Materiali
preparatori a cura della redazione di école
Un
luogo per la scholé
Per una scuola europea, non eurocentrica
Si può
spingere l’autonomia delle scuole in direzione dell’autogestione, ampliando
progressivamente gli ambiti di discussione e gli interstizi di libertà
all’interno dell’istituzione. Per questo non si può attendere per legge una
estensione di libertà, la libertà la si riconquista attraverso il confronto e
il conflitto.
La scuola è
oggi in una profonda crisi di senso che viene da lontano. In lotta con altri
mezzi più potenti di trasmissione del sapere, non riesce più a garantire
nemmeno quel disciplinamento di corpi e menti per cui è nata. D’altra parte,
nel suo assetto tradizionale, è del tutto inadeguata a far fronte all’attacco
della globalizzazione neoliberista che trasforma i saperi in merci, i soggetti
in utenti, le istituzioni in servitori di un mercato sempre più schiacciato sui
grandi gruppi oligopolistici. I processi in corso ― la privatizzazione neoliberista e la trasformazione
tecnologica che crea nuovi e più potenti mezzi di trasmissione ― stanno di fatto già
trasformando la scuola. La scelta è se cambiare come vorrebbero i poteri
dominanti, oppure se imprimere una direzione diversa al cambiamento in atto
È possibile passare da una scuola come una struttura
di disciplinamento, al cui centro stanno le procedure di controllo e d’esame, a
un luogo di formazione dell’identità, di senso e di ricerca culturale, di
convivenza e di incontro?
Perché avvenga, è necessaria una profonda
trasformazione culturale dell’insegnare e della scuola. Esistono strumenti,
paradigmi, epistemologie che possono sostenere e accompagnare un tale
cambiamento di fondo: complessità, ecologia, concezione costruttivistica
dell’educazione e del sapere, riflessione femminile, possono diventare gli
ambiti privilegiati di questo processo di trasformazione e auto-formazione
continua.
I soggetti
dell'educazione
Questo cambiamento deve però partire dal basso, deve
rimettere in gioco i soggetti dell'educazione, re-istituire la scuola come uno
spazio in cui la formazione e l’auto-formazione si intersecano, in cui la socializzazione
non sia soltanto custodia e obbligo, ma anche assunzione di decisioni
attraverso processi di decisione e deliberazione collettiva.
Uno spazio per crescere e per discutere, una polis dove i cittadini acquistano
un’identità anche nel coinvolgimento collettivo, insomma una scuola scholé, spazio pubblico che si
istituisce per sottrarsi alla logica mercantile del profitto, del lavoro e
dell’urgenza. Per far questo, c’è bisogno di una prassi educativa che rovesci
il senso dello stare a scuola e dell’imparare. Una scuola aperta agli scambi e
agli incontri, che coltivi la saggezza pratica, come capacità di rapporto con
gli altri, con il mondo, capacità di riflessione e di dibattito, che è la base
di ogni cittadinanza consapevole nel mondo.
Organismo vivo
Si tratta di restituire alla scuola quella
dimensione non di isola nell’oceano, ma di organismo inserito nell’ambiente,
che invece di fingere superiore intangibilità, impara dall’ambiente e trasforma
per i propri fini interni ciò che la circonda. La scuola, istituzione deputata
all’istruzione formale è un organismo che non apprende, fondamentalmente perché
non vive, e l’apprendimento coincide con la vita.
In questo senso la scuola potrebbe essere concepita
anche come uno strumento, una lente di ingrandimento per osservare e analizzare
ciò che la circonda. Uno strumento per l’analisi e la trasformazione sociale.
Punto di partenza per lavori di ricerca e analisi del territorio, delle
problematiche sociali, economiche e politiche. Apertura all’esterno: arcipelaghi
di scuole connesse in rete.
Una scuola
diversa è possibile
Una scuola diversa è possibile, non lontana da
quelle che abitualmente abitiamo. Comincia dalle cose semplici, superflue ed
essenziali: dalla bellezza e dalla cura dello spazio in cui vivere e
dell’ambiente circostante; dagli spazi di socialità che rendono la scuola
qualcosa di più e di diverso da una scuola azienda rivolta al profitto.
