I Piani personalizzati
Il
richiamo ad una necessaria attenzione “personalizzata” alle caratteristiche
cognitive degli allievi, agli stili di apprendimento, alle attitudini ed alle
motivazioni fa ormai parte integrante della professionalità di ogni docente.
Vogliamo infatti ricordare che il principio dell’individualizzazione
dell’insegnamento è stato introdotto dalla legge 517/’77 e che per individualizzazione
dell’insegnamento s’intende un “principio guida”, un metodo di lavoro
secondo il quale la scuola deve seguire i processi di insegnamento in relazione
alle specifiche caratteristiche di ogni singolo alunno. Si tratta cioè di un
“principio regolativo”, che dovrebbe guidare tutti i docenti ad individuare
modalità di insegnamento adatte alla realtà sociopsicologica e culturale di
ciascun allievo, sulla base della considerazione che ogni soggetto ha
caratteristiche e stili di apprendimento diversi da quelli degli altri.
Il
principio dell’insegnamento individualizzato (ampiamente recepito anche
nei programmi del 1985 della scuola elementare) è stato introdotto con il fine
di garantire meglio - a ciascuno - il diritto all’istruzione. Infatti parlando
di insegnamento individualizzato si fa soprattutto riferimento a
soggetti con problemi (handicap, disadattamento, svantaggio socioculturale)
nella prospettiva di avvicinare agli altri i soggetti deboli e in difficoltà.
Questo discorso vale in modo particolare in riferimento a quello che più
specificamente viene definito svantaggio: deprivazione socioculturale,
problematiche sociolinguistiche, problemi familiari, carenze
adattivo-educative, problemi economici, problemi relativi all’atteggiamento
della famiglia nei confronti della scuola e della cultura. In tal modo, facendo
leva sulle singole diversità, si tende a creare una situazione di uguaglianza
delle opportunità (e degli esiti), conquistabile attraverso itinerari di
apprendimento personalizzati e complementari.
Naturalmente, progettare un insegnamento a misura dei singoli non è semplice, anche perché si tratta di gestire un insegnamento individualizzato, ma non individuale, quindi un insegnamento collocato nel contesto sociale della classe. E la classe è generalmente un gruppo numeroso, con soggetti a livelli diversi, che presentano diversità comportamentali, di atteggiamenti, di carattere, di esperienze pre ed extra scolastiche. L’individualizzazione, utilizzando approcci interpersonali, tecniche e materiali adeguati, è perciò una meta a cui la scuola cerca, attraverso le sue pratiche migliori, di avvicinarsi. Le esperienze didattiche diffuse nelle scuole in questi decenni hanno in concreto dimostrato che, attraverso l’individualizzazione o la personalizzazione dell’insegnamento, si eleva il livello di apprendimento degli allievi.
Ma
se questa meta, cui la scuola con competenza e responsabilità deve tendere,
diventa una scelta di impianto “strutturale”, cambia profondamente il senso e
l’obiettivo della “personalizzazione”. Definire, nel titolo, gli indirizzi
curricolari come: “Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati” vuol
dire rendere “prescrittiva” la diversificazione dei percorsi e dei risultati,
rimandando a classi o gruppi di allievi differenziati per livelli di capacità.
Pur
se l’obiettivo dichiarato nei documenti è di favorire il massimo sviluppo
personale e pur se le differenze sono ripetutamente richiamate in positivo,
osserviamo che manca la messa a fuoco del rapporto dialettico fra diversità e
uguaglianza (l’uguaglianza nella diversità), con il rischio che la
personalizzazione si traduca in una scuola organizzata per gruppi stabilmente
distinti per interesse, livello, attività ecc…, anche in vista delle successive
scelte di studio.
Inoltre i piani personalizzati fanno prevalere una idea di scuola come puro “servizio alla persona” ovvero alle famiglie - il cui richiamo nei documenti appare del tutto improprio, strumentale e sproporzionato rispetto ai compiti e ai ruoli previsti -, annullando il senso e la funzione del sistema educativo pubblico, per ridurlo ad una mera contrattazione tra le parti.
Tale
scelta compie inoltre una forzatura dello stesso impianto della legge (art. 8,
Dpr 275/99) che delinea con più compiutezza le regole di costruzione del progetto
formativo nelle scuole italiane.
Il portfolio
I diversi testi introducono un Portfolio delle competenze individuali, che documenti sin dall’esperienza scolastica più precoce il processo di conquista di tali acquisizioni, destinato ad accompagnare il bambino anche nei suoi futuri percorsi di apprendimento.
Nel merito, riteniamo che se il Portfolio viene inteso come ricerca aperta di forme valutative nuove, capaci di descrivere, accompagnare, promuovere le competenze degli allievi (in un’ottica metacognitiva), potrà nel tempo diventare uno strumento interessante e utile per il docente e per lo studente. Il rischio tuttavia è che il portfolio si trasformi in uno strumento amministrativo destinato a segnare precocemente tutto il percorso scolastico degli allievi, generando il classico effetto Pigmalione e influenzando in modo non corretto le successive valutazioni. In questo caso il portfolio diverrebbe un mezzo per definire e sancire precocemente i destini dei bambini. Ravvisiamo comunque il rischio che possa diventare un inutile e burocratico aggravio di lavoro per i docenti e un terreno di impropria “collusione” di responsabilità educative di genitori e insegnanti, che invece devono restare distinte.
Molti docenti legittimamente si chiedono quanto tempo richiederà il lavoro di compilazione dei documenti, dove sarà conservata la mole di elaborati prodotti da bambini e ragazzi, come “accogliere” le valutazioni di genitori e studenti.
