LE MONDE diplomatique - Marzo 2002

 

 

 

 

fremiti pacifisti nella bufera mediorentale
Il grande rifiuto dei riservisti israeliani


Nonostante le speranze suscitate alla fine di febbraio dalle proposte saudite per una soluzione globale del conflitto mediorientale, l'intransigenza di Ariel Sharon rende improbabile un ritorno alla calma in Cisgiordania e Gaza. Mentre nei Territori occupati infuria la repressione israeliana, aumenta il senso di frustrazione e di abbandono dei palestinesi e si moltiplicano gli attentati suicidi contro i civili nello stato ebraico. In questa situazione disperata, alcuni gruppi contrari alla politica di Sharon cercano di far sentire la propria voce. Tra questi, il più rilevante è senza dubbio quello dei riservisti israeliani che hanno annunciato il loro rifiuto di prestare servizio nei Territori. Sostenuti da un terzo della popolazione, questi refusnik hanno contribuito a rilanciare il dibattito sul comportamento delle truppe di occupazione.

di JOSEPH ALGAZY *
«Noi, ufficiali e soldati riservisti membri di unità combattenti delle forze della difesa di Israele, cresciuti secondo i principi del sionismo, del sacrificio e della devozione al popolo e allo stato di Israele, noi che abbiamo sempre operato sulla linea del fronte e che siamo stati i primi a compiere qualsiasi missione, facile o improba, per difendere lo stato di Israele e per rafforzarlo (...). Noi che abbiamo sentito come gli ordini che abbiamo ricevuto nei Territori distruggono tutti i valori che ci sono stati inculcati in questo paese. Noi che comprendiamo che il prezzo dell'occupazione è la perdita del carattere umano di Tzahal [l'esercito di Israele] e la corruzione morale di tutta la società israeliana. Noi che sappiamo che i territori non sono Israele, e che alla fine tutte le colonie dovranno essere evacuate (...). Noi non combatteremo più al di là delle frontiere del 1967 per dominare, scacciare, affamare e umiliare un intero popolo. Noi dichiariamo che continueremo a servire in Tzahal e a compiere qualsiasi missione che servirà alla difesa dello stato di Israele. Le missioni di occupazione e di repressione non servono a tale fine - noi non vi parteciperemo più».
«Il vessillo nero dell'illegalità» Pubblicata per la prima volta come inserzione a pagamento sul quotidiano Haaretz il 25 gennaio scorso, questa petizione, allora firmata da 52 ufficiali riservisti (1), si è estesa a macchia d'olio. All'inizio di marzo aveva raccolto 313 firmatari. In totale, dall'inizio dell'Intifada, nel settembre 2000, sono quasi 500 i riservisti che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori occupati. E 46 riservisti o soldati obiettori sono finiti in carcere. A questi bisogna aggiungere i 200 soldati convocati dai Comitati di coscienza dell'esercito. Nel frattempo, il movimento del seruv (rifiuto) ha provocato una scossa a tutti i livelli della società israeliana, a cominciare dall'esercito, e ha scatenato un vasto dibattito addirittura all'interno della Knesset, il Parlamento israeliano.
Sempre il 25 gennaio, il quotidiano Yedioth Aharonot pubblicava le testimonianze di alcuni riservisti. Il riservista Ariel Shatil, sottufficiale di artiglieria, raccontava come aveva scoperto che alcuni soldati della sua unità facevano il tiro al bersaglio su degli innocenti.
Il sottotenente dei paracadutisti David Zonshein aveva visto i suoi compagni impadronirsi con la forza di alcune case e distruggerle.
Il sottotenente di artiglieria Ishal Sagi era stato inviato a difendere alcuni coloni che picchiavano i palestinesi e davano fuoco alle automobili in Cisgiordania. Il sottufficiale dei paracadutisti Shoki Sadé aveva inteso alcuni soldati del suo battaglione raccontare con indifferenza come avevano ucciso un ragazzino a Khan Younes. Sionisti impegnati, questi quattro veterani delle guerre condotte da Israele in Libano sono pronti a fare il loro servizio da riservisti, ma non nei Territori occupati in cui, come spiega il giornale, «sentivano di perdere la loro umanità. Da allora, non sono più disposti a tacere. Il loro scopo: creare un movimento di rifiuto popolare che sia in grado di trasformare l'ordine delle priorità nazionali».
Nessuno o quasi, in Israele, era tanto ingenuo da credere che l'esercito potesse soffocare la rivolta palestinese senza commettere crimini di guerra. Perfino il ministro dei trasporti, l'ex generale di brigata Ephraim Sneh, sei mesi dopo l'inizio dell'Intifada aveva messo in guardia pubblicamente sui pericoli di una escalation: «Sharon - aveva affermato - potrà andare al Tribunale internazionale dell'Aja senza di me (2)», ma c'è voluto molto tempo perché l'opinione pubblica si facesse un'idea più precisa delle malefatte dell'esercito nella sua guerra contro i palestinesi, malefatte che hanno toccato il culmine verso la metà del gennaio scorso, con la distruzione di decine e decine di case di civili a Rafah, a sud della striscia di Gaza. Le successive smentite dell'alto comando non hanno convinto nessuno.
