Alcune
riflessioni da un punto di vista giuridico
di Renzo Remotti
* I
“quattro pilastri” delle riforme amministrative
La stagione che ha modificato in modo più evidente il volto
della pubblica amministrazione italiana è iniziata con la legge 15 marzo 1997,
n. 59 denominata "Delega al Governo per il conferimento
di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della
Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa",
anche se le ragioni giuridiche del cambiamento sono da rintracciare, come
subito si vedrà, in un radicale mutamento del concetto teorico di interesse
legittimo.
La riforma nell’intenzione del legislatore si sarebbe dovuta
articolare su quattro punti fondamentali:
· delega al
Governo a emanare, entro il 31 marzo 1998, uno o più decreti legislativi volti
a conferire a regioni ed enti locali funzioni e compiti amministrativi dello
Stato;
· delega al Governo a emanare,
entro il 31 gennaio 1999, uno o più decreti legislativi volti a razionalizzare
l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Ministeri,
anche attraverso il riordino, la soppressione e la fusione dei Ministeri, oltre
a un riordinamento di tutti gli altri Enti pubblici nazionali e l’introduzione
di meccanismi di controllo interno della spesa e di valutazione dei risultati;
· delega al
Governo a emanare, entro il 31 ottobre 1998, uno o più decreti legislativi volti
a completare l'integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella
del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle
disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato
nell'impresa;
· autorizzazione
al Governo a emanare regolamenti di delegificazione di 112 procedimenti
amministrativi.
Di seguito verrà analizzato il contenuto della delega, tentando
di dimostrare che le modifiche legislativo-costituzionali già varate o in via
di approvazione rappresentano un’operazione coerente, almeno idealmente, di
riassetto dello Stato italiano. Verranno presi in esame, pertanto, solo gli
aspetti che maggiormente dimostrano tale nesso logico. La delega, in sintesi,
prevede:
a)
Decentramento e federalismo
L'aspetto di maggior rilievo della riforma consiste nell'aver
avviato una vasta opera di decentramento amministrativo, non senza molti
elementi di incertezza e contraddittorietà, , opera che rappresenta il primo
pilastro della riforma. Compiti e funzioni statale sono stati conferiti a enti
pubblici territoriali (regioni, provincie, comuni, comunità montane) con il
dichiarato obiettivo d’instaurare il cosiddetto "federalismo
amministrativo a costituzione invariata”. E’ appunto quest’ultimo
inciso che avrebbe dovuto suscitare le maggiori perplessità, anche di ordine
democratico. Il legislatore ha dato per scontato che nella costituzione in nuce
fossero previsti i principi propri di uno stato federale. La legge n. 59,
invece, riformula il cd. "principio del parallelismo" tra
funzione legislativa e funzione amministrativa delle regioni, secondo cui, ai
sensi degli articoli 117 e 118 della Costituzione, le regioni esercitano
funzioni amministrative tendenzialmente solo nelle materie per le quali hanno
competenza legislativa. Con la legge n. 59 il principio si trasforma nel senso
che l'amministrazione è propria delle regioni e degli enti locali, anche nelle
materie per le quali lo Stato esercita la funzione legislativa, salvo un
ristretto elenco di materie per le quali l’articolo 1 della legge riserva
l'amministrazione allo Stato (difesa etc.). Non si tratta di modifica di lieve
portata. L’art. 118 della costituzione nel testo al tempo vigente sanciva in
modo univoco, che l’elenco delle materie indicate dall’art. 117 cost. fosse
tassativo e che le leggi avrebbero potuto attribuire nuove competenze a
enti territoriali solo per materie di interesse esclusivamente locale.
Dopo la riforma il sistema delle competenze è stato invertito. Sono ora di
competenza statale solo le materie espressamente indicate, mentre tutte
le altre sono attribuite agli enti locali. E’ evidente, perciò, che i due
assetti hanno forti elementi di contraddizione. Né si comprende d’altro canto
per quale ragione, se non di ordine tecnico-politico, si voleva mantenere la
costituzione invariata. Del resto, seppur in ritardo, anche il titolo V della
costituzione è stato modificato ed è tuttora in via di riforma, rendendo il
sistema legislativo amministrativo un ordinamento più coerente, anche da un punto
di vista costituzionale.
L’operazione giuridica della legge n. 59 è stata molto più
complessa, dispiegandosi in varie fasi. Gli strumenti legittimi previsti,
almeno nelle intenzioni del legislatore, sono molteplici, anche se, a dire il
vero, soprattutto da parte degli Enti locali si nota troppo frequentemente la
tendenza a chiedere supporti finanziari o legislativi piuttosto che a
utilizzare gli strumenti di cui già dispongono. E’ sufficiente pensare a quanto
poco sia stata sfruttata l’ampia potestà legislativa, introdotta già dalla
legge 142\90 s.m. In ogni caso gli strumenti relativamente nuovi sono:
1. Decreti
legislativi, già adottati entro il 31 marzo 1998, che hanno individuato in
maniera tassativa le funzioni ed i compiti mantenuti in capo allo Stato,
elencando poi, seppur in modo puramente esemplificativo, le funzioni conferite
a regioni ed enti locali.
2. Leggi
regionali, da adottarsi entro sei mesi dall'entrata in vigore di ciascun
decreto legislativo, con cui ogni Regione provvede a ripartire tra gli enti
locali le funzioni a essa conferite dallo Stato, trattenendo unicamente quelle
funzioni che richiedono un unitario esercizio a livello regionale.
3. Decreti
del Presidente del Consiglio dei ministri, grazie ai quali si è già
provveduto parzialmente, con le modalità e nei termini stabiliti dai decreti
legislativi, alla puntuale individuazione dei beni e delle risorse finanziarie,
umane, strumentali e organizzative da trasferire nonché alla loro ripartizione
tra le regioni e tra regioni ed enti locali. Il trasferimento dei beni e delle
risorse dovrà "comunque essere congruo rispetto alle competenze
trasferite" e comportare "la parallela soppressione o il
ridimensionamento dell'amministrazione statale periferica, in rapporto ad
eventuali compiti residui" (art. 7, legge n. 59).
4. Decreti
legislativi integrativi e correttivi, che possono essere
adottati entro un anno dall'entrata in vigore dei vari decreti; in tale modo il
Governo ha la possibilità di ritornare su alcune decisioni, di integrare
eventuali lacune, nel rispetto dei principi posti dalla legge n. 59.
b)
L'organizzazione dell'amministrazione centrale
Il secondo pilastro della riforma è costituito dalla
riorganizzazione dell'amministrazione pubblica, con particolare riguardo alle
strutture ministeriali.