Non ci convince il modo con
cui si intende affrontare il problema dell’organizzazione del tempo della
scuola (e della sua ipotizzata riduzione) nell’ambito dei documenti
programmatici. Tale materia ha un evidente valore pedagogico e didattico, ma
anche un forte impatto sociale: basti pensare che il tempo pieno nella scuola
elementare riguarda attualmente più del 25 %
degli allievi, con situazioni locali superiori al 50 %.
Una questione così delicata
non può dunque essere “trattata” in una pagina inserita a ll’interno di documenti programmatici,
in paragrafi su “vincoli e risorse” di opinabile valore giuridico. Al riguardo
ricordiamo che i genitori, interpellati in occasione degli Stati Generali, si
sono espressi contro la riduzione o la trasformazione del tempo scuola (cfr.
Annali dell’Istruzione, Stati generali 2001, Le Monnier, 1-2, 2001: cap.
V – Piani di studio, Tavola 5.7 – pag. 218 - “Suddivisione dell’orario
scolastico settimanale in 25 ore obbligatorie e in 10 ore facoltative”:
solo il 18,6 % dei genitori si è espresso a favore di questa ipotesi
caldeggiata dalla Commissione di esperti).
Riteniamo importante una riflessione sui saperi e sulle conoscenze fondamentali, anzi condividiamo la percezione che la scuola in questi anni sia stata sovraccaricata di funzioni genericamente socializzanti ed educative, a scapito della sua preminente funzione culturale. Ma un curricolo “essenziale” non si qualifica per la riduzione del tempo scuola o per una manovra di semplice alleggerimento e sfoltimento dei contenuti disciplinari, quanto piuttosto attraverso una ricerca (delle scuole autonome) in ogni ambito del sapere per individuare significativi percorsi di apprendimento, capaci di stimolare operazioni cognitive, formative e durature, in grado di interpretare ogni dimensione della riflessività, creatività, espressività umana, di arricchire i linguaggi e le modalità comunicative, di favorire la capacità di argomentazione e metodi sempre più autonomi di studio.
Perciò la prospettata
riduzione dei tempi scolastici obbligatori - con ipotesi che oscillano, a
seconda dei documenti, tra 25, 27, 30 ore settimanali - rischia di impoverire
la possibilità di realizzare esperienze didattiche di qualità, assicurando a
ogni allievo l’integrazione tra sollecitazioni operative, sociali, culturali e
la progressiva e graduale organizzazione delle conoscenze.
E’ presente nei documenti
la proposta di distinguere nettamente il tempo scuola obbligatorio comune
da quello facoltativo, dedicato ad attività trasversali di laboratorio,
espressive ecc.
L’ipotesi desta legittima contrarietà, sia per la diversa configurazione giuridica dei tempi della scuola - che può rendere marginale l’offerta formativa della scuola stessa, un bene “negoziato” con gli utenti -, sia perché il tempo scuola obbligatorio sembra caratterizzarsi come tempo della “trasmissione” delle conoscenze, centrato su metodologie frontali di insegnamento (infatti, nella scuola primaria è finanche bandito il concetto di compresenza). Accanto al tempo obbligatorio c’è il tempo del laboratorio, inteso non come spazio di ricerca e di approfondimento, luogo delle metodologie interattive ma, di fatto, tempo dello svago, della ricreazione, delle libere attività complementari cui assegnare, appunto, un ruolo marginale e secondario.
Nella scuola tutto questo era stato superato almeno da un ventennio, da quando si decise di eliminare le “attività integrative pomeridiane” previste dalla legge 820/1971 e le “libere attività complementari” nella scuola media, a favore di una progettazione realmente integrata delle diverse opportunità formative.
Avanziamo perciò forti preoccupazioni circa il modello proposto di tempo scuola, imperniato, nella scuola media, su una soglia-base di 900 ore annue (circa 27 ore settimanali) dedicata alle discipline fondamentali, ulteriormente variabile nel limite del 15%, e non compensata dall’incerta quota aggiuntiva di 200 ore (circa 6 ore settimanali), dedicata all’“arricchimento” o “ampliamento” del percorso obbligatorio e demandata alla negoziazione con i ragazzi, le famiglie e il territorio. Ancora più elusiva appare la previsione del tempo scolastico obbligatorio per la scuola primaria.
Resta inoltre il fondato dubbio che il quadro nazionale delle discipline fondamentali (cui si aggiungono 6 educazioni) sia compatibile con il complessivo contenimento del tempo-scuola che viene prospettato, anche per l’introduzione di una ulteriore soglia-minima individuale di frequenza che non trova riscontro nel nostro ordinamento.
Ciò non significa che nella attuale organizzazione del tempo scolastico del ciclo di base non ci siano aspetti da riesaminare, questioni da approfondire, elementi da modificare. Ma tale riflessione richiederebbe l'avvio di un processo di ricerca, di approfondimento critico, di partecipazione ampia di cui invece non c’è minima traccia nei documenti attuali.
Sarebbe quindi opportuno aprire un dibattito - non solo tra gli addetti ai lavori - relativo ai tempi della scuola, in grado di cogliere nuovi bisogni e nuove domande. C’è da chiesi quali siano oggi i tempi di vita, di relazione e di apprendimento dei bambini, nelle famiglie, nella città; come utilizzare il tempo scuola per qualificare meglio l'ambiente di apprendimento; come costruire un progetto educativo a misura di ogni allievo, senza entrare in una logica di separazione, di competizione e di esclusione.
Si va diffondendo, ad esempio, l’idea che il tempo della scuola debba essere una variabile sempre più flessibile, mano a mano che si procede nel corso degli studi: dagli anni iniziali del ciclo di base, ove va assicurata una giornata educativa distesa e fortemente unitaria (sull’esempio del tempo pieno europeo), agli anni terminali, ove si possono favorire scelte più personali e autonome dei ragazzi con la regia progettuale della scuola.
