SALUTE MENTALE E POTERI DEL MERCATO
di Agostino Pirella
Docente di psichiatria, Università di Torino
Ho iniziato a lavorare in psichiatria
quando i primi psicofarmaci entravano in scena. Erano gli anni Cinquanta e
stava cominciando la crisi della soluzione manicomiale, durata un secolo e
mezzo. Appariva evidente la nocività del lungo internamento e i giovani
psichiatri erano affascinati dalle prospettive che aprivano sia la psichiatria
sociale che le psicoterapie delle psicosi. Sullo sfondo restava l'impostazione fenomenologico-esistenziale che derivava da un eccesso di
riflessione filosofica e da una reale impotenza di fronte alla disumanità degli
asili.
La clorpromazina,
sintetizzata in Francia per fini anestetici, veniva
testata su pazienti psichiatrici sfruttandone i poteri sedativi. Il farmaco infatti provocava una sonnolenza molto diversa da quella
dei barbiturici e molto meno pericolosa.
Anche
alcuni sintomi psichiatrici sembravano essere interessanti. I deliri si attenuavano, il comportamento si riordinava, divenendo però
come "ingessato". Si scoprì poi che alcune reazioni erano dovute all'interessamento delle aree extrapiramidali,
e cominciammo a preoccuparci per reazioni avverse come la caduta della
pressione arteriosa, l'azione tossica sulla funzionalità epatica e sul
metabolismo dei glucidi. Ma l'efetto collaterale più
invalidante a distanza si ebbe con le manifestazioni che furono chiamate
"discinesia tardiva", e cioè movimenti
involontari degli occhi, del capo e della lingua che provocavano ovviamente una
grave disabilità sociale.
Inizia l'era farmacologica in
psichiatria
L'era farmacologica
era così cominciata e vi furono sempre nuovi farmaci da "'provare"
senza particolari precauzioni metodologiche ( caso-controllo, doppio cieco) che
sarebbero state predisposte successivamente. Nel corso
delle esperienze di deistituzionalizzazione si potè sperimentare che, con bassi dosaggi di psicofarmaci e
di partecipazione collettiva dei pazienti alle iniziative sociali, si
ottenevano esiti molto positivi. I pazienti
riprendevano la parola ed esprimevano capacità di leadership e di autocontrollo nel corso delle assemblee e nelle
iniziative di lavoro e di svago. Man mano che proseguivano le esperienze di
riabilitazione che si arricchivano di strumenti operativi, permettendo ai
pazienti di divenire protagonisti nella difesa della propria salute, il
dosaggio degli psicofarmaci diminuiva correlativamente
fino ad estinguersi.
Si moltiplicavano tuttavia le offerte
di sempre nuovi psicofarmaci, con pretese di "specificità" (farmaci
"deriliolitici", "disinibitori"
etc). Le pressioni delle Case farmaceutiche, in
confronto ai metodi attuali, apparivano moderate e singolarmente rispettose dei
limiti in cui tali pressioni possono essere
esercitate. In particolare, per quanto riguarda la pubblicità, essa era
limitata, almeno in Europa, alle riviste specialistiche ed alla preparazione di
piccoli testi elogiativi.
Con la crisi del paradigma
psichiatrico istituzionale, che apriva la strada ad una psichiatria
riabilitativa territoriale, intervenne, a partire dagli anni Sessanta e
Settanta, se non una vera e propria crisi un ridimensionamento del ruolo dello
psicofarmaco in favore di altre "tecniche"
di cura e di riabilitazione, tra cui la stessa terapia, individuale e di
gruppo.
Il ruolo della partecipazione ai
programmi riabilitativi, il diritto dei pazienti all'informazione e all'accesso
alle risorse disponibili, quali la casa, il lavoro e la socialità, in un
processo di liberazione, hanno rappresentato una vera alternativa al trattamento
inquadrato nel modello medico, relegandolo, in molti casi, a funzione
accessoria e residuale.