Un luogo dove riprendere e utilizzare le esperienze
e la tradizione dei metodi attivi per estenderli progressivamente; dove
imparare attraverso le esperienze, in contesti di apprendimento ricchi, che
pongano al centro del lavoro il fare e la creatività. La didattica diventerebbe
così l’arte di costruire ambienti adeguati per l’apprendimento e per imparare a
imparare. C’è tutto un tempo dell’apprendimento da reinventare per evitare la
parcellizzazione oraria in favore di aree e di aggregazioni teoriche e pratiche
da sperimentare sulla base della discussione interna e con altre scuole in
rete. Non dunque luogo di frammentazione tayloristica del tempo, ma piuttosto
luogo di incontro e di sintesi, di costruzione collettiva della complessità.
E non è per una moda che bisogna far entrare le
nuove tecnologie a scuola. La tecnologia oggi, nel lavoro come a scuola, è in
grado di liberarci dalle occupazioni più ripetitive in modo leggero, lasciando
più spazio e tempo ai rapporti umani, al gioco e alla creatività.
Una scuola
laica per l'Europa
Viviamo in una
situazione contraddittoria: alla mondializzazione culturale e alla diffusione
planetaria di modelli di consumo e di comunicazione si accompagnano i localismi
delle piccole patrie, i particolarismi etnici e religiosi, i comunitarismi con
vocazioni organicistiche
È anche un’epoca di accentuata «secolarizzazione» e
laicizzazione dei comportamenti e insieme di rinascita del sacro, spesso nella
forma di intolleranze e integralismi. E, dal punto di vista laico, anche il
progetto di Costituzione presentato al Consiglio europeo riunito a Salonicco il
20 giugno 2003 è insoddisfacente. Non tanto per il preambolo, che richiama
genericamente le «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa»,
quanto per l’articolo 51 che dichiara di rispettare lo status delle chiese e
delle associazioni religiose previsto dalle legislazioni nazionali (e dunque i
privilegi di cui godono le confessioni di maggioranza in molti Stati) e afferma
l'intenzione di mantenere «un dialogo aperto, trasparente e regolare» con tali
chiese, aprendo quindi la strada a una consultazione permanente delle
associazioni religiose e ad una influenza istituzionale che in un’Europa laica
non dovrebbe esserci.
Libertà di
pensiero e rispetto della pluralità
Per noi laicità significa innanzitutto affermazione
della libertà di pensiero e della libera manifestazione di tutte le convinzioni
filosofiche e di tutte le credenze religiose, nei limiti del rispetto dei
diritti fondamentali di uomini e donne, dei bambini e delle bambine, delle
minoranze acquisiti con lotte secolari e riconosciuti nelle Carte dell’ONU, dell’UNESCO
e dell’Unione Europea.
Pur sostenendo la libertà di pensiero, i laici sono
intransigenti nel combattere i comportamenti ispirati al razzismo, al fascismo,
al sessismo e ad ogni forma di pensiero autoritario e totalitario (i limiti
della tolleranza sono definiti solo dall’intolleranza altrui).
Essere laici significa riconoscere la pluralità
degli individui e dei gruppi come struttura irriducibile e costitutiva della
realtà umana. E il rispetto per la pluralità implica non la sopportazione
dell’opinione altrui, ma il pieno e positivo riconoscimento della diversità. La
laicità sostiene la diversità culturale contro l’uniformazione ―
economica, linguistica, sociale. Questa posizione non implica però
l’accettazione acritica di ogni cultura: «non tutto è da rispettare in ciò che
si propone come cultura» (Pena-Ruiz). Un pericolo che corrono le attuali
società è quello della "sommatoria multiculturalista" che tende a
sfaldare il tessuto civile in comunità autoreferenziali, tendenzialmente integraliste.
Il singolo è protetto solo se esiste uno spazio pubblico che lo tutela contro
le pretese delle comunità e garantisce il diritto dell’individuo a vivere come
crede più opportuno la sua eventuale "appartenenza" o "non
appartenenza".
Laicità dello
Stato
Uno Stato non privilegia nessuna posizione
filosofica o religiosa, tutela la libertà di ognuno e garantisce parità di
trattamento per tutti i cittadini indipendentemente dalle posizioni politiche,
dalle credenze religiose, dagli orientamenti sessuali.
Noi siamo per la completa separazione delle
istituzioni pubbliche rispetto alle associazioni confessionali che appartengono
alla sfera della società civile, dove le diverse concezioni del mondo possono
competere liberamente.
Pretendere di imporre, attraverso leggi dello Stato,
particolari sistemi di valori e scelte etiche (e bioetiche) a chi non le
condivide è clericalismo. Pretendere posizioni di privilegio per determinate
confessioni religiose maggioritarie (in Italia, per esempio l’insegnamento
della religione cattolica nella scuola dello Stato).