Gli insegnanti sono interessati al dibattito, ma chiedono che una questione “pedagogica” (come articolare i tempi della scuola e rendere più equilibrata ed efficace la loro gestione) non si trasformi in una questione “ideologica” (tempo della scuola-istituzione contrapposto al tempo della società-comunità) e, soprattutto, che una nuova organizzazione del tempo scuola non diventi la premessa per una consistente riduzione delle risorse di personale.
Una attenzione a parte merita la questione del “tempo pieno” nella scuola elementare, in virtù della sua rilevanza sociale e della sua storia, fondamentale per l’innovazione di tutta la scuola primaria. Esprimiamo perciò forte perplessità circa il “silenzio” dei documenti su questo tema, sulla fragilità di molte delle esemplificazioni di modelli orari e organizzativi, sulla scarsa conoscenza, come si evince dai testi, delle modalità di funzionamento delle classi a tempo pieno (si giunge perfino ad aumentare il numero dei docenti operanti in esse e a introdurre differenziazioni di funzioni scarsamente motivate). Il tempo pieno dovrebbe invece continuare ad essere un “laboratorio per l’innovazione”, a patto che gli si consenta di sviluppare la sua naturale attitudine alla ricerca e alla sperimentazione, anziché rinchiuderlo nel recinto dei reperti del passato.
La
continuità educativa
Vogliamo segnalare che l’articolazione del ciclo di base secondo lo schema 1+2+2 e 2+1 non trova riscontro né nei documenti preparatori elaborati dalla Commissione di studio, coordinata dal professor Bertagna, né nelle esperienze migliori degli Istituti comprensivi (a cui non si fa mai cenno nei documenti). Tale soluzione (introdotta nell’ordinamento con scelte affrettate e mai seriamente motivate) accantona ogni idea di continuità tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, pur comprese nella comune dizione di “primo ciclo” dell’istruzione, limitando illegittimamente l’autonomia delle scuole in materia di organizzazione scolastica e di curricolo verticale. Ricordiamo, in proposito, che il 42 % delle scuole di base è strutturato in verticale negli istituti comprensivi.
L’individuazione di obiettivi specifici di apprendimento per ogni “periodo didattico” (con 5 “tavole” di obiettivi lungo tutto il corso di base) appare un inutile appesantimento, configurando una declaratoria di obiettivi didattici fortemente intrusiva rispetto alle esigenze di progettazione didattica. Una simile articolazione, invece di rafforzare la formazione di base e offrire respiro concettuale alle pratiche di continuità, sanziona la separatezza tra scuola elementare e media. L’impianto prescelto per la scuola media, articolata in un biennio iniziale e in un “monoennio” finale, appare del tutto incomprensibile e foriero di una ulteriore frammentazione del progetto curricolare.
Si enfatizza il momento della “rottura” (epistemica, curricolare, organizzativa) tra la scuola elementare, pervasa dall’approccio “primario” all’esperienza conoscitiva, e la scuola media, caratterizzata dall’organizzazione “secondaria” e “modellizzata” della conoscenza (senza peraltro motivare in modo convincente questa polarizzazione).
Si
definisce poi un ultimo anno “orientativo” della scuola secondaria di I° grado
(con un’interpretazione nettamente riduttiva del concetto di orientamento),
che rischia di prefigurare il ripristino di una precoce canalizzazione degli
allievi verso tre filiere formative nettamente separate: i licei, gli indirizzi
professionali, lo studio “in alternanza” con il lavoro.
Vogliamo segnalare infine
che la discontinuità strutturale, dalla scuola dell’infanzia alla scuola media
(che non ha nessuna giustificazione pedagogica), indebolisce l’idea regolativa
della necessaria gradualità e progressività dell’apprendimento-insegnamento:
dalla globalità dell’esperienza alla sua sistemazione/traduzione nei codici
simbolici dei saperi formalizzati.
L’impianto
culturale della scuola di base (primo ciclo)
Il dibattito sulla scuola di base che ci ha accompagnato negli ultimi anni, anche per la sollecitazione dei documenti europei sulle prospettive di sviluppo dei sistemi educativi (dai Libri bianchi di Delors e Cresson al Memorandum sull’Istruzione e formazione del Consiglio Europeo di Lisbona, 2000), si è incentrato sulla necessità di valorizzare la formazione e le competenze di base per rendere più coerente e solida l’istruzione di tutti, per garantire la padronanza dei linguaggi e delle abilità fondamentali (i saperi procedurali, le competenze logico linguistiche) e una prima organizzazione del sapere (le cosiddette conoscenze “dichiarative” progressivamente organizzate nelle discipline).
Condividiamo
l’esigenza di rafforzare i livelli di alfabetizzazione funzionale e di offrire
una padronanza adeguata di conoscenze e abilità nel campo della lingua, della
matematica e delle scienze. Ma desta preoccupazione l’incuria dei documenti
rispetto ai compiti formativi di una scuola di base che vuole “pesare” di più
nella formazione dei cittadini: oggi si tratta di insegnare ai ragazzi a
muoversi in uno spazio culturale e simbolico sempre più complesso e ricco di
segni, oggetti, immagini, tecnologie.
Non traspare dalle Indicazioni una interpretazione evoluta (non ripiegata cioè su formule comportamentiste, né su un vacuo moralismo) dei modelli di apprendimento e della connessione tra aspetti cognitivi, sociali ed affettivi. Non viene mai sottolineato il valore formativo delle discipline di studio, il loro effettivo promuovere processi cognitivi, mentre si coglie un ritorno a pratiche didattiche minuziosamente contenutistiche. Manca, inoltre, una necessaria coerenza sul piano metodologico.