Legami delle Case farmaceutiche con ambienti accademici e la ricerca
A distanza di alcuni
anni, pur dopo esperienze molto dimostrative in diversi contesti, tra cui il
nostro Paese, l'adesione acritica e strumentale della psichiatria ai metodi
delle neuroscienze (rigorosi, ma necessariamente
limitati ad aree non contigue alla pratica psichiatrica) ha proposto con forza
sia il rilancio delle teorie biologiche della malattia mentale che del modello
terapeutico farmacologico Così i "nuovi"
antidepressivi, i "nuovi" antipsicotici furono lanciati non solo come
efficaci ( o più efficaci dei precedenti) ma come risolutori esclusivi ed
assoluti. Ciò attraverso un progetto totale di tipo pubblicitario, secondo le
regole di mercato, che ha comportato la revisione
sostanziale degli strumenti di lancio del farmaco, insieme a costi elevati ed
altrettanto elevati profitti. E' stato calcolato che le spese per questo settore
di informazione e di diffusione arrivano al 30%
del fatturato (Garattini).
Vorrei ricordare la copertina di un
numero di "Newsweek" dei primi anni
novanta. Veniva richiamata la "guarigione"
miracolosa di quattro -diconsi quattro- casi di
psicosi dopo la prescrizione di un nuovo neurolettico. Che cosa avrebbe dovuto scrivere allora questo settimanale delle
esperienze italiane di riabilitazione o di quelle di Loren
Mosher in Usa? Appariva evidente un legame di qualche
tipo con le case farmaceutiche, così come le strategie di sviluppo del
mercato comportavano il finanziamento di ricercatori esterni ad esse fino ai legami con le Università e gli ambienti
accademici, di recente richiamati criticamente dall'autorevole "new England Journal of Medicine". In esso
leggiamo:
"C'è ora una considerevole
evidenza che i ricercatori con legami con le Case farmaceutiche sono in realtà
i più adatti a riferire risultati favorevoli ai prodotti di quelle aziende
rispetto a ricercatori senza quei legami. Ciò non prova conclusivamente che i
ricercatori sono influenzati dai loro legami con l'industria. Comprensibilmente
le Case farmaceutiche cercano (seek out) ricercatori
che capita ottengano risultati positivi. Ma io ritengo
che la distorsione (bias) sia la spiegazione più adatta,
e in entrambi i casi è chiaro che più sono entusiasti
i ricercatori e più è sicuro che essi siano finanziati dall'industria.
Molti ricercatori pretendono di essere oltraggiati dalla sola idea che i loro
legami finanziari con l'industria potrebbero influenzare il loro lavoro. Essi
insistono che, come scienziati, possono rimanere obiettivi, non importa quanto siano blanditi. In breve, essi non possono
essere "comprati" nel senso di un "quid pro quo". E' che
questa stretta e remunerativa collaborazione con un'azienda industriale
naturalmente crea benevolenza da parte dei ricercatori e la speranza che l'elargizione
continui. Questo atteggiamento può sottilmente influenzare il giudizio
scientifico in modi che possono essere difficili da identificare " E qui
l'autrice si pone una domanda cruciale. "Possiamo noi realmente ritenere
che i ricercatori clinici siano più immuni verso i propri interessi delle altre
persone?" (1)
L'articolo prosegue con l'analisi di
ciò che può accadere all'interno delle istituzioni in cui divengono confusi e
indistinti ("blurred" gli scopi commerciali
dell'industria e la mission delle scuole mediche. E'
evidente come gli studenti in medicina vengano
addestrati a ritenere la soluzione farmacologica
come la principale rispetto alle altre forme di risposta, più complesse e
difficili da realizzare all'interno della relazione rigida di tipo medico,
ereditata dal paradigma storico della psichiatria asilare.