Una settimana prima a Tel Aviv c'era stato un convegno sul tema: «Hai preso la strada dell'Aja?» Ex colonnello, ex pilota di guerra, prigioniero di guerra dopo che il suo apparecchio era stato abbattuto in Egitto nell'agosto del 1970, durante la «guerra di logoramento», il medico Igal Shohat alludeva alla sentenza della Corte che aveva condannato alcuni responsabili del massacro di Kfar Kassem (29 ottobre 1956) e legalizzato il rifiuto di obbedire a ordini illegali. «Uccidere intenzionalmente i civili è un crimine di guerra», affermava. E chiamava i soldati a non prestare servizio nei territori occupati, i piloti a rifiutare di bombardare le città e i conducenti di bulldozer a non distruggere più le case - insomma invitava tutti a disobbedire agli ordini «ammantati del vessillo nero della illegalità». «C'è gente - aggiungeva - che non si accorge mai della presenza del vessillo nero, neppure quando si assassina un arabo legato mani e piedi. Vi sono altri che se ne accorgono soltanto quando diventano vecchi.
Come me. Quando ero un giovane pilota, non andavo tanto per il sottile sulla scelta dei mezzi (3)».
Nel fervore della polemica, il generale Ami Ayalon, ex capo della marina militare e soprattutto ex capo dei servizi di sicurezza, lo Shin Bet, rimase stupito del fatto che «pochissimi soldati disobbediscono a ordini palesemente illegali. Quando si uccidono bambini inermi, si esegue un ordine illegale (4)». È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, scatenando le ire dell'establishment politico-militare, deciso a spezzare le reni al movimento. Il generale Shaul Mofaz, capo di stato maggiore, ha avvertito tutti i firmatari della petizione che sarebbero stati portati di fronte alla corte marziale e puniti, se si fossero ostinati a rifiutare di prestare servizio nei territori occupati. Il suo predecessore, il generale Amnon Lipkin-Shahak, da parte sua ha definito tale rifiuto una breccia che minaccerebbe di far crollare la «muraglia» dello Stato di Israele (5).
Il movimento è iniziato in Israele alla fine degli anni '70, allorché alcuni soldati rifiutarono, individualmente, di prestare servizio nei Territori occupati, e successivamente in Libano. Non potevano certo immaginare che i loro figli si sarebbero trovati, anni dopo, in una situazione analoga. Nell'aprile del 1970, durante la guerra di logoramento tra Israele e l'Egitto, un gruppo di liceali, alla vigilia della loro mobilitazione, indirizzò una lettera aperta al primo ministro Golda Meir, chiedendole di non respingere una qualche possibilità di pace. Nell'estate del 1980, ventisette giovani annunciarono al ministro della difesa Ezer Weizmann che rifiutavano di prestare servizio nei territori occupati - e alcuni di loro furono condannati a pene di carcere duro. Nell'estate del 1983 altri giovani decisero di non andare in Libano e crearono l'associazione Yesh Gvul (C'è un limite) che è attiva ancora oggi.
Il primo a incoraggiare gli obiettori di coscienza era stato il professore Yechayahu Leibowitz (1903-1994), che nel lontano maggio 1969 mise in guardia Israele dai pericoli dell'occupazione dei territori arabi e il dominio di centinaia di migliaia di arabi. Per lui la Grande Israele non era altro che un «mostro catastrofico» che avrebbe potuto «pervertire l'uomo israeliano e annientare il popolo ebraico, avvelenando la sua educazione» e «danneggiando la libertà di pensiero e di critica (6)». Anni dopo assicurò: «Dico che quei giovani obiettori di coscienza sono veri eroi di Israele perché rifiutano di obbedire al potere e al comando dell'esercito. Cioè due istituzioni legali i cui ordini trasformano il carattere dello Stato di Israele, che non è stato creato per dominare un altro popolo. Da organismo politico dell'indipendenza nazionale del popolo ebraico, i leader civili e militari vogliono trasformarlo nell'apparato repressivo di un potere ebraico violento contro un altro popolo, al fine di imporre un pugno ebraico, in un guanto di ferro americano, su tutti i territori al di là della "Linea verde" (7)».
Associazioni in lotta contro Sharon Dall'inizio della repressione dell'attuale Intifada, Yesh Gvul ha sostenuto i soldati che rifiutavano di prestare servizio nei territori occupati nello stesso momento in cui, mentre il loro numero aumentava costantemente, molti sono stati condannati a pene di carcere duro.
Ma l'associazione ha anche condotto una campagna sul tema «La guerra per la difesa delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gaza e dei loro accoliti non è la nostra guerra» e ha proposto ai soldati di firmare una petizione con cui dichiaravano di rifiutarsi di partecipare alla repressione del popolo palestinese e di prendere parte alle operazioni di vigilanza delle colonie ebraiche (8). Nel dicembre 2001, Yesh Gvul si è spinto ancora oltre, ricordando ai soldati che «sparare su civili disarmati, bombardare quartieri abitati, partecipare alle "esecuzioni mirate", distruggere case, privare di provviste, cibi e cure mediche, distruggere imprese, vuol dire commettere altrettanti crimini di guerra». E esortava i coscritti e i riservisti a rispondere: «Io, no!»(9).