A questo proposito vogliamo sottolineare che una didattica laboratoriale, operativa, di stile cooperativo non può essere relegata solo ai momenti facoltativi ed aggiuntivi del curricolo.
La
prospettiva curricolare consente l’organizzazione e la traduzione dei sistemi
simbolico-culturali in discipline di studio, in funzione dell’apprendimento ai
diversi livelli di età. Le discipline sono interpretate in un’ottica
“formativa”, non perché genericamente aperte alle trasversalità o alla
dimensione sociale ed operativa della conoscenza, ma perché, caratterizzandosi
come contesti operativi e simbolici, “disciplinano” gradualmente l’intelligenza
e la conoscenza, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria superiore.
Riteniamo che nei documenti questo carattere di verticalità e processualità del
curricolo non sia sufficientemente esplicitato, essendo stata preferita una
rigida demarcazione tra dimensioni primarie e secondarie della
conoscenza. In particolare, appare del tutto sottovalutato l’apporto della
scuola dell’infanzia allo sviluppo dell’apprendimento e della conoscenza.
L’autonomia
ha, infatti, determinato nuove condizioni di esercizio e di governo dei
diversi livelli di progettazione curricolare, riferiti all’offerta formativa di
ogni scuola, alla elaborazione dei curricoli disciplinari, alla definizione di
coerenti percorsi verticali. Occorre perciò garantire alla scuola effettive
condizioni operative per alimentare la ricerca sul curricolo.
I
documenti nazionali non possono imbrigliare gli spazi di ricerca autonoma delle
scuole nel campo del curricolo. Essi devono, semmai, definire alcuni essenziali
traguardi prescrittivi, da raccordare con le pratiche valutative “esterne” e
con gli standard di funzionamento (art. 8-Dpr 275/99). La scuola dell’autonomia
dovrebbe portare il suo originale contributo al potenziamento e allo sviluppo
del sistema nazionale di istruzione e formazione, con esperienze e modelli
organizzativi significativi, osservabili e comparabili. Solo il rispetto
dell’autonomia delle scuole consentirà di attribuire un corretto significato
alla “valutazione del sistema di istruzione” attraverso “verifiche
periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla
qualità complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche e
formative”, cosi come previsto dalla legge 53/2003.
Riteniamo
inoltre necessario un sistema valutativo coerente con le scelte pedagogiche e
culturali, per evitare sia la pretesa della misurabilità di ogni prestazione
scolastica, sia l’uso tecnico (e politico) improprio che si fa dei dati forniti
da un sistema nazionale di valutazione basato esclusivamente su prove
standardizzate. Agli operatori scolastici vanno forniti incentivi che stimolino
un lavoro di ricerca (dipartimenti disciplinari con figure di coordinatori,
risorse per consulenze qualificate, rapporti con sedi universitarie e di
ricerca, tempo di lavoro). Vogliamo ricordare che le Associazioni
professionali, nel loro pluralismo culturale e metodologico, rappresentano un
luogo di ricerca e di crescita professionale, un ambiente integrato di
apprendimento per gli insegnanti, ove mettere a confronto “buone pratiche”, ma
anche sviluppare un impegno etico per la realizzazione delle finalità
costituzionali della scuola pubblica.
Auspichiamo
pertanto che nei futuri piani di formazione in servizio sia attivamente sollecitato il contributo
critico degli insegnanti e delle loro libere Associazioni e siano evitate
inutili somministrazioni di “pacchetti confezionati” ed unilateralmente
progettati, fidando magari nelle potenzialità e nella economicità dei metodi
e-learning (formazione a distanza). L’uso delle nuove tecnologie (per le quali
si devono garantire
una pluralità di fonti e di piattaforme, nonché trasparenza e varietà delle
sedi di produzione scientifica e didattica), dovrebbe essere accompagnato da
una forte investimento sulle competenze professionali e culturali del mondo
della scuola e della ricerca. La formazione deve trasformarsi in un processo di
ricerca-azione, dove abbiano spazio prioritario le domande degli insegnanti, le
loro esperienze, il confronto con fonti didattiche accreditate ed autorevoli,
il gusto della ricerca e del confronto delle diverse ipotesi scientifiche e
didattiche.
Siamo
preoccupati che la formazione, sulla quale sono da investire risorse
finanziarie rilevanti, si possa trasformare in una serie di eventi mediatici e
comunicativi al limite dell’azione di marketing, senza che sia dato adeguato
rilievo alla partecipazione attiva dei docenti, delle loro rappresentanze
professionali, del mondo della ricerca.
Gli obiettivi di apprendimento
Esprimiamo forti perplessità sul complessivo impianto concettuale che dovrebbe sorreggere il passaggio dagli obiettivi specifici agli obiettivi formativi in funzione delle competenze da acquisire. Lamentiamo una eccessiva frammentazione degli obiettivi, dovuta anche alla scelta di dividere il percorso formativo (dai 3 ai 18/19 anni) in una serie di bienni e monoenni, ciascuno corredato da uno specifico e troppo rigido elenco di conoscenze e abilità, con il rischio di togliere ogni respiro educativo e culturale all’esperienza didattica oltre che autonomia alla progettazione scolastica.
Il quadro delle conoscenze e delle abilità appare
troppo generico e confuso nella sua descrizione, presenta molte ingenuità
semantiche e sovrappone piani concettuali diversi: accanto a conoscenze (intese
come contenuti e concetti) figurano strategie, procedure, attività. In alcuni
casi si definiscono come obiettivi specifici quelle che invece sono finalità.