Che questo stia
avvenendo in modo massiccio, è dimostrato dall'assoluta prevalenza di
indicazioni farmacologiche per tutta una serie di
disturbi psichiatrici in cui l'esperienza dimostra l'utilità e l'efficacia di
metodiche diverse. Prendiamo
ad esempio la depressione come disturbo. Intanto non è così semplice
distinguerla da una demoralizzazione, come da un semplice sintomo di altra condizione, anche organica. Ma
in tutti i casi, una forma di psicoterapia o di supporto è assolutamente
indispensabile. La cosa è trascurata dall'enfasi sul
trattamento farmacologico e sulla discussione su
quale tipo di farmaco antidepressivo sia il più efficace. Quando si interpella un ricercatore sciolto da legami con le case
farmaceutiche invariabilmente viene evidenziato questo aspetto. E' il caso, tra
gli altri, di Jan Scott,
che fina dal 1995 sul "British Journal of Psychiatry" rilevava l'efficacia dei diversi
trattamenti psicoterapeutici. (2)
Anche per
quanto riguarda gli antipsicotici, l'enfasi sui "nuovi" farmaci è
molto forte. Ciò accade ovviamente da parte delle case farmaceutiche
interessate e degli psichiatri in qualche modo da esse
condizionati, ma - un po' a sorpresa - anche da parte delle associazioni delle
famiglie che desiderano che il Servizio sanitario nazionale rimborsi gli alti costi del trattamento.
Eppure
abbiamo assistito - scrive autorevolmente Silvio Garattini
- ad una "campagna trionfalistica per i nuovi antipsicotici, seminando
l'idea che i vecchi non avevano più significato e che i nuovi dovevano essere
utilizzati come prima linea". "Troppe volte i farmaci - continua Garattini - in omaggio ad una legge europea che non è stata
modificata dalla recente revisione da parte del
Parlamento europeo, sono approvati senza avere un adeguato numero di studi. La
loro approvazione non tiene conto di quanto già esiste nell'armamentario
terapeutico corrente; raramente si fanno confronti adeguati e mai si richiede
che i nuovi farmaci siano migliori di quelli già esistenti". A questo proposito Garattini rileva -
cosa ampiamente nota ma mai abbastanza conosciuta - i gravi effetti collaterali
attribuiti ai nuovi antipsicotici: aumento ponderale fino a 10 Kg (ndr: credo si tratti di un errore di stampa. Probabilmente microgrammi), rischio di morbilidà
e mortalità cardiovascolare, tendenza a sviluppare diabete. Per uno di essi (clozapina) c'è anche un rischio
significativo di agranulocitosi che può portare al
decesso. Secondo Garattini ci deve essere più
attenzione per il rapporto benefici-rischi. Infine c'è da osservare l'enorme
spesa per questi nuovi farmaci: 168 milioni di euro
nel 2003 contro 12 milioni per i vecchi: in sostanza il 46% delle prescrizioni
determina il 92% della spesa. (Fonte: OsMed:
Osservatorio nazionale sull'impiego dei medicinali, Ministero
della salute) (3).
**La valutazione dell'efficacia e gli
intrecci degli interessi
C'è una singolare contraddizione tra
lo stato di realtà delle ricerche sulla correlazione tra disturbi mentali (o
più largamente studi sul funzionamento celebrale con nuove tecniche di indagine) e base biologica di essi e l'enfasi con cui i
mass media danno per accertata una genesi organica dei disturbi stessi, con la
necessità di trattamenti farmacologici. La traduzione
di questo messaggio fallace, in termini di diffusione culturale nella
popolazione da una parte e della pratica inerte e ripetitiva sul versante delle
relazioni terapeutiche degli specialisti, rappresenta il tentativo di un
completo dominio della non santa alleanza ("unholy
alliance" di Loren Mosher) tra le associazioni psichiatriche e l'industria
farmaceutica. Vediamo quindi che la psichiatria ha medicato la sua crisi
aggrappandosi alle neuroscienze, con una evidente forzatura dei limiti entro cui poteva muoversi
dopo il fallimento storico della proposta istituzionale rappresentata
dall'esclusione dei malati mentali negli asili manicomiali.