A tal fine il Governo è stato delegato a razionalizzare
l'ordinamento della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri anche attraverso
il riordino, la soppressione e la fusione di Ministeri. Si trattava di una
delega molto ampia, forse persino eccessiva, comprendendo anche il riordino
degli enti pubblici nazionali operanti in settori diversi dall'assistenza e
previdenza, nonché degli enti privati, controllati dallo Stato, che operano
nella promozione e nel sostegno pubblico al sistema produttivo nazionale. La
riforma dell'organizzazione pubblica è strettamente correlata al decentramento
delle funzioni amministrative. Si vuole, infatti, in una prima fase decentrare
a regioni ed enti locali tutte le funzioni che la legge non riserva
espressamente allo Stato e solo successivamente riorganizzare l'amministrazione
statale, centrale e periferica, basandosi sui compiti che residuano in capo a
tale amministrazione.
Per questa stessa ragione i tempi che la legge pone per le due
riforme sono volutamente diversi: entro il 31 marzo 1998 il Governo ha dovuto
adottare i decreti legislativi con cui trasferire funzioni amministrative dallo
Stato alle regioni ed agli enti locali; per i decreti legislativi di
riorganizzazione dell'apparato centrale il termine è invece posto al 31 gennaio
1999, così da permettere di modellare il nuovo assetto dei Ministeri alla luce
delle limitate funzioni che residueranno allo Stato. Non si trattava di
operazioni semplici presupponendo accorpamenti e soppressioni di Ministeri con
riflessi non indifferenti sul personale impiegato nei vari dicasteri. Inoltre
l’amministrazione periferica dello Stato è stata pressoché smantellata, logica
conseguenza del passaggio di competenze dallo Stato agli Enti locali.
c)
La contrattualizzazione del lavoro pubblico
Senza dubbio questo è stato l’aspetto più critico dell’intera
riforma, l’unico che non è immediatamente desumibile dall’impianto delle
riforme precedentemente indicate. Se il decentramento è una conseguenza della
trasformazione federale dello Stato, se la riorganizzazione dei Ministeri ha
rappresentato la concreta realizzazione dei principi del decentramento, se,
infine, la semplificazione deriva direttamente, come subito si vedrà, dalla
nuova concezione di interesse legittimo, la contrattualizzazione del pubblico
impiego, compresa la dirigenza statale, non è altro che l’acritica adesione di
una corrente dottrinaria, volta a uniformare il lavoro pubblico al privato,
dimentica della giuridica differenza tra tali attività lavorative; il primo ad esclusivo
servizio dell’interesse nazionale (art. 98 cost.); l’altro volto a realizzare
l’interesse dell’impresa, di cui il lavoratore è dipendente (art. 2105 c.c.).
Su questo versante la delega è stata interamente attuata con
l'adozione di due provvedimenti: il d.lgs n. 396 del 1997, in materia di
contrattazione collettiva, ed il d.lgs n. 80 del 1998, che completa il processo
di contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, avviato con il
decreto n. 29 del 1993, estendendo la privatizzazione anche alla dirigenza, ora
interamente confluiti nel d.lgs n. 165 del 2001 e successive modifiche. Dopo
questi interventi si realizza da un lato la definitiva applicazione del metodo
della contrattazione collettiva anche al pubblico impiego e, dall'altro, la piena
sottoposizione del rapporto di pubblico impiego alla disciplina del diritto
privato, salvo rare eccezioni.
d)
La semplificazione
Il quarto e ultimo pilastro dell'impianto riformatore è
rappresentato dalla semplificazione dell'azione amministrativa e dei rapporti
tra amministrazione e cittadini.
Si riprende così un processo riformatore già avviato con la
legge n. 241 del 1990 in tema di disciplina del procedimento e connessi
istituti di semplificazione, nonché con la successiva legge n. 537 del 1993. La
semplificazione comporta il passaggio da una disciplina dettata quasi per
intero dalla legge a un ordinamento di fonte prevalentemente regolamentare,
anche se oggetto di tali regolamenti deve riguardare solo l’organizzazione e i
procedimenti amministrativi.
L’articolo 13 della legge n. 59 dispone che l'organizzazione e
la disciplina degli uffici dei Ministeri, compresa l'individuazione degli
uffici di livello dirigenziale generale, venga disciplinata con regolamenti. In
questo modo si struttura il sistema normativo della nostra organizzazione
pubblica su un modello di tipo francese, in cui la disciplina
dell'amministrazione è riservata alla potestà normativa del Governo.
Per quanto concerne i procedimenti amministrativi la legge n.
59, modificata dalla successiva legge n. 191 del 1998, comprende un primo
elenco di 112 procedimenti da semplificare, sostituendo alla vecchia
disciplina, fondata su diverse leggi stratificatesi nel tempo, una nuova
disciplina di rango regolamentare che risponda ai seguenti principi:
1)
riduzione del numero delle fasi procedimentali e delle
amministrazioni che intervengono nel procedimento;
2)
riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti;
3)
riduzione del numero dei procedimenti amministrativi e
accorpamento di quelli che si riferiscono alla medesima attività, soppressione
dei procedimenti che comportino per l'amministrazione e per i cittadini costi
più elevati dei benefici conseguibili.
L'adozione dei regolamenti di semplificazione in attuazione
della legge n. 59 procede si può dire ancora ora con molta lentezza, anche a
causa dell'entità del lavoro occorrente per riordinare una legislazione
frammentaria, sovrappostasi negli anni senza ordine alcuno.
Ulteriori norme di semplificazione sono contenute nella legge n.
127 del 1997, in materia di documentazione amministrativa, stato civile,
certificazione anagrafica e dichiarazioni sostitutive. Il processo di
semplificazione si completerà, anche se il processo è già in fase avanzata, con
l'adozione, nei prossimi anni, di testi unici divisi per settore di materia,
che dovranno alleggerire l’ordinamento italiano, gravato da oltre 33.000 tra
leggi e regolamenti. E’ evidente che si tratta di un obiettivo ambizioso e utile.
E’ necessario, comunque, fare alcune riflessioni giuridiche su questo fenomeno
di deligificazione. Non è del tutto esatto affermare che il sistema giuridico
italiano sia appesantito da troppe leggi, situazione questa fisiologica in ogni
democrazia moderna, ove a causa della complessità sociale si impone il
succedersi di norme e leggi che via via adattino il diritto ai mutamenti
socio-economici continui. Il vero problema non è tanto l’eccessiva numerosità
delle leggi, quanto la loro grave frammentarietà e contraddittorietà interna.
E’ quest’ultima circostanza che espone i cittadini a una spesso iniqua
discrezionalità dei poteri pubblici (magistratura e pubblica amministrazione)
nell’interpretazione di leggi confuse. E’ sufficiente una diversa interpretazione
perché lo stesso fatto diventi lecito o reato, sanzione o incentivo. La
soluzione prospettata dal legislatore non risolve il problema e talvolta lo
aggrava. Ormai i regolamenti governativi si succedono nel tempo con una
rapidità eccessiva, aumentando, anziché diminuire, la frammentarietà della
legge.
Inoltre si è assistito a un altro fenomeno negativo. Sempre più
frequentemente la legge rimanda la sua attuazione a un successivo regolamento.