Una nuova associazione - Profilo nuovo per la società civile - ha divulgato fra l'altro una petizione di alcuni giovani liceali, che hanno scritto al primo ministro, al ministro della difesa e al capo di stato maggiore per condannare la politica aggressiva e razzista del governo e dell'esercito e per annunciare che si rifiutavano di partecipare alla repressione del popolo palestinese (10). Nel gennaio 2002, due dei firmatari sono finiti in un carcere militare.
Il rifiuto, come si vede, non è più un fenomeno marginale. Non soltanto si è amplificato, ma si estende a nuovi ambienti, coinvolgendo unità dell'esercito regolare, in particolare quelle dei riservisti, e non solo i soldati semplici, ma anche gli ufficiali. Al di là dei giovani di estrema sinistra, dei non sionisti e dei pacifisti, il rifiuto si estende fra gli israeliani che si definiscono sionisti e che, fino a tempi recenti, contribuivano al consenso nazionale sul tema: «Right or Wrong, my Country».
La vigorosa crescita del movimento rispecchia un'evoluzione più generale dell'opinione pubblica israeliana. Numerosi cittadini non vogliono più partecipare alle violazioni commesse nei territori occupati.
Altri, in linea più generale, rifiutano la politica del governo attuale in tutti i settori, anche in ambito economico e sociale. Alcuni provano paura e angoscia di fronte sia alla resistenza armata dei palestinesi che agli attentati suicidi terroristici contro i civili. Molti di coloro che l'anno scorso hanno dato il proprio voto ad Ariel Sharon sono delusi del fatto che quest'ultimo non abbia minimamente mantenuto la sua promessa di dare al paese la pace e la sicurezza. Alcuni elettori laburisti considerano un tradimento il fatto che alcuni leader del loro partito, partecipando al governo, si facciano in qualche modo garanti dell'avventurismo di Sharon. Altri se la prendono più in generale con il fallimento della sinistra, che non ha saputo - o voluto - mobilitare l'opinione pubblica contro la politica disastrosa del governo attuale come di quello precedente. Le critiche non risparmiano certo i media che, in massima parte, assumono un atteggiamento servile di fronte alle autorità, invece di garantire la loro missione di onesta informazione dei cittadini (11). È questo il vuoto politico che tenta di colmare un movimento contestatario, composto sostanzialmente da associazioni di difesa dei diritti umani (come Medici per i diritti dell'uomo, Rabbini per i diritti dell'uomo, il Comitato contro la distruzione delle case, Betselem, il Centro d'informazione per i diritti dell'uomo nei territori occupati, Gush Shalom) a cui si è aggiunto un nuovo gruppo arabo-ebraico: Taa'yush, che in arabo vuol dire «vivere insieme».
Ponti di solidarietà Taa'yush è nato dopo lo scoppio dell'Intifada al-Aqsa. Nel giro di pochi mesi, questa Intifada è riuscita a mobilitare una nuova generazione di giovani militanti per attività da svolgere sia in Israele che nei Territori occupati. Segnati dai tragici eventi dell'ottobre del 2000, che videro l'assassinio per mano della polizia israeliana di tredici cittadini arabi, questi giovani avevano deplorato l'assenza di un gruppo d'azione militante arabo-ebraico che sfidasse la politica di razzismo e di segregazione. Nasce da qui l'obiettivo di Taa'yush: portare avanti azioni di massa non violente, su base locale e su problemi concreti e creare in tal modo una prassi politica alternativa arabo-ebraica. Intende porre fine alla demonizzazione dei palestinesi e costruire ponti di solidarietà per il presente e per il futuro.
Secondo i componenti di Taa'yush, per vincere la paura e il razzismo bisogna creare una solidarietà diretta, una alleanza a livello di base.
A tutt'oggi, l'associazione ha organizzato otto convogli per portare viveri nei villaggi palestinesi assediati. Composti di camion e di auto private, questi convogli sono stati organizzati in coordinamento con militanti palestinesi locali. Non sempre sono riusciti a passare indenni i blocchi stradali di Tsahal, che a volte ha addirittura tentato di impedire loro con la forza - ma invano - di raggiungere i partner palestinesi. L'estate scorsa, 400 militanti dell'associazione avevano partecipato a un campo di lavoro misto di tre giorni nel villaggio arabo-israeliano di Dar al-Hanoun, in cui avevano riparato una strada e costruito un campo giochi per i bambini (12).
Se, per mesi e mesi, il governo e l'esercito israeliano hanno potuto infierire sui palestinesi dei territori occupati senza incontrare una resistenza significativa nella società israeliana, questa pagina nera sembra ormai appartenere al passato. Esiste un movimento pacifista che si oppone sempre più decisamente a questa politica avventurista.
Ed è un movimento foriero di speranze: con lui potrebbe finalmente spuntare, in fondo al tunnel, quel barlume di luce che è necessario a Israele non meno che alla Palestina.