Mentre il DSM ha venduto 2,5 milioni
di copie ed è stato tradotto in ben 21 lingue, dettando norme di inquadramento diagnostico coerenti con le prescrizioni farmacologiche, in un ambiguo confronto impari con il
sistema nosografico dell'OMS/WHO (ICD), l'uso
propagandistico dei progressi delle ricerche sul funzionamento celebrale tanta
di travolgere ogni pratica che si fondi sulla relazione del servizio con il
paziente ed il suo contesto. Perfino la dimostrazione che un trattamento
psicoterapeutico sia efficace quanto e anche più di un trattamento farmacologico nella depressione (Scott,
1995) si blocca di fronte alla misurazione del tempo da dedicare al paziente e
dei costi complessivi della cura.
Non c'è dubbio che considerazioni sui
livelli dei costi possano (e forse debbano) essere attentamente valutati dai
programmatori dei servizi e dagli stessi tecnici. E
tuttavia si dovrebbe poter spostare la questione al di fuori del modello
esclusivamente medico che contrappone la prestazione di un singolo specialista
a quella di un altro. Le esperienze degli ultimi decenni e la nuova attenzione
per le ricerche di psichiatria culturale ci portano a considerare i fattori che
ostacolano o favoriscono la diffusione di trattamenti di gruppo, le iniziative
di supporto, le attività collettive di socializzazione
delle conoscenze. Il trattamento considerato efficace è quello esclusivamente
erogato dal curante/esperto mediante prescrizione di psicofarmaci e/o di
psicoterapia "manualizzata" (così si definisce una psicoterapia
autorizzata e tecnicizzata). Eppure le esperienze di deistituzionalizzazione
e quelle più esplicitamente riabilitative hanno dimostrato la loro efficacia
anche fuori da questo paradigma valutativo duale.
Tutte le ricerche sull'"efficacia simbolica" (espressione coniata da Lèvi-Strauss a proposito di una complessa cerimonia del
popolo Cuna per la risoluzione di parti difficili) come pure la descrizione di
cerimonie risolutive di conflitti, stanno a dimostrare
l'utilità per la salute mentale di ciò che si muove nel campo socio-culturale
sottratto al dominio del mercato mondiale degli psicofarmaci.
Così è, per esempio, anche nel mondo
occidentale per il Postraumatic Stress Disorder, che viene trattato nel National Center for PTSD di
Washington (per reduci di guerra) con diverse cerimonie, che rievocano fasi
diverse di una storia comune a tutti i partecipanti. "Se può essere
ammessa in via di principio - scrive Roberto Beneduce
- l'efficacia terapeutica di simili cerimonie, che sostengono l'individuo nello
sforzo di dominare e "accreditare" una definizione comune di quanto
gli è accaduto, bisogna riconoscere al tempo stesso che quelle cerimonie lo
coinvolgono profondamente anche nella ideologia della
retorica che fondano l'uso di una categoria e la sua riproduzione " (4).
Non sfugge in questa particolare esperienza, infatti, la relativa riconduzione
della cerimonia dentro le logiche della continuità dell'esperienza di guerra e dunque all'interno di un universo
"militare" con le sue peculiari caratteristiche.
Resta
da verificare per quali motivi si sono potute affermare come
"scientifiche" e "golden standard" metodiche ampiamente
deficitarie, come per fortuna si stanno evidenziando. Mosher afferma in modo più reciso di quanto non abbia fatto
il NEJM: "I protocolli di ricerca usati negli studi su psicofarmaci
richiesti per l'approvazione del FDA si suppone vengano
rivisti dagli Institutional Review
Boards (IRB's) per essere
sicuri che questi studi non pongano rischi indebiti au
soggetti di studio. Membri di questi Boards sono
stati trovati essere consulenti altamente pagati dalle Case farmaceutiche i cui
protocolli essi stessi rivedono. Così essi hanno ovvi
conflitti d'interesse e non sono obiettivi revisori privi di condizionamenti
nei confronti di studi su psicofarmaci sui quali esercitano un parere"
(5).
Anche E. Valenstein, nel suo bel lavoro Blaming
the Brain, dà una lucida descrizione degli intrecci
tra Case farmaceutiche, psichiatri ed ambienti della ricerca accademici (6).