Manca un ordine progressivo di sviluppo degli
apprendimenti e non si evince quali
materie siano obbligatorie e quali opzionali.
Ma c’è un ulteriore motivo che rende difficile
l’analisi dei contenuti educativi proposti: è l’ambiguità della natura stessa
di ciò che si legge. Il documento propone, disciplina per disciplina, e poi,
educazione per educazione, l’elenco delle «conoscenze e delle abilità» che la
scuola deve trasformare in “competenze”. Non è però chiaro se si tratti di
«obiettivi specifici di apprendimento» che la scuola deve trasformare in
«obiettivi formativi», con i quali strutturare i piani di studio personalizzati
(com’è ampiamente esposto nelle pagine che li precedono), oppure se si tratti
di «livelli essenziali di prestazione a cui tutte
le scuole […]del Sistema nazionale di Istruzione sono tenute». Resta l’incertezza
di un documento che oscilla tra indicazioni puramente orientative ed elenchi
fortemente prescrittivi.
Infatti in un punto del documento troviamo scritto: “non hanno alcuna pretesa validità per i casi singoli, siano essi le singole istituzioni scolastiche o, a maggior ragione, i singoli allievi…” Ma in altro punto leggiamo: “ All’inizio del primo e del secondo biennio il SNV procede alla valutazione esterna, sia agli elementi strutturali del sistema, sia ai livelli di padronanza mostrati dagli allievi nelle conoscenze nelle abilità raccolte negli obiettivi specifici di apprendimento indicati per la fine del primo e del terzo anno”.
Ci si chiede: se gli obiettivi non sono prescrittivi il Servizio Nazionale di Valutazione su quali indicatori tarerà le sue prove? Su obiettivi considerati in astratto? Occorre dunque più chiarezza perché su questo terreno, che sta impegnando anche gli altri sistemi scolastici europei, si gioca la scelta fra un sistema nazionale di valutazione che sostiene e orienta un’autonomia della collaborazione e della responsabilità e un sistema di valutazione che condiziona e premia un’autonomia della competitività fra scuole, impegnate non tanto a far meglio delle altre sul piano organizzativo e didattico, ma a procurarsi preventivamente quegli allievi che garantiscano risultati migliori, indipendentemente dall’efficacia degli insegnamenti.
Sarebbe, allora, utile precisare come le educazioni si intreccino con le discipline: si prevedono ore a parte o le ore di “educazioni” si sovrappongono a quelle disciplinari? Ci si chiede inoltre con quale criterio siano state scelte le educazioni: perché trascurare, per esempio, una educazione al corretto consumo o all’intercultura, vista la natura sempre più multiculturale della nostra società?
Nel merito degli obiettivi specifici per le singole
educazioni, facciamo presente che richieste fortemente specialistiche
metterebbero i docenti nella necessità di far intervenire esperti esterni alla
scuola. Ma sapendo che l’esperto esterno non possiede le competenze didattiche
necessarie all’apprendimento, quale sarà il vantaggio di una simile educazione
alla Convivenza civile?
Scuola dell’infanzia
La tradizione instauratasi con l’istituzione della scuola materna statale e con i relativi Orientamenti del 1968 e i successivi Orientamenti del 1991, tendeva a stabilire una proposta programmatica orientativa e non prescrittiva, per il timore di irrigidire eccessivamente le attività didattico-educative della scuola dell’infanzia.
Le Indicazioni nazionali invece dichiarano, nel sottotitolo, il loro carattere prescrittivo “Le Indicazioni esplicitano i livelli essenziali di prestazione a cui tutte le Scuole dell’Infanzia del Sistema Nazionale di Istruzione sono tenute per garantire il diritto personale, sociale e civile all’istruzione e alla formazione di qualità”, con il rischio di dare a questa scuola una dimensione troppo “scolasticistica” e “valutativa”.
Riteniamo perciò che gli obiettivi specifici di apprendimento dovrebbero indicare un impegno preciso, ma non ossessivo, dell’insegnante in vista del loro conseguimento/consolidamento in competenze, altrimenti il pericolo di avviare un processo di differenziazione precoce tra i soggetti, che tali competenze dovrebbero conquistare, è reale. L’importanza e la funzione fondamentale della scuola dell’infanzia sta proprio nella sua capacità di mettere in atto processi di compensazione delle differenze e degli svantaggi per superare le disuguaglianze di partenza sin dai primi anni.
Le Indicazioni riprendono parzialmente i “campi d’esperienza” dei vigenti Orientamenti, ma risultano impoveriti e nel contempo particolarmente esemplificati. Vogliamo anche sottolineare che quelle che nel testo del ’91 erano le tre finalità della scuola dell’infanzia nelle Indicazioni vengono ridotte a obiettivi generali del processo formativo, con una sostanziale differenza in termini di valore.
Inoltre, nel documento si
afferma che i docenti di sezione svolgono anche la funzione di tutor, come
se tale funzione fosse aggiuntiva e non connaturata all’essere docente. E
poiché in relazione alla scelta dell’anticipo delle iscrizioni alla scuola
primaria si fa riferimento al tutor che ha seguito l’evoluzione del bambino e
il riferimento è al singolare sebbene entrambi gli insegnanti svolgano la
stessa funzione, c’è da chiedersi: per tale compito di “consigliere” dei
genitori si farà riferimento a uno solo dei due docenti? Uno dei due avrà un
ruolo più “istituzionale” dell’altro?
Facciamo anche notare che l’impiego di “eventuali convenzioni con gli Enti locali per la costituzione, quando è possibile, di sezioni con bambini di età inferiore ai tre anni e di raccordo con asili nido” appare un vincolo organizzativo fittizio, visto che è previsto in termini di eventualità, di possibilità. Fra l’altro, tale indicazione determinerà forti disomogeneità a livello nazionale, tra le aree che avranno più possibilità di altre, a discapito ulteriore della - ormai disattesa - generalizzazione della scuola dell’infanzia.