La sfera dei diritti fondamentali,
costituzionalmente protetta, deve essere sottratta al principio di maggioranza
e alle imposizioni delle maggioranze.
L'ascolto e
l'apertura verso gli altri
La laicità si oppone anche alla tirannia della
"legge del mercato" che sfrutta a fini privati non solo gli esseri
umani, ma anche le risorse naturali del pianeta. Occorre promuovere un futuro
dell’umanità fondato sulla solidarietà e sulla cooperazione, sulla creatività e
sul pieno sviluppo della persona per dare ai cittadini un autentico potere di
decisione e di azione nella propria realtà sociale e culturale.
L’istruzione è un diritto per tutti. Deve essere
pubblica e svincolata dalla logica del mercato che cerca di condizionare l’insegnamento
e di piegarlo agli interessi ed all’ideologia dei gruppi economici dominanti,
introducendo modelli mercificanti e aziendalistici nel settore dell’educazione.
La democratizzazione della cultura e dell’educazione
non deve andare nella direzione del consumo di massa di prodotti scadenti e
standardizzati, ma deve favorire lo sviluppo di ciascuno mettendo a
disposizione mezzi e strumenti necessari alla costruzione di uno sguardo
critico sulla propria cultura e su quella altrui, formando ragazzi ed adulti
all’ascolto ed all’apertura verso gli altri.
La scuola pubblica è il reale spazio di confronto e
di crescita di una collettività: è il luogo dove le diverse posizioni possono
emergere, riconoscersi, confrontarsi. Per questo, mentre respingiamo ogni pressione
per il finanziamento statale delle scuole private, siamo convinti che la scuola
pubblica debba avere tutto il sostegno, finanziario e culturale, per svolgere
la sua funzione democratica, laica e pluralista, nella quale tutti possano
riconoscersi.
Il respiro
della scuola
L’ambiente
naturale e culturale che circonda una scuola, la sua dimensione ravvicinata
regionale, non possono ridursi a bacino d’utenza, cioè ad un servizio reso a
una committenza locale. Più si approfondisce il discorso sulla scuola, più si
allarga il suo orizzonte di riferimento ―
e si incontra in quello spazio istituzionale tutta la geografia culturale e di
storie del mondo
La scuola deve respirare
con tradizioni, economia, paesaggi che la circondano; offrire elaborazione del
sapere, ricevendo stimoli, supporto, risorse. E i segmenti finali della
formazione faranno riferimento a percorsi professionali che connotano il
territorio, tuttavia sapendo che sempre meno i destini lavorativi dei giovani
saranno circoscritti alla regione d’appartenenza. Sapendo che la formazione di
base è tutt’altra cosa, indirizzata ad un orizzonte gratuito del sapere, alla
cittadinanza, all’indipendenza personale: a tutt’altri territori insomma, molto più vasti e personali. Diversamente
“economici”.
Il livello regionale dovrebbe dialogare con quella
formazione estesa e profonda al non-regionale — perché ogni ambiente locale è
attraversato dalle reti globali, così come ogni discorso sulla globalizzazione
ha senso nella concretezza delle “ecosfere” ravvicinate che ne sono il
materiale e l’immaginario, l’oggetto e il soggetto.
Scuola
statale, non dello Stato
Nella crisi dello stato-nazione la questione della
scuola statale è una questione di garanzie:
garanzia della scuola come prerequisito della democrazia, connotata da
pluralismo, libertà e unitarietà; della laicità di una nuova sfera pubblica,
luogo di confronto fra soggetti e soggettività diverse, né giardino privato di
famiglia, né apparato burocratico, né scambio competitivo di mercato.
In un certo senso una scuola statale ma non dello Stato, che dovrebbe essere una
specie di “mediatore evanescente”: istituire le sue scuole come funzione della
collettività (e non servizio alla persona), per riconsegnarle immediatamente
alla società affinché siano pubbliche,
cioè della società aperta, pluralistica, organizzata e garantita da norme
generali per evitare esclusioni, recinzioni, enclosures…
Lo stato avrebbe allora il compito di garantire
un’istituzione sociale costituzionale, il luogo continuamente costituente di una cittadinanza senza
confini, nuova repubblica degli incontri; lo spazio aperto di un sapere
pubblico che ricostruisca la polis oltre gli stati-nazione e gli eserciti. Un
sapere che dovrebbe partire da pratiche d’insegnamento-apprendimento abbastanza
libere da essere dotate di senso; da esperienze e contenuti capaci di
trasmettere e costruire mondi comuni. Una scuola pubblica dove gli insegnanti
rivendichino come proprio ruolo la riflessione sul sapere; dove la dimensione
della relazione fra diversi/e connoti la vita, dove i contenuti non siano un repertorio
di tradizione semplicemente da trasmettere.