Il DSM e il "disturbo da attenzione" nei bambini
Abbiamo accennato al ruolo del manuale
diagnostico Usa nel rinforzo delle tendenze a separare l'osservazione e il
trattamento dai contesti di vita e dalle modalità che
i soggetti usano per far fronte alle difficoltà inerenti. Non si tratta solo di
dinamiche familiari o sociali in senso stretto (cioè
quelle direttamente sperite da soggetti interessati
nei loro rispettivi ambienti). Risultano altrettanto
importanti per la salute mentale i mutamenti di scenario, la crisi della
cultura del gruppo di appartenenza, le vicende dello sradicamento dalle
abitudini consuete, il dominio della cultura di massa, le difficoltà
economiche, le silenziose sofferenze dei ripetuti traumi diffusi e poco
valutati dai sistemi diagnostici (incidenti stradali, infortuni sul lavoro, malattie
croniche invalidanti).
Tra questi fattori che ho chiamato di
scenario acquista un ruolo di primo piano la scuola e
il suo funzionamento in relazione alla salute mentale dell'infanzia. E'
incredibile come il termine "funzionamento" sia stato ormai adottato
dal DSM e dalla terminologia psichiatrica e psicologica corrente per indicare
modi di comportamento e di adattamento alle
situazioni, mentre poco o nulla viene dichiarato per quanto riguarda il
"funzionamento" della famiglia e della scuola. All'inverso un modello
medico esasperato affina le diagnosi e le sottodiagnosi (nonchè
le terapie farmacologiche o comunque
di impronta tecnica) fino a raggiungere vertici difficilmente raggiungibili di
sofisticazione a dir poco ossessiva.
Nell'ultimo parto della diagnostica
Usa per quanto riguarda l'infanzia e l'adolescenza (prontamente ed
ossequiosamente introdotto in Italia) (7) si giunge ad elencare ben sette tipi
e sottotipi del disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, a seconda della prevalenza di uno o di un
altro dei "sintomi" rilevati. A ciò si è giunti superando lo
stesso DSM IV, aggiungendo all'elenco il disturbo da comportamento dirompente e
il disturbo oppositivo provocatorio. Insomma il
dominio medico psichiatrico invade anche il campo della pedagogia! Ma, a parte
ciò, i "sintomi" elencati sono quasi sempre
richiesti con un avverbio incredibilmente vago e soggettivo: essi debbono
essere presenti "spesso" (often).
A ciò si aggiunga anche il verbo
"sembrare". Ad esempio: "spesso non
sembra ascoltare quando gli si parla direttamente". Altri esempi sono
quasi ridicoli - se non fossero tragici - : "è
spesso "sotto pressione" o agisce come se fosse
"motorizzato". L'atomizzazione di queste
osservazioni non partecipi è altissima: i sintomi sono ben diciotto. Per
la diagnosi ne sono necessari dodici.
L'efficacia del trattamento con metilfenidato (un farmaco a struttura ed azione
anfetaminica) è ampiamente discutibile. Peter Bregging, che alla
questione ha dedicato un importante ricerca, mai pubblicata in Italia (8),
riferisce i dati conclusivi di una review (1992-93) a
cura di un sostenitore, J.M. Swanson,
sulla diagnosi e sul trattamento con metilfenidato.
Ecco i risultati:
* Non sono stati verificati benefici
effetti a lungo termine dalle ricerche
* Gli effetti a
breve termine con stimolanti non dovrebbero essere considerati una
soluzione dei sintomi cronici del disturbo da deficit di attenzione
* Il trattamento stimolante
può migliorare l'apprendimento in alcuni casi ma peggiorarlo in altri
* In pratica le dosi prescritte di stimolanti possono essere troppo alte per ottimi effetti
sull'apprendimento e la lunghezza dell'azione della maggior parte degli
stimolanti è vista come troppo breve per influenzare i risultati scolastici.
Le conclusioni finali sono assai
deludenti e corrispondono con quelle di altri autori
favorevoli al trattamento: non vi sono ampi effetti sulle abilità (skills) o sui processi di ordine elevato. Non c'è
miglioramento nell'adattamento a lungo termine.
