Governare il futuro della scuola

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Andrea Ranieri, responsabile del Dipartimento “Sapere, formazione, cultura” dei Democratici di sinistra


I contributi che troverete in questo numero de Le scienze dell’uomo-Quaderni, pubblicato dall’Editoriale Il Ponte, testimoniano del lavoro politico intrapreso negli ultimi due anni dal nostro Partito e dai soggetti associativi, sindacali e di movimento, con i quali abbiamo costruito relazioni, confronto, iniziative comuni. Sono materiali in progress, esprimono a volte punti di vista diversi e articolati, ma tutti contengono elementi decisivi per delineare il futuro della nostra scuola. Ciascun contributo sottolinea quale sia stata la nostra priorità di fase: combattere l’ideologia e la pratica della “deforma” morattiana, senza perdere la prospettiva di cambiamento e di riforma, costruendo un punto di riferimento per quanti - nella scuola e fuori di essa - hanno continuato a pensare e a praticare l’innovazione e la sperimentazione.

Siamo forse stati i primi a denunciare il carattere ideologico della legge Moratti. Due ideologie - da un lato, quella del mercato, come regolatore di ultima istanza di tutti i rapporti economico-sociali; dall’altra, quella abbracciata da parte del mondo cattolico e imperniata su una scuola come funzione puramente sussidiaria della famiglia - hanno orientato le scelte del Ministro. Due ideologie - si è rivelato ben presto - senza alcuna rispondenza nella realtà sociale ed economica del nostro Paese, che non conosce né un mercato “sensibile” al bene istruzione (i bambini e i ragazzi sono un mercato coltivato dall’imprenditoria, più per la loro propensione al consumo che per i loro bisogni di formazione), né una famiglia disposta ad assumersi la piena responsabilità della educazione dei propri figli (indagini sociali e la pratica di coloro che nella scuola vivono e lavorano indicano casomai un eccesso di delega alla scuola da parte delle famiglie).

Al pari di altre promesse del Governo Berlusconi, l’ipotesi strategica della Moratti è apparsa non solo iniqua - il mix di familismo e liberismo produce una scuola che tende a rispecchiare le differenze socio-economiche delle famiglie, più che essere occasione di equità e mobilità sociale - ma anche irrealizzabile, incapace sia di produrre un orizzonte di senso credibile, sia di mobilitare dentro e fuori la scuola le energie necessarie a sostenerlo.

Quello che è apparso chiaro è che quelle ideologie servivano e servono a coprire un’azione sistematica di disinvestimento nella scuola pubblica, una riduzione dell’offerta formativa per tutti che per di più non veniva compensata da niente e da nessuno.

Ma non basta, la legge Moratti è apparsa ben presto per quel che era: una messa a regime di una scuola più povera e più rigida, risultata dai pesanti e scriteriati tagli delle prime due finanziarie del centrodestra. Una prospettiva di questo genere mentre non fa fatica a trovare gli oppositori - gli insegnanti più motivati e coinvolti; i genitori che chiedono più scuola e di migliore qualità per i loro figli; le forze politiche e i movimenti che hanno individuato nella conoscenza il fattore decisivo per la crescita economica e la coesione sociale del Paese; e quanti, dentro e fuori la scuola, più semplicemente si aspettano dall’istruzione percorsi certi e trasparenti -, non trova anzi riduce drasticamente nel tempo, i sostenitori, sempre più delusi e incerti sulla bontà e sulla praticabilità del percorso intrapreso.

Ciò ha prodotto sul terreno delle politiche scolastiche un paradosso eclatante: i valori del mercato e del familismo, della scuola-azienda e della centralità delle scelte genitoriali, sono stati imposti con un centralismo inusitato. Centralismo rivelato da una mobilitazione senza pari delle risorse burocratiche e amministrative: circolari, grida ministeriali e dirigenziali, accompagnate - questa è forse l’unica novità “imprenditoriale” - da tecniche di marketing e strategie pubblicitarie su cui si è impegnata una mole di risorse enorme, e del tutto stridente con il disinvestimento reale sulla scuola pubblica.

L’enfasi mediatica non ha coperto il disastro, anzi l’ha enfatizzato, diventando essa stessa un punto di riferimento del coagularsi di un’opinione pubblica sempre più ostile alle politiche del Governo. Non stupisce, quindi, che la scuola sia stata nelle ultime elezioni uno dei terreni fondamentali di erosione del consenso al governo di centrodestra, e di crescita dell’attenzione verso le iniziative e le proposte del centrosinistra.