La conseguenza è da un lato il ritardo della volontà parlamentare, che si può
anche trasformare in mancata attuazione; dall’altro il sorgere di ulteriori
incertezze. Il problema è: in mancanza del regolamento d’attuazione la pubblica
amministrazione è tenuta comunque all’applicazione della legge? Esempio
emblematico è costituito dalla legge 241\90 relativamente all’accesso agli
atti. Questa legge, pur essendo tra le migliori, da un punto di vista tecnico,
con l’art. 24, comma 4 rimandava la piena applicazione a un regolamento, da
votarsi entro sei mesi, che determinasse in modo esatto per ciascuna
amministrazione gli atti accessibili e quelli riservati. Poiché i vari
regolamenti, come era prevedibile, furono approvati con ritardi grandissimi,
molte amministrazioni negarono l’accesso ai propri atti proprio sulla base della
mancanza del regolamento d’attuazione. La giurisprudenza amministrativa (per
tutte Consiglio di Stato 13 gennaio 1994, n. 2) sostenne, con interpretazione
più ragionevole, che l’accesso agli atti fosse un diritto completo anche in
mancanza del regolamento che individuasse esattamente gli atti esclusi
dall’accesso, essendo sufficiente l’entrata in vigore del regolamento generale
di attuazione DPR 27 giugno 1992, n. 352.
Al di là della vicenda giudiziaria bisognerebbe domandarsi se la
pubblica amministrazione motu proprio, cioè senza la mediazione della
magistratura, fosse stata legittimata a giungere alla medesima conclusione.
Tenendo conto del principio gerarchico, cui si devono conformare tutte le
amministrazioni, la risposta sarebbe stata e sarebbe tuttora negativa. Il
diniego che emanarono i singoli funzionari non era giuridicamente del tutto
infondato, richiamandosi a una disposizione normativa né si poteva loro
imputare un ritardo dell’amministrazione, contro cui non avevano alcun potere
di rimedio. L’introduzione dei regolamenti d’attuazione ha creato una
situazione che potrebbe essere definita il paradosso gerarchico. In
un’amministrazione fondata sul principio gerarchico il rispetto della legge può
condurre alla violazione della legge medesima.
Perciò i regolamenti, in questo caso, ma altri se ne potrebbero
proporre, non hanno per nulla semplificato il nostro ordinamento, poiché per
applicare una legge dello stato in mancanza del regolamento d’attuazione è
necessario rivolgersi ai giudici. Senza i regolamenti d’attuazione, invece, si
sarebbe lasciato al singolo funzionario l’equa valutazione caso per caso, con
possibilità di annullamento del provvedimento viziato in violazione di legge,
incompetenza o eccesso di potere.
Per superare l’impasse bisognerebbe riflettere sui limiti del
potere interpretativo dei singoli funzionari e dirigenti, argomento che
travalica gli scopi del presente studio. Tuttavia preme precisare che con
l’introduzione dell’amministrazione per obiettivi tale potere si è ulteriormente
ridotto, dato che, in queste particolari ipotesi, si potrebbe persino
richiamare la classica categoria dell’eccesso di potere. Se gli obiettivi
legittimano la potestà dirigenziale, se questi non prevedono l’attuazione
pratica dell’accesso agli atti e se non fosse stato emanato il relativo
regolamento d’individuazione, ogni iniziativa da parte del dirigente sarebbe
illegittima. Per quanto riguarda l’accesso agli atti il problema è ormai
definitivamente risolto, ma molte altre sono le materie che cadono nel
paradosso del potere gerarchico in un’amministrazione fondata su
obiettivi.
e)
La Commissione parlamentare per la riforma
amministrativa
L’articolo 5 della legge n. 59 del 1997 ha previsto
l'istituzione della Commissione parlamentare per la riforma amministrativa, ma
non confermata dall’attuale legislatura, composta da venti senatori e venti
deputati, la quale principalmente doveva:
1)
esprimere i pareri sui provvedimenti attuativi della
legge;
2)
verificare periodicamente lo stato di attuazione delle
riforme previste dalla legge e ne riferisce ogni sei mesi alle Camere.
q Evoluzione
del concetto di interesse legittimo e riforme amministrative.
L’ordinamento
amministrativo italiano si fonda sulla separazione tra diritto soggettivo e
interesse legittimo. Ai sensi dell’articolo 97 primo comma della Costituzione,
l’attività amministrativa si deve conformare ai principi della legalità,
imparzialità e buon andamento. Tale fine istituzionale è teso a garantire ciò
che genericamente dai giuristi viene definito pubblico interesse ossia il
vantaggio non di un singolo cittadino o di ristretti gruppi sociali, ma
dell’intera collettività. Con ciò non si intende affermare che l’azione
amministrativa non tiene conto degli interessi privati, perché ciò sarebbe
aberrante, ma piuttosto che l’insieme degli uffici, funzionari, dirigenti
pubblici è tenuto a ponderare i vari interessi privati e trovare quindi una
giusta armonia tra tutte le istanze che provengono dal tessuto economico e
sociale. Tutta l’attività amministrativa, infatti, anche quando si conforma a
principi mutuati dal diritto privato, è comunque diretta al perseguimento di
interessi pubblici. Persino quando la pubblica amministrazione agisce come se
fosse un soggetto privato, in riferimento all’artt. 97 della costituzione e 1
della legge 241\90, non può derogare a tale fine. Si pensi per esempio
all’acquisto di un immobile per organizzare nuovi uffici. Tale contratto di
compravendita è a pieno titolo un contratto privato, contratto con cui si
stabiliscono reciproci obblighi tra un compratore (in questo caso la pubblica
amministrazione) e un venditore, che può essere soggetto pubblico o privato.
Ciononostante gli atti che stanno a monte del procedimento contrattuale
(erogazione della spesa etc.) sono soggetti al diritto pubblico e al fine
generale del pubblico interesse. L’interesse pubblico, tuttavia, è un concetto
troppo generico, spesso di scarso contenuto operativo, per poter essere
utilmente usato nella pratica amministrativa e giurisdizionale, così i giuristi
hanno elaborato la nozione di interesse legittimo. In realtà l’idea di
interesse legittimo non è semplice e ha subito nel tempo varie modifiche.