Ci chiediamo infine quale criterio pedagogico abbia ispirato la decisione di non considerare rilevante la scuola dell’infanzia ai fini del Profilo educativo, culturale e professionale dello studente, dal momento che essa non solo viene esclusa (si parla infatti di un percorso dai 6 ai 14 anni) ma non viene mai nominata (salvo un riferimento nelle righe di sintesi).
In merito agli obiettivi specifici ci sembra che alcuni punti rimandino ad una visione troppo ideologica che non può essere condivisa.
“Soffermarsi sul senso della nascita e della morte, delle origini della vita e del cosmo, della malattia e del dolore, del ruolo dell’uomo nell’universo, dell’esistenza di Dio a partire dalle diverse risposte elaborate e testimoniate in famiglia e nelle comunità di appartenenza” (Il sé e l’altro, punto 7).
Esprimiamo stupore e dissenso per la precoce problematizzazione di temi come la malattia, il dolore, la morte, che non possono trovare un senso condiviso e che sono di difficile, se non impossibile, soluzione da parte degli stessi adulti, a meno che non si rifacciano ad una concezione religiosa o filosofica determinata.
Non ci sembra corretto proporre un precocissimo confronto su temi etico-religiosi, sapendo che le risposte non possono che venire dalle famiglie di appartenenza, con il rischio di creare differenziazioni e di accentuare l’appartenenza alle diverse tradizioni familiari.
Analoga contrarietà avanziamo anche sul punto 3 (Il sé e l’altro): “Accorgersi se, e in che senso, pensieri, azioni, sentimenti dei maschi e delle femmine mostrano differenze e perché”. Ci sembra infatti un modo arretrato e stereotipato di porre la questione sull’identità di genere e sui ruoli maschili e femminili.
Rileviamo infine che non viene mai messo in luce il problema dei bambini stranieri, o la questione del dialetto o di una lingua minoritaria (come unica lingua o con bilinguismo lingua locale/italiano). La diversità di queste situazioni è totalmente ignorata: non c’è infatti un contenuto o un obiettivo che faccia riferimento a ciò. Come ignorata è l’educazione linguistica, unitamente a quella scientifica e a quella logico- matematica, che fa emergere una sottovalutazione della dimensione cognitiva, ampiamente presente invece nei Campi d’esperienza degli attuali Orientamenti.
Scuola
primaria
Le
Indicazioni individuano una fondamentale motivazione culturale della scuola
primaria: l’acquisizione di linguaggi e conoscenze che accompagnino il
“fanciullo” dalla dimensione del “sapere comune” a quella del “sapere
scientifico”, in direzione di apprendimenti formali e di categorie formali.
Ma l’impostazione strutturale del documento e la minuziosa indicazione di contenuti rischiano di favorire una precoce “secondarizzazione” del curricolo, che appare una forzatura vista l’età dei bambini, di cui non si considera la necessità di una lenta e graduale costruzione della conoscenza.
Vogliamo segnalare che una delle conquiste più importanti per gli insegnanti di scuola elementare è la piena corresponsabilità nella conduzione delle classi e la pratica della collegialità professionale, due innovazioni di “costume” professionale condivise dalla riforma del 1990 (Legge 5-6-1990, n. 148 ora nel T.U. del 1994)
La legge n. 53/2003 nulla dice circa le caratteristiche del lavoro di team dei docenti, ormai tipico di tutti i livelli scolastici: appaiono perciò del tutto “fuori misura” le previsioni contenute in alcuni documenti di lavoro (ed anche nel paragrafo “risorse e vincoli” delle Indicazioni nazionali) circa il superamento di concetti di contitolarità, di pari dignità professionale, di corresponsabilità educativa, che hanno retto (e bene!) in questi anni la vita della nostra scuola elementare.
Ricordiamo
che lo “stile collaborativo” viene anche apprezzato dai genitori (cfr. Annali
dell’Istruzione, Stati generali 2001, Le Monnier, 1-2, 2001: cap. III –
Proposte per la riforma, Tavola 3.2 – pag. 203). Alla domanda sul modello
didattico il 60,0 % dei genitori (il 66 % dei maestri elementari) risponde di
preferire la formula di “più maestri specializzati che si dividano equamente
l’orario”, rispetto ad altre formule: il maestro unico o prevalente, ad
esempio.
Disporre
di una pluralità di figure e di relazioni educative è dunque considerata dalle
famiglie e dagli insegnanti un’opportunità di arricchimento e di crescita per i
bambini. Appare quindi una forzatura introdurre, nei documenti, modelli
organizzativi rigidi che ripristinano, di fatto, la figura del docente unico,
costellato da alcuni (o tanti) “specialisti” con poche ore settoriali dedicate
a discipline particolari (Lingua straniera, Musica, Educazione motoria e
altro). L’idea dell’équipe docente dovrebbe essere invece favorita e
salvaguardata in tutti i livelli scolastici: è infatti una scelta progettuale e
non semplicemente relazionale. Non basta curare le buone relazioni tra i
docenti di un team, occorre un progetto culturale comune, da cui far
discendere una strategia didattica chiara e scelte metodologiche complementari
e coerenti.