La scuola è stata, come le prime analisi sui flussi elettorali dimostrano, uno dei terreni fondamentali su cui si è determinato questo cambio di orientamento politico, e perciò rilevante è la nostra responsabilità a definire rapidamente un coerente quadro di proposte in grado di orientare oggi la nostra iniziativa per ridurre i danni che l’azione del Governo in carica ha fatto e fa nella scuola pubblica, e delineare le idee forza che animeranno la nostra azione di governo futuro.

Sul primo punto occorrerà mettere a frutto il grande cambiamento di rapporti di forza che le ultime elezioni hanno determinato negli organismi nazionali di coordinamento delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Le difficoltà del governo di centrodestra nella Conferenza Stato-regioni allargata sono destinate ad aumentare, e pare estremamente difficile per il Governo il varo condiviso dei decreti ulteriori, a partire da quelli sul diritto-dovere all’istruzione e sull’alternanza scuola-lavoro.

La Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità del decreto sulla scuola di base, che palesemente viola il principio dell’autonomia scolastica e le competenze costituzionalmente affidate alle Regioni e al sistema degli Enti locali. Il percorso della Moratti è da questo punto di vista al palo. È possibile e opportuna un’iniziativa politica, che parta dal sistema delle Regioni e dalle autonomie locali, volta a rimettere sul tavolo, anche prima della sentenza della Corte Costituzionale, lo stesso decreto sulla scuola di base, sia per rimuovere le palesi lesioni al dettato Costituzionale provocate dalla decretazione del Governo, sia per dare legittimità alle scuole che si sono opposte alla passiva attuazione del decreto, rivendicando i propri spazi di autonomia nelle questioni decisive dei programmi, dell’organizzazione dell’attività scolastica, della stessa differenziazione delle figure professionali.

Un’iniziativa di questo genere può collegarsi e dare forza alla stessa riapertura di trattative con le organizzazioni sindacali - a cui il Governo è stato costretto dal movimento - su questioni nodali come quella del tutor. È chiaro che la responsabilità di una scelta di questo tipo è del sistema delle Regioni e degli Enti locali, nella loro autonomia e nelle sedi istituzionali proprie. Come forza politica ci spetta però segnalare come grande sia l’aspettativa del mondo della scuola perché la vittoria elettorale, a cui questo mondo non poco ha contribuito, determini ora un cambio di orientamento che metta il più possibile al riparo la scuola italiana dall’ideologia e dalla pratica del Governo di centrodestra.

C’è in questa aspettativa qualcosa che riguarda anche il nostro futuro programma di governo.

L’alleanza fra scuola dell’autonomia e il sistema delle Regioni e delle autonomie locali può essere il perno della nostra idea di governo del sistema, contro il “combinato disposto” di centralismo e devolution, che distrugge sia il carattere nazionale della scuola, sia le possibilità di autogoverno delle scuole dell’autonomia.

Occorre, per questo, mutare radicalmente il punto di vista da cui fino a oggi il problema è stato affrontato: la spartizione dei poteri fra centro e Regioni sulla testa delle scuole, i cui spazi di progettazione autonoma si svuotano man mano che si definiscono i poteri del centro e dei nuovi soggetti. I programmi di Bertagna, la quota di essi affidata alle Regioni, le opzioni dei genitori, sono tante ferite inferte alla scuola come comunità educante, alla sua possibilità di essere protagonista del proprio progetto educativo.

Occorre partire invece dalla scuola dell’autonomia e definire a partire da lì la dislocazione dei poteri fra centri e sistema degli Enti locali più funzionale allo sviluppo dell’autonomia stessa. Nella scuola, come del resto in tutti i settori dell’economia e della società, non solo la Moratti, ma nemmeno il riformismo può più calare dall’alto. Il compito fondamentale che ci sta davanti è quello di mettere il più possibile nelle mani delle persone, nella loro “responsabilità”, il percorso di trasformazione.

Se è così al governo centrale spetterà il compito decisivo di definire gli obiettivi e gli standard da perseguire su tutto il territorio nazionale e gli strumenti di valutazione e di implementazione necessari al conseguimento degli obiettivi stessi.

Alle Regioni spetta la programmazione e l’integrazione dell’insieme dell’offerta formativa presente sul territorio, ma anche il compito di costituire le interfacce necessarie al dialogo fra la formazione e le domande del mondo del lavoro, in una prospettiva di formazione che accompagni le persone per tutto l’arco della vita.