Si può affermare che la diagnosi di
DDA, con i suoi connessi, è una diagnosi psichiatrica inconsistente e
pericolosa. Inconsistente per le modalità con cui si
determina, pericolosa per le conseguenze sociali di una diagnosi psichiatrica
socialmente stigmatizzante e per il trattamento che mette a rischio la salute
mentale del bambino. Di ciò dovevano essere persuasi gli elaboratori del
sistema diagnostico ICD dell'OMS/WTO, quando limitavano la diagnosi di
"Disturbo dell'attività e dell'attenzione" con le seguenti
osservazioni piene di cautela, assolutamente mancanti nell'approccio Usa: "Esiste tuttora incertezza circa la suddivisione
più soddisfacente delle sindromi ipercinetiche. Comunque studi longitudinali mostrano che l'esito
dell'adolescenza e nell'età adulta è molto influenzato dall'eventuale
associazione con aggressività, delinquenza o comportamento antisociale.
Pertanto la suddivisione principale viene fatta in
base alla presenza/assenza di queste caratteristiche associate". Appare
evidente qui la preoccupazione per gli esiti a distanza dell'inquadramento
diagnostico associato ad un trattamento farmacologico.
Psicofarmaci ai bambini
A questo proposito, si sta assistendo
ad una diffusione, presso i pediatri e i neuropsichiatri
infantili, di trattamenti farmacologici a largo
raggio anche con farmaci esplicitamente "sconsigliati" dai prontuari
farmaceutici. Ed è di questi giorni (23 Aprile 2004)
una messa a punto del National Institute
of Mental Health americano
sulla restrizione all'uso dei nuovi antidepressivi nell'infanzia, eccetto la fluoxetina. Da alcune ricerche si sarebbe riscontrato un
tasso di suicidi più elevato nei trattati con antidepressivi che nei non
trattati. La nota osserva che che "c'è stato un
drammatico aumento negli ultimi anni nell'uso di antidepressivi
nei bambini e adolescenti di età compresa tra 10 e 19 anni". Appare
evidente la cautela con cui si muovono gli esperti del NIMH, nel sottolineare come sia difficile valutare questo aumento e
come però dai clinical trials
siano già esclusi i soggetti con rischio di suicidio o che l'abbiano già
tentato. Poi aggiungono che "la psicoterapia è il trattamento di prima
scelta per il trattamento della depressione nei bambini ed adolescenti" (9)
Meno attenti all'aggiustamento
diplomatico due interventi, anche questi recentissimi, del Lancet
(24 Aprile) (10) e del Canadian Medical
Association Journal (2 marzo) (11). Il Lancet accusa: "L'uso degli antidepressivi di nuova
generazione (SSRIs, Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) per trattare la depressione
nell'infanzia è stata incoraggiata dalle Case
farmaceutiche e dai clinici di tutto il mondo. Il mese scorso il Canadian Medical Association Journal ha rivelato estratti da un memorandum
interno della GlaxoSmithKline che dimostrava come la
Casa cercasse di manipolare i risultati di ricerche
pubblicate. A proposito di uno studio sull'uso della paroxetina
nei bambini, il memorandum afferma: "Sarebbe inaccettabile includere
una dichiarazione che l'efficacia non è stata dimostrata in
quanto ciò metterebbe in pericolo il profilo della paroxetina".
"L'anno scorso - prosegue il Lancet - il
Comitato sulla sicurezza dei farmaci dell'UK proibì il trattamento della
depressione infantile con ogni tipo di SSRI eccetto la fluoxetina.
A dispetto di ciò la FDA negli Usa la settimana scorsa non ha agito
appropriatamente sull'informazione che le è stata fornita sull'inefficacia e
pericolosità per i bambini di questo farmaco".