Il rischio
della scomparsa dell'agorà
Nella globalizzazione è il rischio di una
modernizzazione economicistica colonizzante la sfera del pubblico (e del
personale, tradotto in spettacolarizzazione del privato); rischio di scomparsa
dell’agorà, occupata dai supermercati
o dalle televisioni o dalle guerre, a protezione di solitudini lussuose e
patrie private.
Si deve allora lavorare a sottrarre: sottrarre il
sapere e l’istruzione dalla forma banale dello scambio di merci (strumentali
beni d’investimento pronti all’uso ― o addirittura all’usa-e-getta) per
farne un bene pubblico, politico, non disponibile. Liberare lo spazio dal
controllo disciplinante di un’organizzazione di prestazioni e standard
formativi; il tempo della formazione dai ritmi della produzione di
“occupabilità” e consenso.
Sul piano culturale bisognerebbe invece lasciarsi
attraversare: dai saperi, dalle etnie, dalle storie, dai desideri, dalle
domande, dai diversi generi e generazioni. Con l’insegnante mediatore culturale
tutt’altro che evanescente, perché parte (fisicamente, con la sua storia di
vita e di sapere, il suo sesso e la sua soggettività) della storia da
raccontare, della scena degli incontri.
Dentro la scuola sarebbe il transito — in uno spazio
pubblico senza confini — delle culture e delle diversità. E la tradizione, nel
confronto con, avrebbe la possibilità di un nuovo senso.
Studenti. Cittadine e cittadini
del pianeta
L'attenzione,
l'analisi e la riflessione sulla globalizzazione neoliberista hanno avuto un
merito per chi si occupa di educazione: aver rimesso sul tappeto questioni ― come cittadinanza, identità,
meticciato culturale; senso della collettività e della democrazia, modelli di
sviluppo, ambiente ― che
parevano chiuse o discusse solo da una ristretta cerchia di intellettuali. E ha
messo in discussione alcuni presupposti culturali occidentali; la visione della
storia e della geografia, la
concezione della scienza di insegnanti ed educatori
«La scienza
della natura non è che la scienza dei rapporti. Tutti i progressi del nostro
spirito consistono nello scoprire i rapporti. Ora... è manifesto che colui che
ignora una parte, o piuttosto una qualità, una faccia della natura, legata con
qualsivoglia cosa che possa formar soggetto di ragionamento, ignora una
infinità di rapporti, e quindi non può non ragionar male, non vedere falso, non
riscoprire imperfettamente, non lasciar vedere le cose le più importanti, le
più necessarie e anche le più evidenti». (Giacomo Leopardi, Zibaldone)
Ormai è chiaro che separare scuola e politica, mente
e natura, economia ed ecologia condanna le nuove generazioni alla pura
compatibilità, non apre orizzonti, non promette futuro. È urgente analizzare i
guasti ambientali, sociali e umani dell'attuale modello di sviluppo economico,
per modificarlo. L'idea, la stessa speranza, che possa esistere un mondo
diverso da questo passa dalla costruzione di un'altra scuola. Una scuola-spazio
pubblico dove si incrociano esperienze e storie, dove si incontrano generi,
generazioni e punti di vista diversi, luogo di incontro dal basso di laiche
identità capaci di convivere in una nuova realtà interculturale e mondialista;
una scuola davvero senza frontiere e contro tutti i fronti, dove le bambine e i
bambini, le ragazze e i ragazzi siano messi in condizione di autocostruirsi la
propria cittadinanza terrestre.
La scuola deve porsi in una prospettiva
ecosistemica. Essendo un luogo dove si trattano "cose vive" dovrebbe
contemperare rigidità e flessibilità, valorizzando il nuovo ―
l'immaginazione, la creatività ― e sottoponendolo al "filtro critico"
del rigore: quella componente che garantisce sia la persistenza del sistema
aperto a tutti, sia la natura e la qualità delle relazioni tra coloro che della
scuola fanno parte.