Secondo la
celebre definizione dello ZANOBINI (Corso di diritto amministrativo, II,
Milano, 1958, p. 121) l’interesse legittimo è una posizione indirettamente
a vantaggio di un cittadino e direttamente a tutela del buon andamento
della pubblica amministrazione. Per esempio nel concorso pubblico i singoli
concorrenti non avrebbero un diritto diretto che la commissione svolga le
procedure in modo imparziale. L’ordinamento gli riconosce un mero interesse
all’imparzialità della commissione. Di conseguenza se può proporre ricorso ciò
è dovuto al fatto che questi è portatore di tale posizione giuridica, la cui
rivendicazione è lasciata a tutti gli interessati (in pratica stando all’esempio
proposto a tutti i concorrenti). Oggetto diretto del ricorso sarebbe, dunque,
l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Tale
definizione è stata seguita per decenni dalla dottrina e dalla giurisprudenza
amministrativa. Tuttavia se da un lato si aveva il vantaggio di collegare la
procedura giudiziaria amministrativa all’art.97 Cost.; dall’altro metteva il
cittadino in una posizione di svantaggio nei confronti dei poteri pubblici. Non
avendo il ricorrente un diretto potere di ricorso avverso i provvedimenti
amministrativi anche il suo diritto di difesa era in qualche modo limitato. La
P.A. poteva sempre rivendicare la superiorità dell’interesse pubblico nei
confronti di interessi legittimi pur meritevoli di attenzione. Inoltre non
avendo il cittadino alcun potere di controllo sull’attività amministrativa,
frequentemente conosceva il nesso logico-deduttivo del procedimento che lo
riguardava solo al momento del processo con conseguente limite al diritto di
difesa. La definizione dello Zanobini era una teoria per i poteri pubblici, che
avrebbero dovuto comunque prevalere sui privati. Questa teoria ha pressoché
dominato per decenni determinando ciò che potremmo definire l’anomalia
italiana. L’interesse pubblico, nato per tutelare beni appartenenti alla
collettività posti a beneficio della collettività, attraverso la nozione di
interesse legittimo come interesse della pubblica amministrazione, finiva per
coincidere con l’interesse dei poteri pubblici astrattamente concepiti. In
altre parole l’interesse pubblico coincideva con il vantaggio degli organi
pubblici, anche quando la gestione dei beni pubblici era contro la
collettività. In un certo senso spesso l’interesse pubblico coincideva con
l’interesse “privato” dello Stato o della pubblica amministrazione.
Il NIGRO (Giustizia
amministrativa, Il Mulino, 2000, p. 102) elaborò una nuova definizione di
interesse legittimo, concependolo come il potere di controllo (= diritto alla
partecipazione) che ciascun cittadino ha sull’attività della P.A. che coinvolge,
seppur indirettamente, propri diritti o interessi. Non si tratta di una lieve
modifica e per comprenderne la portata rivoluzionaria basti riflettere sul già
citato esempio del concorso pubblico.
Il cittadino
che partecipa a una selezione, bandita dalla pubblica amministrazione, alla
luce della teoria del Nigro non ha più un semplice indiretto interesse alla
regolarità delle procedure concorsuali, ma un vero e proprio diritto soggettivo
a controllare la regolarità delle procedure concorsuali ed eventualmente
chiederne l’annullamento. E’ chiara ora la radicale differenza tra un interesse
legittimo inteso come strumento di tutela della P.A. a una posizione giuridica
legata ad un diritto soggettivo pieno. La pubblica amministrazione opera
su un piano di parità con il cittadino, nel perfetto rispetto del principio di
legalità. In un certo senso il rispetto della legge diventa un diritto dei
cittadini. Si parla di diritto impropriamente, in quanto la definizione stessa
di legge implicherebbe vincolatività dell’azione amministrativa.
Infatti, essendo la pubblica amministrazione parte del potere esecutivo, è
evidente che essa più di ogni altro soggetto è tenuta al rispetto dei dettatati
provenienti dal Parlamento.
Grazie a
questa nuova definizione ogni volta che una pubblica autorità pone in essere un
provvedimento di qualsiasi natura fa sorgere in capo a chi ha interesse il
diritto di valutare la conformità del provvedimento alla legge e avere di
conseguenza la prova di eventuali illegittimità da far valere attraverso le vie
giurisdizionali. Sulla natura di diritto, anche se non propriamente soggettivo,
all’accesso agli atti di cui all’art.25 della l.241/90 non vi è più alcun
dubbio essendo stata confermata da costante giurisprudenza (più moderata
Consiglio di Stato 29 aprile 2001, n. 2283). A questo punto dovrebbe essere
chiaro che le riforme amministrative nascono non tanto per volontà di una parte
politica, ma da una vera e propria concezione innovativa dei rapporti tra
cittadino e pubblici poteri improntati ora sul principio della legittima
mediazione piuttosto che su quello dell’autorità.
Tutt’altra natura ha invece il
diritto soggettivo. Esso può essere definito come uno “spazio di
libertà che i pubblici poteri riconoscono a ciascuna persona in quanto persona
e che può essere limitato soltanto dalla legge e in presenza di un prevalente
interesse pubblico non altrimenti tutelabile”. Brevemente si analizzi in
ogni sua parte la definizione. Con spazio di libertà s’intende un ambito
ideale, entro cui la persona può liberamente muoversi senza essere subordinato
ad alcun potere; il diritto viene riconosciuto, non concesso, perché è parte
costitutivo dell’essere umano, in quanto persona, dotata di ragione; non è
necessaria la qualifica di cittadino, se non espressamente indicato
dall’articolo della costituzione, perché i diritti sono universalmente
riconosciuti a tutti gli uomini; infine solo la legge può limitare i diritti,
ma solo quando l’interesse pubblico prevalente e meritevole di tutela non può
essere altrimenti rispettato.
Si pensi per esempio al
diritto di associazione (art. 18 Cost.). Ciascuno può liberamente costituire
una associazione che persegua un fine legittimo (attività culturali, sportive,
ecc..) senza che alcuna autorità possa negare tale soggetto. L’associazione in
particolare non deve necessariamente avere un fine ritenuto giuridicamente o
politicamente rilevante ben potendo occuparsi di attività considerate futili o
di scarsa utilità generale. L’unico divieto riguarda associazioni segrete o
gruppi che perseguono fini militari non rientranti nella normale statale
(terrorismo ecc.) (art. 18, 2 comma
Cost.).
q La legge 7 – 8 – 1990, n. 241.
La stagione delle riforme
viene aperta dalla fondamentale legge - quadro sul procedimento amministrativo
e sull’accesso agli atti. Si tratta di una legge importante perché per la prima
volta vengono introdotte nell’ordinamento italiano delle norme che regolano in
modo preciso il procedimento amministrativo. Prima della sua entrata in vigore
la determinazione delle fasi del procedimento era lasciata a regolamenti
interni emanati da ciascuna amministrazione o alla stessa prassi.
La ragione giuridica del
mutamento è evidente. Se il cittadino ha il diritto di controllare l’attività
amministrativa, si deve regolare la pubblica amministrazione in modo chiaro e
trasparente in modo tale da rendere il diritto una realtà effettiva. In questa
parte non ci si propone di analizzare la legge 241\90, quanto chiarirne gli
aspetti conseguenti ai propositi del processo riformatore. In questo senso due
sono i principi chiave della legge: la trasparenza del procedimento e l’obbligo
di motivazione.