Il CAMJ dal canto suo aveva fornito
una documentazione riservata della GlaxoSmithKline
molto compromettente e dimostrava della subordinazione della sicurezza e della efficacia del trattamento alle esigenze della
diffusione sul mercato di un prodotto. Ecco un passo del memorandum, già in
precedenza citato: "Il CMA (Central Medical Affairs Team) della Casa
farmaceutica citata raccomanda alla ditta di "gestire efficacemente la
disseminazione di questi dati allo scopo di minimizzare ogni potenziale impatto
commerciale negativo". La rivista aggiunge che la spesa per il farmaco in
questione (Seroxat) ammonta a circa 4,97 miliardi di
dollari nel 2003 in tutto il mondo. Lo studio 329, condotto negli Usa dal '93
al '96, fu il più ampio trial sull'uso di un SSRI
nella popolazione pediatrica. I risultati indicavano che la paroxetina
non era più efficace del placebo. Addirittura in uno studio condotto in Europa
e Sud America, il placebo risultava più efficace del
farmaco. Il CMA citato ha poi organizzato un meeting dell'European College of Neuropsychopharmacology
nel 1998 in cui sottolinea che si debbono riportare
risultati positivi ("sarebbe commercialmente inaccettabile includere
affermazioni di inefficacia").
La cosa grottesca e drammatica al
tempo stesso è rappresentata dal fatto che lo studio in questione è stato poi
pubblicato (12). Gli autori concludono che la paroxetina "è generalmente ben tollerata ed efficace
per la depressione maggiore in adolescenza". Sui 93 casi di adolescenti ci furono 5 casi seri di "labilità
emozionale" (cioè idee i gesti di suicidio). Sui 95 casi che prendevano un
antidepressivo tradizionale (tofranil) ci fu un solo casi di questo tipo e tra gli 89 con placebo pure
solo uno. Un'agenzia indipendente britannica (Britain's Medicines and Healthcare Regualtory Authority, MHRA)
avvisò i medici nel giugno 2003 che la paroxetina non
si sarebbe dovuta prescrivere in soggetti sotti i 18
anni, per l'evidenza di suicidio da 1,5 a 3,2 più alta in coloro in trattamento
con il farmaco rispetto al placebo. Seguirono rapidamente la
Francia e l'Irlanda. Non si fa menzione dell'Italia, ma speriamo che si
sia uniformata prontamente a questa decisione presa in Europa. L'MHRA ha bandito l'uso negli adolescenti e
nell'infanzia di tutti i SSRI tranne la fluoxetina e
sta valutando l'uso di questi farmaci negli adulti. Una stima stabilisce in 11
milioni gli americani e in 3 milioni i canadesi che assumono antidepressivi.
La strategia delle Case farmaceutiche
Il problema fondamentale, accanto a
quello dell'orientamento massiccio e talvolta esclusivo della scelta del
farmaco da parte degli specialisti in psichiatria, è
quello denunciato ancora una volta dal Lancet. Chi
assicura l'obiettività degli studi quando il presidente dell'organizzazione, in
Gran Bretagna, che recluta volontari per le ricerche (John
Bell, capo della UK Boibank) è anche direttore della Casa farmaceutica Roche?
In aggiunta, continua il Lancet, la maggior parte dei
finanziamenti richiesti per completare il progetto viene da fonti industriali.
"Con questo livello di coinvolgimento, si sentirà veramente obbligata una
Casa farmaceutica a pubblicare informazioni sulla inefficacia
di uno dei prodotti?"
Ma il
problema non sta solo in questa sovrapposizione. A dispetto di tutte le
ricerche che dimostrano la non grande superiorità
nell'efficacia di uno psicofarmaco sul placebo e soprattutto sui farmaci più
tradizionali, vi sono giornali e riviste di grande tiratura che sembrano degli
inserti pubblicitari. Vorrei segnalare come esempio deteriore di questo tipo,
l'inserto del "Corriere della Sera" del 4 aprile scorso, che sotto il
titolo incredibile di "Medicina per il buon umore", nel riaffermare
la certezza della genesi organica della depressione ("La carenza di serotonina causa disturbi del sonno,
irritabilità. La carenza di noradrenalina
(che regola attenzione e vigilanza) può contribuire al senso di affaticamento e
al calo dell'umore. Queste conoscenze hanno permesso la messa a punto di
farmaci, il cui scopo è riequilibrare la disponibilità
e il funzionamento nel cervello di queste sostanze chimiche") addirittura
allarga all'80-90% il tasso di pazienti che "rispondono al
trattamento" mentre afferma ottimisticamente che "quasi tutti i
pazienti sottoposti a terapia ottengono il miglioramento quantomeno di alcuni
sintomi". Un capitoletto intende poi tranquillizzare sulla sicurezza degli
SSRI a proposito dei rischi di suicidio, senza in
alcun modo accennare alla grave questione cui si è fatto cenno sopra. Il titolo
è infatti eloquente: "Le pillole diminuiscono il
rischio di suicidio". Come abbiamo visto, almeno per quanto riguarda gli
adolescenti, gli studi hanno dimostrato che ciò non corrisponde a verità. Il
fatto è che il farmaco soffre ad essere considerato una merce come tutte le
altre.
