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Lo scrittore
che mi ha rivelato la parola... |
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«Lo scrittore che mi ha rivelato la parola è
stato Maupassant; a tredici anni ho letto una novella che mi ha esaltato, si
chiamava "La cordicella": mi entusiasmava lo splendore smagliante
della parola». Giuseppe Pontiggia confessava la scoperta adolescenziale della
"parola", dello stile come felicità del linguaggio - il
raggiungimento di una profonda tensione espressiva, di una ricca complessità
- che non ha bisogno per ottenere i suoi effetti di scendere
nell'esibizionismo letterario. Niente autocompiacimento, affettazione,
arcaismo nel suo linguaggio. Ma un fabulare semplice, attento ai dialoghi,
agli aggettivi, agli avverbi, ai cambiamenti di passo, alla sintassi, alla
costruzione del periodo. Di tanta sensibilità nei confronti della parola e
della frase, se ne accorse nel '53 Vittorini quando, ricevuto in visione il
romanzo "La morte in banca", ne lodò la fattura e incoraggiò
l'esordiente Pontiggia a dedicarsi alla narrativa. Giuseppe aveva allora
diciannove anni. Ne erano successe di cose fino a quel momento. L'infanzia
trascorsa a Erba, immerso nelle campagne, nei laghi, nei fiumi della Brianza
- spazi che tornano nei suoi libri evocati dal filtro della memoria. La
passione per la recitazione ereditata dalla madre, attrice dilettante in
gioventù, e il gene della bibliofilia trasmesso dal padre, il desiderio -
cioè - di conoscere l'universo attraverso la "biblioteca". La
dolorosa perdita paterna e i trasferimenti, prima in provincia di Varese, poi
nel 1948 a Milano. Nel capoluogo lombardo, il diploma di liceo classico con
due anni d'anticipo e il lavoro impiegatizio in banca per ristrettezze
economiche. L'opera d'esordio "La morte in banca" (pubblicato nel
1959) racconta proprio l'incontro di un ragazzo diciassettenne con il mondo
labirintico della banca. Il protagonista - alias Giuseppe - si confronta con
un'umanità frustrata, è costretto ad entrare in un mondo estraneo ed
inquietante. Cerca all'inizio di poter vivere una doppia vita, di conciliare
esistenza quotidiana ed aspirazioni segrete, ma la sua speranza si rivela un
miraggio. Il primo romanzo dello scrittore è l'unico leggibile in chiave
autobiografica, poco lo interessava il «riprodurre in modo documentario la
vita privata», mentre lo affascinava nell'arte l'atto di inventare, nel senso
etimologico del termine, da "invenire", "trovare":
«trovare sulla pagina qualcosa che non conoscevo e che si rivela per me, e
spero per il lettore, ricco di significato». Così, nelle "Vite di uomini
non illustri" (1993), raccolta di biografie di gente comune redatte
nello stile del referto poliziesco e proposte con la retorica dello stile
"illustre", l'ispirazione a persone conosciute si rifrange subito
nelle sfaccettature di sentimenti, sogni, ricordi immaginari. Nel 1956 prendeva parte fin dalla fondazione alla redazione del
"Verri", rivista d'avanguardia diretta da Luciano Anceschi, nel
1959 si laureava all'Università Cattolica di Milano con una tesi sulla
tecnica narrativa di Italo Svevo, nel 1961 finalmente lasciava la banca e si
dedicava all'insegnamento serale. Gli anni Sessanta segnavano la
collaborazione con Adelphi e con Mondadori, per il quale dirigeva
l'"Almanacco dello specchio". Ha iniziato a svolgere attività
saggistica e critica, si è occupato sia di autori classici - ha tradotto
Ausonio, Microbio, Bonvesin de la Riva - sia di moderni e contemporanei. Nel
1968 pubblicava "L'arte della fuga", inaugurando una felice vena
creativa. La lettura su una rivista di studi classici di una polemica feroce
tra due filologi gli suggeriva il tema del "Giocatore invisibile"
(1978) - descrizione dell'attacco di un lettore anonimo ad un professore
all'apice della sua carriera, con il successivo crollo di certezze culturali
ed esistenziali del docente. Nella narrativa è arrivato a cogliere brillanti successi. Premio
Strega con "La grande sera" (1989), storia dell'improvvisa
sparizione di un professionista, ma soprattutto, storia delle reazioni degli
"altri" messi di fronte all'evento imprevisto che denuda vite fatte
di pieni illusori e di vuoti reali. Premio SuperFlaiano con "Vite di
uomini non illustri". Premio Campiello con "Nati due volte"
(2000), romanzo dedicato al tema dell'handicap senza patetismi o toni
edificanti. In questo libro, un padre narra il suo rapporto con il figlio
spastico e le relazioni di padre e figlio con parenti, medici, scuola:
«quello che racconto è l'handicap di tutta la società, che non lo sa
affrontare, perché rifiuta il senso del limite». Ai romanzi Ponteggia ha affiancato raccolte di saggi: "Il
giardino delle esperidi" (1984), "Le sabbie immobili" (1991),
"L'isola volante" (1996), "I contemporanei del futuro. Viaggio
nei classici" (1998). Qui lo scrittore ci parla di Pindaro e di Verne,
di Lucano e di Baudelaire, di Borges e di Pessoa, degli scacchi e della
stupidità insita nella società italiana, i momenti migliori rimangono quelli
in cui svela i classici della letteratura, mostra paesaggi inconsueti, oppure
obbliga a guardare con occhi nuovi un autore che si credeva di conoscere. Nell'opera letteraria di Pontiggia la fuga è un motivo che
ricorre spesso. Il protagonista de "La morte in banca" conquista la
maturità con la consapevolezza che non può evadere e che deve vivere la sua
esistenza perseguendo con determinazione la costruzione di un'altra alternativa.
"L'arte della fuga" evoca nel titolo sia una partitura musicale di
variazioni intorno a un tema sia la fuga nel suo significato letterale.
«L'uomo tende a fuggire dal presente, dalla vita che conduce, dall'ambiente
che lo circonda, per vivere altre vite, o immaginarie o effettive. Penso che
quello che manca all'uomo è la capacità di non fuggire, di aderire al
presente. La consapevole accettazione del presente è una meta sapienzale sia
in Oriente che in Occidente. La fuga è il fallimento di questa possibilità, è
un modo di evadere in un luogo che può essere immaginario o reale, ma che
spesso è un alibi». Di sicuro Giuseppe Pontiggia non è fuggito. A colmare la
sua scomparsa restano i suoi scritti, la sua lucidità, la sua ironia. Angelo Sica |