Ai sensi degli artt.1 – 2
della citata legge il procedimento amministrativo deve conformarsi ai criteri
di economicità, efficacia e pubblicità. Dalla economicità discendono le leggi
che vanno sotto il nome di semplificazione del procedimento; dal principio di
efficacia scaturiscono le norme che hanno introdotto i controlli interni e
della Corte dei Conti, tesi non tanto a perseguire responsabilità individuali
dei singoli pubblici amministratori – responsabilità che, se di particolare
gravità, dovrà essere accertata con le dovute garanzie da organi
giurisdizionali ordinari, amministrativi o infine dalla sezione giurisdizionale
della Corte dei Conti – quanto a rendere l’attività amministrativa sempre più
efficace secondo un leale spirito di collaborazione con gli organi di controllo
così come è stato auspicato anche dalla legge 14 gennaio 1994, n. 20, legge con
cui è stata riformata la Corte dei conti e il sistema dei controlli contabili.
Dal principio di pubblicità
discendono, invece, le norme che hanno introdotto sia il c.d. responsabile del
procedimento sia l’accesso agli atti.
Ai sensi dell’art.6 della
medesima legge il responsabile del procedimento è colui che, su nomina del
dirigente, deve preoccuparsi affinché la formazione di un provvedimento
amministrativo, cui è preposto, si concluda nel modo più celere possibile e nel
rispetto pieno della legge vigente.
L’articolo elenca tutte le attività cui è tenuto il responsabile che
vanno dall’inizio del procedimento (protocollazione, prima analisi dell’istanza
e del fascicolo etc.) fino all’adozione del provvedimento finale. Chiunque
abbia interesse può rivolgersi al responsabile e chiedere ogni chiarimento
relativo al procedimento, di cui ha interesse. La ratio, dunque,
dell’introduzione di un responsabile è permettere agli interessati di
partecipare e controllare la formazione degli atti amministrativi.
Sulla base dell’art.22 ss. il
cittadino ha il diritto di accedere ai documenti amministrativi una volta che
si è concluso il procedimento. Come si è già detto tale facoltà è stata
interpretata come un vero e proprio diritto soggettivo. Per documento
amministrativo si deve intendere “ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti, anche interni , formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque,
utilizzati ai fini dell’attività amministrativa.” ( art. 22, 2 comma )
L’accesso inizia con una
istanza proposta dagli interessati all’organo competente. Il responsabile,
ricevuta l’istanza, ne valuta la legittimità ed entro trenta giorni deve
emanare un provvedimento di diniego o di accettazione. Trascorso tale termine,
se nessun provvedimento è stato emanato
si intende che l’istanza sia stata negata e pertanto l’interessato può
proporre ricorso al TAR. L’accesso è probabilmente lo strumento migliore per
permettere un controllo sulla legittimità degli atti. Alcune considerazioni
meritano essere fatte intorno al concetto di interessato. Questi non è soltanto
il soggetto privato che viene direttamente coinvolto nel procedimento
amministrativo, ma anche associazioni o comitati che difendono interessi
collettivi, vale a dire legati a gruppi definiti di persone, quali i sindacati,
le associazioni dei consumatori e via discorrendo.
Anche la motivazione
rappresenta la diretta conseguenza del diritto di controllo sull’attività
amministrativa. Secondo l’art.3 della legge tutti i provvedimenti
amministrativi, compresi quelli relativi ai concorsi pubblici e ad atti di
organizzazione, devono riportare una motivazione logica, congruente e non
contraddittoria. La motivazione forse è la parte che meglio permette di
valutare la legittimità o l’illegittimità di un provvedimento, in quanto impone
di rendere chiare le ragioni in ordine alle quali si è presa quella determinata
decisione. Sulla motivazione si fonda la ragionevolezza stessa dell’azione
amministrativa, essendo quest’ultima ragionevole solo se trae fondamento dalla
legge. Perciò l’obbligo della motivazione coincide con il rispetto del
principio della legalità.
Altro profilo regolato dalla
legge è la c.d. partecipazione al procedimento amministrativo. Tale strumento
pone sullo stesso piano cittadino e pubblica amministrazione e garantisce che i
vari interessi meritevoli di attenzione, anche privati, vengano tenuti nel
giusto conto nella formazione degli atti e provvedimenti amministrativi.
L’art.8 stabilisce che debba essere inviata una comunicazione di avvio del
procedimento a chiunque abbia interesse. Per esempio in caso di espropriazione
per pubblica utilità è obbligatorio comunicare l’inizio del procedimento non
solo agli eventuali espropriati, ma anche ai proprietari dei terreni limitrofi
e, nel caso esistano, a comitati posti a tutela del patrimonio ambientale di
quella particolare zona. Ciascun cittadino ha il diritto di presentare
osservazioni, memorie scritte, documenti volti a far valere i propri interessi.
Tale procedimento, dunque, permette di controllare la pubblica amministrazione
anche prima della emanazione del provvedimento e tale facoltà non sarebbe
possibile senza la massima pubblicità del procedimento.
q Il d.lgs.
300/99 e la riorganizzazione dei ministeri
L’ordinamento italiano, pur
transitando verso un sistema decentrato, prevede che determinate materie siano
di stretta competenza statale, con la conseguente riorganizzazione
dell’amministrazione centrale, pur ridimensionata. Il decreto legislativo
300\99 sm prevede 14 Ministeri e precisamente:
Ministero degli affari esteri;
dell’interno;
della giustizia;
della difesa;
dell’economia e delle finanze;
delle attività produttive;
delle comunicazioni;
delle politiche agricole e
forestali;
dell’ambiente e della tutela e
del territorio;
delle infrastrutture e dei
trasporti;
del lavoro e delle politiche
sociali;
della salute, dell’istruzione,
dell’università e della ricerca;
per i beni e le attività
culturali.
Il principio giuridico di base
è quello della sussidiarietà nel senso che tutte le competenze amministrative
sono state trasferite agli enti locali (regioni, provincie, comuni, comunità
montane), fatte le materie espressamente
previste dalla legge o i compiti, pur di competenza locale, che non vengono
realizzati con la dovuta sollecitudine. Tale seconda ipotesi viene definita
dalla dottrina “potere sostitutivo”.
I ministeri vengono suddivisi
in dipartimenti, aree che raggruppano attività in seno al dicastero omogenee.
Sono dipartimenti quello per le politiche sociali, per le pari opportunità etc.
Loro compito peculiare è assicurare “l’esercizio organico e integrato delle
funzioni del ministero.” (art. 5, comma 1) La legge ha avuto il merito di aver
uniformato l’organizzazione centrale a un unico modello legislativo, ciò
soprattutto per garantire una maggiore efficienza ed efficacia del sistema
amministrativo italiano. Non a caso il quarto comma del medesimo articolo pone
frequentemente l’accento sui valori dell’efficienza.
A capo del dipartimento viene
posto un direttore generale con il compito di “coordinamento, direzione,
e controllo degli uffici di livello dirigenziale generale, compresi nel
dipartimento stesso, al fine di assicurare la continuità delle funzioni
dell’amministrazione ed è responsabile dei risultati complessivamente raggiunti
dagli uffici da esso dipendenti, in attuazione degli indirizzi del ministro.”