E proprio questa riduzione a
merce è
stata denunciata qualche anno fa dal Guardian a
proposito di un SSRI che non trovava uno sbocco
adeguato. Come si fa per un prodotto qualsiasi, la ditta in questione (guarda
caso la GlaxoSmithKline) ha affidato a un'agenzia competente, la Cohn
& Wolfe, la promozione del prodotti. "Il
modus operandi della GlaxoSmithKline
- scrive il Guardian - è tipico dell'era post-Prozac: promuovere il mercato di una malattia
piuttosto che vendere il farmaco". Attraverso campagne volte ad attirare
persone insicure ed in crisi a riconoscersi in una nuova malattia del DSM, il
disturbo d'ansia generalizzata (GAD) con l'ausilio di pubblicità ma anche con
partecipazione a trasmissioni televisive di grande ascolto, è stato creata
l'attesa per una risposta farmacologica al disturbo
che è stato anche chiamato "fobia sociale" ma anche, con una elegante metafora "allergia per la gente".
Una
volta preparato il terreno ed ottenuta l'approvazione
da parte delle autorità, il farmaco è stato gettato sul mercato (ovviamente
preparando anche gli specialisti a prescriverlo) Il Guardian,
che riprende un articolo del periodico Usa Mother Jones, cita con nome e cognome i ricercatori che, pur
essendo nel libro paga della Casa farmaceutica, si spacciavano per esperti
indipendenti. Risultato: nel giro di due anni il paxil
aveva soppiantato un altro farmaco concorrente come numero due nelle vendite
dopo la fluoxetina.
Interessante da riportare: il successo
della campagna Cohn & Wolfe
non sfuggì all'industria. I giornali commerciali plaudivano alla GlaxoSmithKline per aver creato una "forte posizione
anti-ansia" assicurando un brillante futuro al paxil.
Si è parlato di "espandere il mercato dell'ansia" e si sono fatte
previsioni sui profitti, stimati per il 2009 a 3 miliardi di dollari. Se questa
è salute mentale.... (13)
Nota bibliografica
1)
M. Angell, Is
Academic Medicine for
2)
J. Scott,
Psychological Treatment for Depression, British
Journal of Psychiatry, 1995, 167, 289-292
3) S. Garattini, Maggiore prudenza sui
nuovi medicinali, Il Sole 24 ore, Sanità, 16-12 marzo 2004
4) R. Benedice, Frontiere dell’identità e della memoria, Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Franco
Angeli, 1998 (pag. 121)
5)
L. Mosher, How Drug Company Money Has Corrupted Psychiatry, www.antipsychiatry.org/mosher.loren.1.htm
6)
E. Valenstein, Blaming the Brain, The truth about Drugs and Mental Health, The
Free Press,
7) J.L. Rapoport, D.R.
Ismond. DSM-IV, Guida alla diagnosi dei disturbi dell’infanzia e
dell’adolescenza, ed. it. A cura di V. Caretti, N. Dazzi, R. Rossi, Masson 2000
8)
P.R. Bregging, Talking back to ritalin, Common Courage Press, Monroe, 1998 (pagg
101-102)
9)
NIMH, Antidepressant
Medications for Children: Information for Parents and Caregives, www.nimh.nih.gov/press/Stmntantidepmeds.cfm