Come insegnava Bateson, occorre pensare la scuola
come una “struttura che connette” e che rallenta e accelera sapientemente i
processi di sviluppo in una logica di “relazione”. La scuola deve essere il
luogo dove le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi diventino cittadine e
cittadini del pianeta, consapevoli dell'intreccio tra economia, guerra, violenze
e povertà, e dove gli insegnanti pratichino l'"educazione civica"
evitando il rischio di un'educazione valoriale e moralista, puramente
esortativa, incapace di modificare i comportamenti, anzi con la dannosa
tendenza a consolidarli. Uno spazio che non espella il carattere unitario e complesso dell’esperienza che
non la tenga "fuori", nel mondo reale finendo per costruire un
sapere, buono solo per la scuola (un floppy mentale da tirare fuori giusto per
le domandine dei test cui offrire adeguate rispostine). A scuola vanno
affrontate difficoltà e problemi, oltre che “sentire” situazioni emotivamente.
La scuola può essere luogo dell’esperienza che partendo dalla problematicità
del concreto dà luogo al processo di pensiero, che comporta una riflessione, il
recupero di conoscenze, l’elaborazione di ipotesi per superare le difficoltà
che s’incontrano e la definizione di un piano di azione per verificare le
ipotesi che si sono formulate. «Una scuola tutta domande» da ammucchiare,
catalogare per affinità, accorpare», per lavorare a renderle sempre più chiare,
sforzarsi di capire quali sono quelle vere» (Domenico Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla
maleducazione di un insegnante volenteroso). Uno spazio dove domandare
sempre, senza farsi trattenere dall'«apparente assurdità delle […]
interrogazioni», perché «l'assurdo è quasi sempre una specialità delle
risposte» (Antonio Machado, Juan de
Mairena. Sentenze, arguzie, appunti e ricordi di un professore apocrifo).
Uno spazio che non riduca la complessità del mondo
reale con semplificazioni settoriali e fuorvianti anzi dove si insegnino dubbi,
incertezze, senso del limite. Non sono contenuti e discipline il cuore del
problema è l’attenzione che va spostata dai segmenti della conoscenza al quadro
complessivo, agli equilibri di sistema, alla dimensione dei processi, troppo
spesso espulsa dall’osservazione. Un sapere "ambientalista" riconosce
nuovi oggetti della conoscenza, a
partire dall'ecosfera che chiedono di non operare secondo la struttura separata
delle discipline e un nuovo stile, addirittura una nuova etica della conoscenza
responsabile.
Un sapere ambientalista riafferma la connessione tra
scienza ed umanesimo. «L’humus, le piante, i vermi, gli animali, i miti e le
belve feroci. Ognuno è chiaramente una varietà di qualcosa che non è tale, che
rimane accerchiato e non è ancora emerso. Ma la vita continua a pulsare da
quando, soprattutto al lavoro, è avvenuto il salto verso l’unico essere vivente
capace di trasformare. È l’uomo, è l’unico che inizia qualcosa senza essere
minimamente protetto sul piano organico, usando una nuova proiezione e una
nuova prospettiva, in una partenza formatrice di storia dei porcospini o delle
mucche in quindici volumi. Gli uomini sono molto pericolosi per la propria
specie come nessun altro animale per un altro. Ma sono anche in grado di
portare luce a questa specie... come nessun fuoco esterno può fare» sostiene
Ernst Bloch in Spirito dell'utopia.
Ma “centralità” dell’umanesimo non significa considerare la natura un semplice
strumento nelle mani dell’uomo. L’educazione ambientale può contribuire a
ripensare la concezione della “mentalità scientifica” e a sviluppare la cultura
scientifica, senza escludere il dubbio e la critica e senza contrapporre
scienza ed uomo.
La storia dell’uomo assume significato solo se
connessa alla storia della natura, se questa è ripensata nell’orizzonte di un
senso non distruttivo, né per la storia né tanto meno per l’ambiente.
Insomma la scuola che auspichiamo è una scuola da testa ben fatta, come quella proposta
da Edgar Morin, dove siano fondanti I
sette saperi necessari all'educazione del futuro tra cui "Insegnare l'identità
terrestre" e "L'etica del genere umano". E una scuola così si realizza solo in un ambiente
liberato dalle contraddizioni ecologiche ed economiche dello sviluppo
insostenibile.
La forma della
scuola
La maggior
parte dei centri di potere e di governo europei è impegnata in questa fase nel
tentativo di dare nuovo ossigeno a un modo di vita che le opinioni pubbliche
stanno invece riesaminando profondamente. Il dibattito ormai trentennale sulla
questione ecologica ha lasciato il segno della consapevolezza
Quello che è cambiato non sono i comportamenti, che
anzi hanno continuato a conformarsi alla rassicurante credenza occidentale della
crescita illimitata, bensì il modo in cui si guarda a se stessi, cioè appunto
la consapevolezza, o almeno il dubbio, di stare seguendo un modo di vita minato
al suo interno da contraddizioni troppo forti, e ora visibili, portatrici di
rischi davvero troppo alti in tempi relativamente brevi, così brevi da poterli
sperimentare personalmente.