(art. 5 comma 3) Si tratta di una figura di alto profilo dirigenziale, che in
ultima analisi ha il compiti di mantenere l’unitarietà dell’azione del
dipartimento.
Altra figura di rilievo è il segretario
generale che ha fondamentalmente compiti di coordinamento dei vari
dipartimenti e di vigilanza su di essi e opera alle dirette dipendenze del
ministro. La figura del segretario generale però non è obbligatoria e solo
alcuni ministeri l’hanno istituita come per esempio il ministero per i beni e
le attività culturali e quello delle comunicazioni.
Ultima struttura specifica
ministeriale sono i cosiddetti uffici di diretta collaborazione con il
ministro costituiti fondamentalmente dalla segreterie particolari del
ministro e dei sottosegretari. Il regolamento di attuazione ha introdotto
regole più specifiche per quanto riguarda l’organizzazione di questi uffici e
in particolare hanno stabilito le norme riguardanti la nomina del capo degli
uffici, che deve avere una elevata professionalità e compiti di raccordo
tra Governo e Parlamento e può essere estraneo all’amministrazione. Come
compiti specifici si possono citare tra i più rilevanti l’elaborazione dei
testi normativi delegati al Governo, l’attuazione politica delle politiche del
ministro, la valutazione dei flussi finanziari.
Il medesimo testo legislativo
prevede l’istituzionalizzazione di agenzie specializzate in specifiche
materie sotto la sorveglianza dei rispettivi ministeri.
Questi organismi sono nati per
garantire la separazione tra amministrazione e politica in materie altamente
tecniche, come per esempio la protezione civile, la tutela ambientale ecc. La
ratio è chiara. La pubblica amministrazione si occupa anche di beni, la cui
gestione richiede competenze tanto tecniche da sfuggire, se non in misura
ridottissima, a qualsiasi logica politica rispettosa dell’interesse pubblico.
In altre parole in tali materie l’interesse pubblico coincide con l’esatto
rispetto dei parametri dettati dalle leggi scientifiche. Si può discutere a
livello politico se in un dato momento storico è meglio finanziare servizi
sanitari o per la tutela ambientale. Una volta stabilito, tuttavia, che la
riduzione dell’inquinamento è prioritario, i modi di attuare tale obiettivo è
di esclusiva competenza degli scienziati.
La legge, in questo caso, ha
introdotto un elemento di forte ambiguità. Al fine di garantire la separazione
tra politica e amministrazione l’articolo 8 comma 2 stabilisce: “le agenzie
hanno piena autonomia nei limiti stabiliti dalla legge e sono sottoposte al controllo della Corte
dei Conti […]”. Tuttavia già il secondo paragrafo sancisce: ” esse sono
sottoposte ai poteri di indirizzo e di vigilanza di un ministro […]”. La
contraddittorietà di tale norma è data dall’avere introdotto il potere di
indirizzo da parte di un ministro, potere che per sua stessa natura non potrà
che essere politico, mentre invece il potere di vigilanza rientra perfettamente
in un sistema giuridico democratico, in seno a cui il rappresentante della
maggioranza politica deve avere la possibilità di controllare periodicamente
l’attività anche dei tecnici. E’ sostanzialmente differente il potere di
controllo politico sull’attività non di mera ricerca – se si trattasse
di ricerca bisogna garantire la massima
autonomia ai sensi dell’art. 33 della costituzione - dei tecnici, dal potere di
indirizzo. Il primo ha come fine generale la possibilità di valutare che il
lavoro dei tecnici coincida sempre con il pubblico interesse, mentre il secondo
è destinato a orientare l’attività verso fini politici, che possono non
coincidere con l’esattezza scientifica e di conseguenza per la definizione data
sopra, con l’interesse pubblico.
A causa di queste ambiguità lo
status delle agenzie è stato fin dall’inizio molto incerto e mutevole.
Significativa rimane la
vicenda della Protezione Civile. Da dipartimento del ministero dell’interno si
è trasformata in agenzia e successivamente nell’arco di pochissimi anni in
dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Pare che sulla base
di quest’esempio l’esperienza delle agenzie in Italia si possa ritenere
fallita.
A livello periferico tutte i
compiti amministrativi sono passati all’ufficio territoriale di governo
(ex prefettura), fatta eccezione per l’istruzione, le finanze, i beni
culturali, difesa, giustizia, affari esteri e tesoro.
Il ministero per i beni e
le attività culturali ha invece un’organizzazione del tutto peculiare.
L’articolo 9 della costituzione sancisce: “la Repubblica promuove lo sviluppo
della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.” Il dettato costituzionale
non lascia dubbi sul fatto che gli enti preposti alla conservazione del
patrimonio culturale siano tenuti anche alla sua valorizzazione (DE VERGOTTINI,
La tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico fra Unione
Europea, Stato e Regioni, in Rivista giurisprudenza urbanistica,
1996, III, p. 244). In pratica conservare il patrimonio culturale significa
anche diffonderlo e fare in modo che ne possa usufruire il maggior numero
possibile di persone. Tale impostazione è riscontrabile nel d.lgs 368\98, che
ha riordinato il ministero, specialmente nell’art. 1, comma 2, con cui si
conferisce al dicastero ogni attività tesa a conservare e a valorizzare il
patrimonio culturale. La differente organizzazione del ministero è giustificata
dal tipo di attività, cui è preposto. Mentre i beni culturali si occupano
prevalentemente di materie tecniche, che richiedono una preparazione specifica
( archivi, biblioteche e musei ), gli altri ministeri svolgono una attività
prevalentemente amministrativa, termine con il quale si intende l’insieme delle
attività gestionali dirette alla realizzazione degli indirizzi politici.
La conseguenza immediata è che
in seno al ministero per i beni e le attività culturali deve prevalere
l’aspetto più squisitamente tecnico.
Le dieci ripartizioni
ministeriali (beni archeologici etc.) solo nominalmente ricordano i
dipartimenti degli altri ministeri, configurandosi piuttosto come
amministrazioni semiautonome (art. 6 d.lgs. citato).
Si pensi per esempio
all’amministrazione centrale degli archivi che gestisce non solo da un punto di
vista amministrativo i vari archivi di stato distribuiti sul territorio
nazionale, ma attraverso l’istituto centrale degli archivi detta anche norme
tecniche di classificazione della documentazione ( per esempio il gruppo di
lavoro sulle ISAG ) o le norme per la conservazione delle carte ( umidità
ecc.).
A livello decentrato sono
state istituite soprintendenze regionali con lo specifico compito di raccordo
tra amministrazione periferica, amministrazione centrale e in taluni casi
governo e soprintendenze di settore ( archivi, beni museali ecc. ), che,
invece, operano nell’ambito tecnico-scientifico cui sono preposte.