note:

* Giornalista, Tel Aviv.

(1) www.seruv.org.il. Per il testo completo della petizone in italiano si veda il manifesto del 26 gennaio 2002. Per chi volesse sostenere i riservisti israeliani il manifesto ha messo a disposizione un conto alla Banca popolare etica: c/c 111200 intestato a Il manifesto coop.
ed. ABI 05018 CAB 12100; causale: per i soldati che dicono «No» a Sharon.

(2) Yediot Aharonot, Tel Aviv, 20 aprile 2001.

(3) Haaretz, Tel Aviv, 18 gennaio 2002. Salvo indicazione contraria, tutte le citazioni provengono da Haaretz.

(4) Primo canale, 1° febbraio 2002.

(5) Secondo canale, 2 febbraio 2002.

(6) 16 marzo 1969.

(7)Yechayahu Leibowitz, La mauvaise conscience d'Israel, Entretiens avec Joseph Algazy, Le Monde-Editions, Parigi, 1994.

(8) 1° dicembre 2000.

(9) 9 dicembre 2001.

(10) 6 settembre 2001.

(11) Le Monde, 10-11 febbraio 2002.

(12) www.Taayush.tripod.com.
(Traduzione di R. I.)

 

 

L’appello del gruppo di riservisti “Courage to Refuse”

 

Ÿ         Noi, ufficiali della riserva delle Forze Armate Israeliane, educati ai principi del Sionismo, al sacrificio ed all’abnegazione verso il popolo e lo Stato di Israele, che siamo stati in prima fila al fronte portando a termine ogni missione, fosse essa facile o difficile, per proteggere e rafforzare lo Stato di Israele;

Ÿ         Noi, ufficiali e soldati che abbiamo servito per lunghe settimane ogni anno, incuranti delle conseguenze sulla nostra vita privata, siamo stati di servizio in tutti Territori Occupati, dove ci sono stati impartiti ordini e direttive che non avevano niente a che vedere con la sicurezza del nostro paese, ed avevano come unico fine la perpetuazione del nostro controllo sul popolo palestinese;

Ÿ         Noi, che abbiamo visto con i nostri occhi il tributo di sangue che l’Occupazione esige da ambo le parti;

Ÿ         Noi, che ci siamo resi conto di come gli ordini che ci venivano impartiti nei Territori distruggevano tutti i valori cui eravamo stati educati;

Ÿ         Noi, che comprendiamo come il prezzo dell’Occupazione sia la perdita di ogni dignità umana delle Forze Armate Israeliane e la corruzione della società israeliana;

Ÿ         Noi, coscienti che i Territori non appartengono ad Israele e che le colonie dovranno essere prima o poi smantellate,

 

dichiariamo con la presente lettera:

 

Ÿ         che non combatteremo questa Guerra per le Colonie;

Ÿ         che non continueremo a combattere nei territori al di là delle frontiere del 1967 per dominare, espellere, affamare ed umiliare un intero popolo;

Ÿ         che continueremo a servire nelle forze armate israeliane in qualsiasi missione che sia realmente finalizzata alla difesa di Israele, e che non essendo le missioni di occupazione e di oppressione finalizzate a questo, noi non vi prenderemo parte.

 

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