La distanza, qualche volta abissale, tra questa
recente consapevolezza e la pratica quotidiana del consumismo esponenziale,
genera inquietudine, intollerabile inquietudine, persino presso quei ceti che
vediamo più accaniti e più cinici sul ponte di comando della nave. Non si
tratta soltanto del fatto che alcuni parametri biofisici sono evidentemente
fuori controllo, dal ciclo climatico alla riserva idrica, dalla biodiversità
alle fonti energetiche, dal capitale fotosintetico all’evoluzione del
tecno-genoma, con conseguenze che, per la prima volta, sono avvertite
nettamente da tutti, talvolta prima delle segretissime misure dei laboratori.
La nuova consapevolezza riguarda anche le conseguenze sociali del modello, e
genera inquietudine che non è soltanto paura, ma che ha una fortissima dimensione
etica e politica: troppo evidenti e intollerabili le diseguaglianze rispetto
all’acqua, al cibo, all’energia, e intollerabile il contesto di guerra che
“necessariamente” le sostiene e le estende.
Ancora più in profondità, cresce la consapevolezza
che il mito del consumo abbia alterato il rapporto (individuale e comunitario)
con la natura e che la specie si stia avviando a un destino di conflitto
permanente e sempre più violento con il resto del sistema vivente, uno scenario
in cui alla tecnica è affidata una “strategia difensiva nei confronti della
natura”.
Dall'inquietudine
al desiderio di cambiamento
L’inquietudine che attraversa in modo sempre più
diffuso le nostre società è un sentimento positivo, un segnale di reattività.
Occorrono nuovi strumenti di connessione tra le
persone e di navigazione nella complessità, strumenti democratici, autonomi,
efficaci, capaci di documentare i fenomeni, di potenziare la consapevolezza, di
trasformare l’inquietudine in desiderio di cambiamento. Noi pensiamo che la
scuola pubblica abbia il compito di ascoltare l’inquietudine che attraversa le
nostre società, di cercare instancabilmente alternative del modo di vita, di
scambiare in modo aperto con la società le buone idee che è capace di
elaborare. Ma anche di testimoniare fisicamente una alternativa possibile. L’ambiente scuola, cioè l’insieme delle
strutture, delle funzioni e delle relazioni che intervengono in una scuola,
deve e può essere un paradigma urbano, progettato e vissuto in modo da favorire
l’emersione dell’inquietudine e la crescita della consapevolezza. Un luogo di
progetto, in cui ci sia lo spazio, il tempo e il modo di cercare nuovi legami
con la natura, in cui gli stili di vita, le strutture, le forme organizzative
non siano parodie della realtà esterna, ma sensati esperimenti di armonia con
l’ambiente e tra le persone. Un’area franca dal consumismo materiale e
mediatico, luogo non inquinato e non inquinante, impermeabile alla
mercificazione, in cui sia protetto il pensiero libero, si possano adattare le
condizioni (spaziali, temporali) di studio a quel che si sta studiando e che si
vuole capire.
La
progettazione partecipata della scuola pubblica del futuro
Un obiettivo così grande non può certo essere di
breve termine.
Un punto di partenza utile ci sembra quello di
concentrarsi sulla “forma della scuola”, cioè sulle strutture che condizionano
materialmente la vita scolastica, un campo che, salvo esperimenti isolati, non
è stato finora considerato degno di alcuno sforzo progettuale (come invece
accade per le autostrade o i musei).
È necessaria una grande stagione di progetto (e una
parallela campagna di comunicazione), che veda insegnanti, studenti,
architetti, tecnologi, biologi, medici, studiosi della comunicazione mettere a
confronto idee sulla forma della scuola pubblica del futuro: i modi di una
progettazione “partecipata”, l’integrazione della scuola nel tessuto urbano, la
forma delle aule, degli edifici, i materiali, gli standard di qualità
dell’aria, dell’acqua, della luce, la qualità e quantità del “verde”, il ciclo
dei rifiuti, l’inquinamento attivo e passivo, il sistema energetico, il
riciclo, il sistema di comunicazione, la scansione dei tempi, la flessibilità
degli spazi, le condizioni materiali del benessere psicofisico. Questo è,
secondo noi, “investire nella formazione”.