In
questa prospettiva ci paiono riduttive e confuse le considerazioni che vengono
svolte in favore di un docente “tutor”, unico responsabile della classe e della
“tenuta” educativa di un gruppo di allievi. Vorremmo che fosse chiaro che
quando si parla di funzioni tutoriali ci si riferisce ad aspetti assai diversi
della vita della scuola: possiamo avere (non solo nella scuola elementare)
funzioni di “tutoring”, cioè di orientamento e di accompagnamento
dell’alunno per stimolarne la motivazione, facilitarne la comunicazione,
sostenerne l’apprendimento (soprattutto nei casi dei bambini più “deboli”). Le
strategie tutoriali, infatti, mirano a valorizzare le potenzialità dell’alunno,
le sue capacità, l’impegno, anche in particolari settori di interesse poco esplorati.
Il tutoring richiede perciò un alto livello di professionalità, di
competenze relazionali, di gestione della classe, di padronanza dei “saperi”
che non si improvvisano e non sono certamente legati ad una particolare
vocazione al “maternage”.
Queste importanti funzioni dovrebbero essere svolte da tutti i docenti dell’équipe di classe, con modalità affidate all’autonomia di ricerca delle scuole, senza che siano imposti modelli professionali gerarchizzati.
Un
altro aspetto da considerare riguarda il coordinamento dell’équipe docente,
una funzione che dovrebbe essere valorizzata in tutti i livelli scolastici,
verificando –anche contrattualmente - quali siano le condizioni, le modalità,
gli incentivi atti a sostenere modelli di arricchimento professionale e di
efficacia nella gestione collegiale.
Siamo convinti che solo una piena corresponsabilità professionale dei docenti consente di costruire un vero “ambiente educativo di apprendimento”, in cui promuovere processi di scambio, di costruzione, di interazione, dove sia presente una pedagogia della “compiutezza” e della collaborazione e non della parcellizzazione: unità di apprendimento a sé stanti, schede ed esercizi per disciplina, orari non comunicanti. Questi sono i rischi di un modello organizzativo dettato dall’alto, dove la divisione delle funzioni viene imposta, dove le scelte non sono negoziate, dove il gruppo viene vissuto come un peso e non come una risorsa.
Riteniamo
per questo fondamentale ripensare alla pluralità degli insegnanti come ad una
vera risorsa educativa.
Un buon team di scuola elementare
rappresenta un ambiente ideale per lo sviluppo di una professionalità docente
responsabile, che evita la solitudine dell’insegnante e lo impegna nella
ideazione, gestione e verifica di un progetto educativo condiviso.
In merito agli obiettivi specifici di apprendimento ci limitiamo in questa parte ad alcune considerazioni, limitatamente ad alcune discipline, a titolo esemplificativo delle osservazioni precedentemente avanzate.
Italiano
Dagli obiettivi proposti si ricava l’intenzione di ridimensionare la riflessione sulla lingua per tornare ad un insegnamento prevalentemente formale e grammaticale dell’italiano, quasi fosse pensato in funzione del latino. Fin dai primi anni infatti, le competenze linguistiche sono identificate soprattutto come categorie grammaticali, sovente scollegate dallo sviluppo delle abilità. Addirittura è stato introdotto un generico “grammatica e sintassi”, senza che si capisca quale sia il criterio di classificazione adottato e quale rapporto questa voce abbia con le altre nozioni grammaticali, indicate nella stessa colonna. Vogliamo sottolineare che la riflessione sulla lingua gioca un ruolo fondamentale per la crescita complessiva dell’individuo, perché sviluppa la capacità di riflettere sull’atto comunicativo, sul pensiero, su quelle operazioni cognitive che influenzano i processi mentali e i comportamenti. Inoltre, privilegiare il modello metalinguistico tradizionale a scapito di altri modelli rimette in discussione acquisizioni teoriche largamente condivise e diffusamente presenti nella pratica didattica.
Storia.
Riteniamo che anticipare agli ultimi due anni della scuola primaria ciò che attualmente si insegna in prima media è una proposta che sottovaluta le difficoltà che la struttura del testo storico e del sistema del sapere storico oppongono alla capacità di comprensione dei bambini. Inoltre la scelta dell’asse cronologico lineare rischia di essere improduttiva per la formazione di una cultura storica: i bambini di quella età non riescono a mettere ordine tra i fatti che non sia quello della successione temporale, a discapito dei quadri cronologici
Rispetto ai programmi del 1985 osserviamo un complessivo arretramento: risultano impoveriti gli aspetti formativi e didattici a vantaggio di quelli più nozionistici e disciplinari. Inoltre la visione eurocentrica della storia diventa un’occasione mancata per una educazione interculturale che dovrebbe essere un obiettivo fondamentale della nuova scuola. Emerge infine la volontà di anticipare troppo, mentre sarebbe fondamentale, dal punto di vista formativo, dare più tempo e spazio a tutti gli aspetti propedeutici allo studio della storia.
Le conoscenze e gli obiettivi di apprendimento proposti non sembrano rispettare le tappe evolutive dell’alunno: non c’è un’adeguata attenzione agli aspetti relativi allo sviluppo sensoriale, motorio e percettivo, decisivi per poter sviluppare e potenziare le capacità espressive, comunicative e creative del bambino.
E’ inoltre sottovalutata la dimensione dello sviluppo percettivo visivo, inteso come educazione al vedere e all’osservare, che costituisce oggi, nella società multimediale, un’abilità centrale per sviluppare competenze di lettura (denotativa/connotativa) delle immagini e di produzione con i linguaggi della comunicazione visiva.
Non
risultano chiari gli apporti interdisciplinari, in particolare con l’area
linguistica, musicale, motoria, scientifica ecc., necessari per potenziare le
capacità percettivo/sensoriali e sviluppare un uso integrato dei codici,
indispensabile anche per leggere e comprendere il linguaggio audiovisivo e
multimediale.