Alle Province e ai Comuni, oltre alle funzioni che le Regioni delegheranno loro e a quelle esplicitamente previste dal titolo V della Costituzione, spetta di essere il supporto attivo al costituirsi dalla rete delle scuole, di costruire i collegamenti tra le scuole e i saperi del territorio, essenziali per affrontare le questioni decisive dell’ inclusione dei soggetti più deboli, della multiculturalità, dei nessi fra la scuola e le culture del mondo.

Se questo è il quadro poche, semplici e chiare sono le norme che il futuro Governo di centrosinistra dovrà varare, per rovesciare il progetto del centro destra e rimettere in moto il processo di cambiamento di cui la parte migliore della scuola italiana è protagonista.

·       Investire con forza sulla qualità e sul valore educativo delle esperienze formative nella fascia 0-3 anni, per dare risposta alle esigenze delle famiglie che stanno alla base della spinta all’anticipo nella scuola dell’infanzia, e per rispondere alle richieste della Conferenza di Lisbona che inizia proprio da lì la costruzione dell’Europa come società della conoscenza. Si tratta insomma di rovesciare la logica che, sulla base della spinta di un bisogno insoddisfatto delle famiglie, tende a trasformare la scuola dell’infanzia in un servizio a domanda individuale, per affermare il diritto dei bambini a un’esperienza educativa a partire dai primi mesi di vita. È questo anche il modo migliore per difendere e valorizzare il profilo educativo della scuola dell’infanzia, che è oggi il pezzo migliore del sistema formativo italiano.

·       Rafforzare il valore educativo della “comprensività” nella scuola primaria, per riassorbire per questa via, in una prospettiva educativa non basata sulla semplice domanda delle famiglie, la stessa questione dall’anticipo nell’iscrizione alle Elementari. Affrontando, nel contempo, il problema più grave della nostra scuola: quel salto brusco e non guidato fra la scuola elementare e la scuola media inferiore, in cui si annida la causa fondamentale sia del peggioramento delle capacità di apprendimento di tutti i nostri bambini, sia la prima, netta differenziazione dei livelli di apprendimento sulla base delle condizioni socio-culturali delle famiglie di provenienza.

·       Riportare in vigore l’art. 130 del Testo Unico che regolamenta il tempo pieno, nella prospettiva della sua estensione.

·       Riaffermare il valore dell’obbligo scolastico, a partire dal suo innalzamento al biennio della Superiore attraverso una sua profonda riforma, che permetta di accogliere e valorizzare le intelligenze diverse, i nuovi modi di esplorare il mondo degli adolescenti. Si tratta di ridare spazio e respiro alle esperienze della scuola italiana che si sono confrontate con il problema della dispersione scolastica nei primi anni delle superiori, anche in forma di integrazione con la formazione professionale, sia prima che dopo la Legge 9 del Governo di centrosinistra, e alla cultura di governo con cui tante Regioni e Province le hanno sostenute.

·       Superare la rigidità del “duale”, affermando il valore degli Istituti Tecnici e Professionali non riducibili allo schema Moratti-Bertagna.

·       Investire su un sistema integrato di formazione permanente, capace di rispondere alle necessità di riaggiornamento culturale e professionale della popolazione adulta, contrastando per questa via sia l’obsolescenza precoce delle professioni che l’analfabetismo di ritorno.

·       Riprendere gli investimenti nella scuola e nella valorizzazione professionale degli insegnanti. Il fatto che lo stesso centrosinistra al Governo non abbia sostenuto, a suo tempo, con investimenti adeguati la propria proposta di riforma, non può occultare la gravità del vero e proprio disinvestimento sulla formazione da parte del governo in carica. Disinvestimento che ha raggiunto livelli elevati tanto che l’evoluzione della spesa complessiva per le politiche dell’istruzione registra una diminuzione in termini reali, rispetto al 2001, di quasi il 5%.

Ovviamente questi punti, come qualsiasi riassetto puramente istituzionale, di per sé non sono la riforma della scuola, che è nelle mani dei protagonisti del processo educativo stesso: gli insegnanti, gli studenti, i genitori, le scuole dell’autonomia e quanti sul territorio sono interessati a dare valore alla scuola, perché la scuola è lo specchio del loro futuro. Ma questi punti possono dare un contributo a saldare il movimento reale di quanti oggi sono impegnati contro la “deforma” della Moratti - con le manifestazioni, ma ancor più con il paziente lavoro di ogni giorno - a una prospettiva di governo che abbia come obiettivo non quello di incanalare, ma di dare respiro alle forme di protagonismo e di autogoverno delle scuole, dei territori, delle comunità locali.