte di utilizzare le informazioni che si producono nell'azione, di integrarle, di formulare in maniera subitanea determinati schemi d'azione, e di porsi in grado di raccogliere il massimo di certezza per affrontare ciò che è incerto[4]. 

In questo quadro la valutazione non si pone come semplice accertamento del raggiungimento o meno di traguardi predeterminati, ma come processo bidirezionale, dialogico, in gran parte orale ed informale, aperto all’imprevisto e al teach-back  proveniente dagli studenti. 

Ne scaturisce una profonda differenza tra il concetto di valutazione come momento fondamentale di scambio comunicativo tra esseri umani, necessario per l’apprendimento e per la qualità della relazione; e quello di certificazione, come attestazione ufficiale del possesso di conoscenze o competenze.  L’ideologia didattica dominante negli ultimi anni ha enfatizzato il secondo concetto a scapito del primo, producendo una vera e propria ossessione della certificazione, che rischia di capovolgere il naturale rapporto tra fini e mezzi in campo educativo:  anziché preoccuparsi di conoscere i suoi studenti, di insegnare loro cose significative, di aiutarli a pensare con la propria testa, l’insegnante è indotto ad uniformarli fin dall’inizio dell’anno a prove di verifica sempre più invadenti e ipertrofiche.  Col rischio di ottenere i risultati oggi unanimemente deprecati nei paesi dove da anni si applica la didattica presa a modello dai nostri buro-pedagogisti:  un sistema scolastico tanto concentrato nell’addestrare le ragazze e i ragazzi a riconoscere le risposte giuste nei test, da dimenticarsi di coltivare le loro capacità di pensiero e di immaginazione.

 

Guido Armellini

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[1] Dai materiali approntati dall’Università degli Studi di Roma Tre, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, per i corsi di formazione ai docenti dei “licei tecnici”:

[2] Tra i libri più recenti, cfr. R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che si stanno perdendo, Laterza, 2000), che contrappone l’ “intelligenza simultanea” tipica delle nuove generazioni all’“intelligenza sequenziale”, sulla quale si basa il modello codificato della trasmissione del sapere.

 

[3] Traggo il concetto e la definizione da M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Pescara - Milano, 2000.

 

[4] E. Morin, Le vie della complessità, in La sfida della complessità, a c. di G. Bocchi e M. Ceruti, Milano, Feltrinelli,  1985, pp. 49-67.