Sul territorio operano poi i
vari istituti come gli archivi di stato, i musei, le biblioteche statali ecc.
Tra gli istituti e le soprintendenze
di settore non esiste un vero rapporto gerarchico, in quanto ciascun ente ha
competenze diverse. Per esempio gli archivi si occupano della documentazione
statale periferica, mentre la soprintendenza archivistica, da non confondere
con la soprintendenza regionale, gestisce e coordina la conservazione di
archivi di enti locali e privati di rilevante interesse storico.
Talvolta tra istituti e
soprintendenze vi può essere una forte collaborazione. Quando un determinato
archivio privato viene dichiarato dalla soprintendenza di interesse storico si
può stabilire di versare tale archivio in archivi di Stato locali, qualora gli
ambienti di conservazione di origine non siano idonei.
q D.lgs 30 – 3 – 2001, n. 165 s.m. e il pubblico impiego.
Il profilo più
delicato delle riforme riguarda, tuttavia, l’organizzazione degli apparati
burocratici.
Ai sensi
dell’art. 97 1 comma cost. l’organizzazione degli uffici è riservata alla legge.
Le conseguenze di un tale atto normativo non sono univoche per varie ragioni.
Innanzitutto non viene specificata l’ampiezza semantica del termine organizzazione.
Due possono essere le
soluzioni: organizzazione può significare l’insieme degli uffici pubblici
e le relazioni che li collegano insieme. Questa interpretazione lascia
completamente fuori la normazione degli impiegati.
Dall’altro
lato si può invece intendere l’organizzazione come l’insieme delle relazioni
e delle strutture gerarchiche in seno alla pubblica amministrazione, con la
conseguenza che i pubblici dipendenti devono essere regolati con leggi.
Un altro problema
interpretativo riguarda la natura
giuridica della riserva di legge di cui all’articolo costituzionale citato.
Secondo alcuni
autori (CANTUCCI, La pubblica amministrazione, in Commentario
sistematico della costituzione, II, Zanichelli, 1977, pp. 155 ss.) la riserva
è assoluta, con la conseguenza che l’unica fonte costituzionalmente
legittima per la regolamentazione del pubblico impiego è la legge. In questo
caso non sarebbe possibile l’introduzione di contrasti collettivi di lavoro.
Questa fu l’interpretazione che venne seguita dal dopoguerra fino alla metà
degli anni ’80 e la fonte di regolamentazione fu il c.d. T.U. del pubblico
impiego n. 15/57.
Altri autori
(CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, CEDAM, 1985, pp. 113
ss.), al contrario, ritengono la riserva relativa e perciò altre fonti
possono essere affiancate alla legge, specialmente i regolamenti dell’esecutivo.
Quest’ultima interpretazione,
ma soprattutto la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 1976,
ha permesso l’introduzione dei contratti collettivi di lavoro a partire dal
1983. Rimaneva tuttavia una diversa disciplina tra pubblico impiego e impiego privato. Il pubblico impiego trovava
la massima fonte normativa in testi di legge e solo in subordine veniva
regolamentato attraverso contratti di lavoro.
L’art. 17,
comma 1, lettera e) della l. 400\90 (ora abrogato dall’art. 72 D.lgs
165\01) introdusse anche da un punto di
vista legislativo questo principio. In questo modo alcuni rapporti di lavoro
erano regolati dal contratto (ferie, congedi etc.), mentre i rapporti più
importanti (l’organizzazione del lavoro, la progressione in carriera etc.),
rimanevano regolati da legge.
Il CARINCI e
altri (Diritto del lavoro, il rapporto di lavoro subordinato, II, UTET,
1989, p. 61 ss.) si auspicavano al più presto una completa contrattualizzazione
del pubblico impiego. Questa iniziò dapprima moderatamente e poi in modo
completo con il d.lgs. 29/93 e la l. 59\97. Attualmente la materia è regolata
dall’art. 2 commi 2 e 3 del d.lgs 30 – 3 – 01, n. 165. Il Titolo III regola la
contrattazione collettiva. Ai sensi dell’articolo 2/2:” I rapporti di lavoro
dei dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche sono disciplinate dalle
disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del Codice Civile e dalle leggi
sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa[…]. Eventuale disposizione di
legge, regolamento o statuto, che introducano disciplina nei rapporti di lavoro
la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi
contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata non sono ulteriormente
applicabili, salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario.” Il
presente comma ha radicalmente modificato le fonti del diritto di lavoro in
materia di pubblico impiego. Il comma 3
art. 2 d.l.gs 165\01 in particolare stabilisce: “I rapporti individuali di
lavoro [...] sono regolati contrattualmente.”, non lasciando più dubbi di
sorta. Si ritiene che, oltre a ribadire quanto già si è sopra in proposito
affermato, su questo specifico punto la contrattualizzazione completa, specie per
quanto concerne i dirigenti e i direttori generali, necessiti di qualche
aggiustamento. Infatti, poiché la potestà regolamentare di questi due soggetti
amministrativi deve sempre conformarsi alla realizzazione dell’interesse
generale nel pieno rispetto dei diritti dei cittadini, parrebbe più ragionevole
che il rapporto di lavoro delle maggiori cariche amministrative scaturisca
maggiormente da atti rappresentativi della volontà democratica (legge etc.)
piuttosto che da accordi di categoria, molto più adatti a regolare il lavoro di
personale non direttamente coinvolto in processi decisionali. Per altro la
riforma richiederebbe un ripensamento in generale Poiché i contratti collettivi
regolano tutta la disciplina riguardante il pubblico impiego, il rapporto di
lavoro pubblico è completamente soggetto alla contrattazione.
Questo sistema, in altre
parole, se da un lato ha reso la struttura amministrativa più flessibile e
maggiormente capace di adattarsi a nuove situazioni, dall’altro ha introdotto
la temporaneità delle posizioni giuridiche, non solo dirigenziali, perché la
contrattazione si è trasformata in fenomeno costante, con la conseguenza di
aver ostacolato una vera realizzazione dell’interesse pubblico, essendo ormai
l’organizzazione amministrativa continuamente soggetta a trasformazioni, non
sempre necessarie.
Il decreto
legislativo detta, comunque, alcune norme escluse dalla contrattazione in
materia di dirigenti. La carriera dirigenziale è divisa in due fasce. Le
direzioni generali hanno principalmente un compito di coordinamento con le
varie sedi periferiche a loro sottoposte e di raccordo tra l’amministrazione e
gli organi politici del ministero.
I dirigenti di
seconda fascia vengono preposti a unità periferiche o a dipartimenti
ministeriali e sono sotto le dirette dipendenze dei Direttori Generali. Il loro
compito principale consiste nella gestione del personale e delle risorse
finanziarie a essi assegnate e la direzione e il coordinamento dei responsabili
del procedimento amministrativo con potere di sostituzione in caso di inerzia.