Quali saperi
Nella
paradossale “società della conoscenza” i riformatori scolastici sono poco
interessati alle conoscenze, molto al management. Gli utenti sono i soggetti
egoisti, il mercato seleziona i migliori investimenti, gli insegnanti sono
tecnici comandati da strateghi aziendali puri, le conoscenze merci
intercambiabili.
In questa
società delle conoscenze intercambiabili un nuovo tipo di pedagogisti
costruisce schemi di competenze organizzative e docimologiche che possiamo
chiamare la neodidattica. La neodidattica si presenta come un metasapere, per
ciò stesso superiore e vincente
La neodidattica è il discorso dei tecnocrati che
soppianta quello degli intellettuali di vecchio tipo e afferma la flessibilità
del lavoro educativo standardizzato.
La neodidattica crea certezze illusorie di governo
del sistema. Ogni nuova maggioranza di governo impone nel sistema scolastico
“svolte epocali” che il più delle volte si rivelano concepite all’insegna
dell’improvvisazione, di luoghi comuni e del puro effetto mediatico. Un punto
chiave della neodidattica è l’autonomia delle istituzioni scolastiche (self-government) ma l’autonomia è
svuotata del suo significato logico di liberalizzazione e usata per imporre
altri vincoli, cioè un nuovo tipo di centralismo, di gerarchia e di
burocratizzazione del lavoro.
La neodidattica dei tecnocrati svaluta (con il
silenzio) i curricoli formativi sistematici e lenti e lunghi e il quotidiano
della scuola, li rende invisibili a favore di una proliferazione di progetti e
segmenti certificabili e componibili (e vendibili), tutti esaltati e messi in
vetrina. L’uso che viene fatto del Fondo Sociale Europeo sta dando un grosso
impulso in questa direzione.
Una simile concezione aziendale ed effimera della
formazione non si sconfigge tornando a una impossibile scuola delle nozioni,
una scuola-scuola in cui “la matematica è la matematica, la storia è la
storia”. Si tratta del contrario: proprio perché i saperi sono in una profonda
crisi di trasformazione e ridefinizione
è necessario che il discorso pubblico sulla scuola e sull’università sia
restituito a una discussione di merito.
Lo spazio della scuola è abitato da individui in
carne e ossa ― ragazze e ragazzi, uomini e donne ― portatori di
desideri, di domande di senso e di ricerca personale: non si tratta di
trasmettere dunque discipline tutte già compiute, ma di aprirne gli orizzonti
alle domande e ai desideri che possono investirle a partire dalle esperienze
vissute di generi e generazioni diverse. Senza paura di perdere il controllo
“tecnico” dei contenuti e dei processi.
Il tempo di lavoro contrattuale nelle scuole e
università deve prevedere consistenti margini per la ricerca, lo scambio
culturale, la programmazione. Nella scuola queste esigenze vengono affrontate
invece sempre di più dagli insegnanti come una sorta di infelice secondo lavoro
notturno, in solitudine e a margine delle prestazioni flessibili e crescenti
che gli vengono richieste.
Né à la page,
né anacronistica
Dall’altro lato non è l’essere a tutti i costi à la page
che salva la scuola, una certa misura di “anacronismo” è sana e ha un valore
educativo, e i più grandi anacronismi sono la lentezza, la gratuità, il
rapporto faccia a faccia, la lettura silenziosa. Questo stile di insegnamento è
già da qualche parte il risultato di una progettazione raffinata. Solo con una
simile progettazione, dal basso in alto e dall’alto in basso, è possibile anche
“domare la tigre” delle multinazionali che riplasmano la scuola attraverso le
tecnologie e stabilire una linea di confine tra formazione e addestramento, tra
gratuità e mercato, tra pubblico, privato e sociale, nella loro inevitabile
interazione, ma non confusione.
La confusione che domina oggi è soprattutto quella
sul rapporto tra formazione generale e formazione di indirizzo. Inoltre le
scuole si presentano sempre di più sulla scena con tecniche di marketing. È difficile che gli studenti
in questo contesto possano essere soggetti di scelte consapevoli, ma le
famiglie privilegiate per reddito, potere e cultura conservano ovunque un
istinto infallibile per i percorsi esclusivi (anche se magari dichiarati comprehensive e pubblici).