Ai sensi
dell’articolo 19 gli incarichi dirigenziali vengono stabiliti con atto
personale e tenendo conto delle attitudini e delle capacità professionali dei
singoli dirigenti. Il conferimento viene dato o dal Presidente del Consiglio
dei Ministri o dal Ministro competente, indicando contestualmente gli obiettivi
da conseguire, le priorità, gli indirizzi degli organi di vertice e i tempi di
realizzazione. In ogni caso tutti gli incarichi sono a termine; tre anni per i
Direttori Generali, cinque per i Dirigenti. Tutti gli incarichi sono
rinnovabili.
Gli incarichi
di funzione dirigenziale strettamente legate a funzioni politiche ( segretario
generale dei ministeri o dirigenti di strutture articolate in più dipartimenti)
decadono dopo novanta giorni dal voto di fiducia al governo (art. 19, comma 8).
Quest’ultimo
potrà in questo modo sostituire o meno tali soggetti. Il mancato raggiungimento
degli obiettivi, imputabile al dirigente, può portare o all’impossibilità di
rinnovo dello stesso incarico dirigenziale o nei casi più gravi alla revoca
dell’incarico (art. 21, comma 1).
In base
all’articolo 28 l’accesso alla dirigenza può avvenire o attraverso un concorso
per esami indetto dalle varie amministrazioni o tramite corso concorso bandito
dalla scuola superiore della pubblica amministrazione. Il requisito
fondamentale è il possesso di diploma di laurea e aver superato una selezione
concorsuale. Dopo sarà obbligatorio seguire un corso di formazione di dodici
mesi.
Altro profilo
importante ormai definitivamente risolto dalla riforma amministrativa è la
separazione tra poteri di indirizzo e controllo, propri del Ministro, e poteri
di attuazione, affidati ai direttori generali. (art. 4, comma 4 d.lgs.
citato). Sulla base di tale principio il Ministro fissa gli obiettivi generali,
mentre i direttori generali e dirigenti sono tenuti allo loro puntuale
attuazione.
In questi
ultimi anni spesso, sulla scorta di questa normativa, sono nati molti
fraintendimenti intorno al concetto, peraltro non giuridico, di obiettivo.
In particolare ci si è posti il problema del rapporto tra l’amministrazione per
obiettivi e il principio di legalità, principio non derogabile in ogni
democrazia. L’interpretazione più equa fa coincidere gli obiettivi con la legalità
stessa o meglio come linea interpretativa della legge vigente. Gli obiettivi
renderebbero operative le normative. In altre parole il Ministro, quale massimo
organo ministeriale appartenente al potere esecutivo, è tenuto alla stretta
osservanza della legge. Il proprio potere di indirizzo riguarda
l’interpretazione pratica della legge. Per esempio il Governo è libero di
finanziare la spesa pubblica che ritiene più opportuna in un determinato
momento socio-economico. Se decide di migliorare i servizi sociali ciascun
Ministro, secondo le proprie competenze, indicherà tale obiettivo,
perfettamente legittimo, come indirizzo per l’attività amministrativa. Questa
interpretazione è l’unica che permette l’armoniosa convivenza tra la legalità e
la libertà politica dei singoli Governi via via eletti. Una volta fissati gli
obiettivi l’attività amministrativa, sulla base del citato articolo, è libera
di realizzarli nei modi e nei tempi più opportuni. Ovviamente tale
discrezionalità non deve portare al completo snaturamento degli obiettivi
governativi.
Il
procedimento d’individuazione degli obiettivi è molto chiaro. Ai sensi
dell’art. 14 il Ministro definisce gli obiettivi, i piani e i programmi
generali e individua i centri di responsabilità tra le diverse unità centrali e
periferiche. Al fine di garantire la separazione tra attività politica e
amministrativa il terzo comma del citato articolo stabilisce: “il Ministro non
può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare
provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti. In caso di inerzia o ritardo
il ministro può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve
adottare gli atti o i provvedimenti. Qualora l’inerzia permanga o in caso di
grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente
che determinano pregiudizio per l’interesse pubblico, il Ministro può nominare
[…] un commissario ad acta […]”. Come si può vedere in ogni caso il Ministro
non può sostituirsi all’attività amministrativa legata in modo rigoroso al
principio di legalità e imparzialità.
Ancora alcuni
aspetti meritano attenzione.
Secondo l’art.
2 le amministrazioni pubbliche conformano la propria attività ai principi dell’efficienza,
efficacia, economicità, flessibilità, comunicazione tra gli uffici,
imparzialità, trasparenza e armonizzazione degli orari di servizio con le
altre amministrazioni pubbliche dei paesi dell’Unione europea. E’ evidente che
l’ articolo ha recepito e sintetizzato tutti i principi, di cui si è
precedentemente parlato. Sfortunatamente l’Italia ha solo parzialmente recepito
la direttiva europea 93\104 che detta diverse norme in questa materia, tra cui
fondamentale l’armonizzazione dei contratti collettivi del lavoro con il
diritto comunitario.
Per quanto
concerne le risorse umane il testo normativo è stato molto attento ai
principi enunciati nella carta sociale europea.
Ai sensi
dell’art. 7 le amministrazioni pubbliche devono garantire le pari opportunità
tra uomini e donne sia per l’accesso al lavoro sia per il trattamento del
personale, principio ampliato dalla recente modifica dell’art. 51 della
costituzione.
Devono inoltre
garantire libertà di inserimento e autonomia professionale per lo svolgimento
dell’attività didattica, scientifica e di ricerca. Si tratta di un principio
fondamentale in piena armonia con
l’art. 33 della costituzione, teso ad impedire che attività in cui si richiede
la massima obbiettività non siano soggette ad orientamenti estranei alla libera
dialettica intrinseca alla ricerca scientifica.
Ultimo
principio stabilisce che la pubblica amministrazione si conformi ai principi
della flessibilità del lavoro con particolare attenzione per chi vive in
situazioni di svantaggio ( handicap, situazioni familiari difficili ecc.. ) o
per dipendenti impegnati in attività di volontariato.
Grande
attenzione è invece data alla formazione del personale tanto che l’art.
7 bis comma 2 stabilisce che ogni anno entro il 30 gennaio tutte le
amministrazioni dello stato e gli enti pubblici non economici ( INPS ecc.. ) devono
presentare un piano di formazione per il personale al dipartimento della
funzione pubblica e al ministero dell’economia e delle finanze.
L’articolo 42
introduce la disciplina sindacale sui luoghi di lavoro richiamandosi
espressamente allo statuto dei lavoratori (Legge 20 Maggio 1970, n. 300) almeno
fino a quando non si stabiliranno delle norme specifiche per il pubblico
impiego. Per l’interpretazione autentica dei contratti l’articolo 49 stabilisce
che siano le parti sindacali a raggiungere un accordo. Nel caso invece non
raggiungano tale accordo, le amministrazioni pubbliche, non i singoli
dipendenti, devono interpellare l’ARAN.