Scuola per
tutti
È evidente che siamo a favore di una scuola di base
uguale per tutti e di alta qualità e di percorsi successivi che abbiano pari
dignità e profilo significativo e lascino tutti aperto sia il passaggio
successivo alla formazione universitaria sia quello a corsi professionalizzanti
settoriali o alla formazione in azienda. Non si possono impedire per decreto le
uscite precoci (prima dei 18 anni) dal sistema scolastico verso la formazione
professionale, tuttavia i poteri pubblici, oltre a fissare per legge l’obbligo
formativo fino ai 18 anni, devono porsi l’obiettivo della formazione scolastica
(non professionale) estesa al numero più ampio possibile di giovani fino ai 18
e del superamento completo dell’uscita dalla formazione scolastica prima dei
sedici anni di età. Allora sì che l’inserimento di moduli professionalizzanti
nel percorso scolastico e universitario si potrà affidare alle decisioni locali
e al buonsenso.
I nemici del nostro ostinato illuminismo non stanno
solo in alto ma anche in basso, i soggetti che vogliamo “salvare” a volte non
ne vogliono sapere proprio di farsi “salvare” dalla scuola. Nelle scuole di
periferia avvengono i fenomeni degenerativi ben noti con l’ingresso nelle aule
della logica delle street gangs e si
innesca un circolo vizioso sabotaggio-sorveglianza-sabotaggio che distrugge a
livello molecolare il valore emancipativo dello studio e il benessere della
convivenza. Questi fenomeni hanno cause complesse, forse si può parlare di una
vera e propria forma di oscurantismo della società dei consumi in certi casi,
comunque possono essere affrontati solo da istituzioni scolastiche e insegnanti
che abbiano una forte e autonoma identità e per dirlo con un termine di moda mission.
Il centro
della scuola
Al centro del lavoro scolastico devono stare la
conoscenza del pianeta, della condizione umana e del sé, e la costruzione di
questa conoscenza attraverso pratiche significative ed elaborazioni teoriche.
Al centro deve essere la tensione etica che intreccia sapere ed esperienza
personale, ed interroga gli individui concreti nei loro rapporti e nel rapporto
col mondo.
Il discorso tecnocratico può passare se bambini e
bambine, ragazzi e ragazze restano tra loro indifferenziati in quanto
annichiliti nella memoria, resi sterili nell’immaginazione, desertificati nei
desideri, ridotti alla funzionalità dei processi. Ed allora la formazione ed i
saperi dovrebbero mirare al recupero del rapporto con la memoria, a valorizzare
immaginazione e creatività, alla espressione dei desideri di ciascuno e
ciascuna. Come forma pubblica e punto di partenza del fare scuola.
Il pensiero teoretico puro cioè la filosofia e certi
campi della pensiero matematico e della cosmologia è da salvaguardare nella
scuola senza che debba essere dato magari in piccole dosi a tutti quanti,
importante è che l’attitudine critica e intellettuale sia presente in qualcuna
delle sue varie forme in ogni indirizzo, ma i curricoli devono restare
essenziali. L’insegnamento deve comunque costruire la consapevolezza sui limiti
del processo conoscitivo umano e della scienza. Le aree espressive e artistiche
devono essere valorizzate sia come parte della formazione generale sia in
indirizzi specifici.
L’educazione ambientale non deve costituire né una
materia a se stante né un semplice discorso morale, ma strutturare i curricoli
― tutti quanti — con la stessa forza interdisciplinare dell’educazione
linguistica e dare un contributo fondamentale alla comprensione della
complessità.
Una questione di fondo è come fare un insegnamento
delle storie del pensiero non eurocentrico, senza rinunciare a nessuna delle
conquiste del pensiero europeo di cui possiamo non vergognarci. Questo è uno
dei motivi, e non l’ultimo, per cui è impossibile pensare all’insegnamento come
a un mero fatto tecnico.
La formazione tecnico-scientifica deve avere la
priorità e la precedenza su quella tecnico-professionale. Un insegnamento ricco
e sistematico mette i soggetti in grado di adattarsi bene alle innovazioni
(anche attraverso corsi brevi successivi e finalizzati) e, anche dal punto di
vista della logica del mercato del lavoro, evita le sterili compartimentazioni
e costituisce il possibile punto di convergenza tra il sistema produttivo
capitalistico e quello della formazione dell’individuo e del cittadino. La
scuola — come tutto lo stato sociale — deve essere un luogo di sintesi tra
varie esigenze nella “società aperta”, il sistema economico deve venire
costretto a confrontarsi con l’autonomia del politico e con cittadini dotati di
un “sovversivo” — ma anche produttivo — eccesso
culturale.