Gli
obiettivi relativi all’alfabetizzazione ai linguaggi dell’immagine, cioè
l’acquisizione di capacità espressive attraverso la conoscenza degli strumenti
e delle regole del linguaggio visuale, risultano sovradimensionati rispetto
alle capacità di concettualizzazione dei bambini, che a quella età non hanno
ancora pienamente sviluppato le categorie cognitive del simbolico/astratto.
Matematica e Scienze
Ci sembra eccessiva la quantità delle conoscenze e degli obiettivi da perseguire rispetto alle ore che saranno effettivamente dedicate alla matematica e alle scienze. Un eccesso di contenuti favorisce una impostazione superficiale, nozionistica, che non sollecita un approccio di tipo operativo-laboratoriale e trascura i processi di apprendimento dei bambini e la relazione didattica.
Scienze motorie e sportive: dove sono finite la psicomotricità e l’educazione psicomotoria?
Vogliamo
ricordare che i punti di forza della scuola media, soprattutto a partire dagli
interventi normativi degli anni settanta (decisiva al riguardo la L. 517/1977)
sono costituite dalla programmazione educativo-didattica, che traduce i
Programmi in percorsi/strategie volti a contestualizzare, individualizzare,
integrare l’insegnamento/apprendimento; dalla collegialità che
caratterizza l’attività di programmazione e garantisce la coerenza degli
interventi, l’unitarietà del processo di apprendimento/insegnamento, la pari
dignità e valenza formativa di tutte le discipline che concorrono in ugual
misura alla realizzazione della mediazione didattica e alla formazione di tutti
gli allievi; dall’individualizzazione intesa come principio regolatore
dell’azione didattica stessa.
Le
Indicazioni sembrano invece non considerare gli elementi portanti che hanno
costituito l’asse pedagogico-didattico-culturale della scuola media e
dell’intero ciclo di base.
Dai
documenti traspare infatti una programmazione con un ridotto campo
d’azione, diventando solo la trasposizione degli obiettivi specifici in
obiettivi formativi.
La collegialità scompare del tutto (non si ravvisano indizi nelle Indicazioni), aprendo fra l’altro la questione complessa della titolarità della responsabilità dell’azione educativa, dal momento che i Piani personalizzati rimandano ad altri soggetti (docente tutor, famiglie, studenti) le scelte da compiere, attraverso una impropria quanto ambigua negoziazione delle parti, che porrà non pochi problemi di natura pedagogica, professionale, culturale.
Il
valore formativo dell’individualizzazione si deforma (di ciò abbiamo
precedentemente argomentato).
Registriamo quindi la volontà di non prendere atto delle esperienze più significative di questo grado di scuola, la sottovalutazione dei suoi punti di forza, il disconoscimento degli elementi che ne hanno determinato la crescita.
Vediamo così affermarsi il rischio di una gerarchizzazione tra discipline, tra insegnanti, tra percorsi di studio all’interno di un contesto scolastico privo di organizzazione (classe, Consigli di classe, dipartimenti) dove la richiesta, pur legittima che viene dall’esterno, si potrebbe trasformare in una negoziazione privatistica, con buona pace della progettualità educativa della scuola.
Vogliamo
inoltre far notare che la “rottura” (sul piano epistemologico, psico-pedagogico
e organizzativo) con la scuola primaria, sottolinea la natura della “media”
come scuola “secondaria”, con argomentazioni, fra l’altro, assai
forzate. Si presuppone, per esempio, in ragazzi di quella età, la compiutezza
del processo di astrazione e la capacità di capire immediatamente il rapporto
tra realtà e rappresentazioni, mentre sappiamo che la preadolescenza si
caratterizza per una compresenza di modalità del conoscere - deduttiva e
induttiva - che spesso fanno collocare un approccio “modellizzato” alla fine
del triennio (e non sempre in uguale misura di consapevolezza e di padronanza
concettuale).
Il ciclo di base è un alternarsi e un arricchirsi di
diverse modalità conoscitive, per questo appare superata l’immagine “stadiale”
di un bambino che transita dal realismo ingenuo al pensiero ipotetico-deduttivo
unicamente seguendo le tappe scandite dai diversi gradi scolastici. L’identità
della scuola media dovrebbe essere cercata proprio in questa compresenza
dinamica di modalità conoscitive: da un lato vicine alla percezione globale del
sé e del mondo, dall’altro con caratteri fortemente simbolizzati. Da qui
discende quella flessibilità di metodologie e strategie didattiche, che
utilizza il passaggio dal “realismo ingenuo” ai processi di astrazione, non in
chiave di selezione, ma di riconoscimento dei diversi stili cognitivi e, in
definitiva, di promozione sociale.
Siamo perciò contrari ad uno schematismo di comodo che veda
contrapposte, da un lato, la scuola elementare predisciplinare, dall’altro, la
scuola media disciplinarizzata. Lo statuto delle discipline non si
“autosospende” per effetto dell’età degli allievi: il rigore e la coerenza
scientifica rimangono punti di riferimento per qualsiasi azione di
insegnamento/apprendimento. Ciò che si modifica nel passaggio graduale dell’età
evolutiva è la modalità della mediazione didattica.
Fatta questa premessa vogliamo sottolineare che le
discipline, anche per le finalità istituzionali di tutto il ciclo di base,
restano “pretesti” formativi: ne deriva la nostra contrarietà all’eccessiva
“secondarizzazione” di questo grado di scuola che, attraverso un insegnamento
esasperatamente formalizzato e personalizzato, tenda a “orientare”, “sancire”,
“canalizzare” precocemente i ragazzi in piena età evolutiva.
La
scuola dell’identità.
Si dice nel documento:
nella “fatica
interiore del crescere…ogni preadolescente…ha bisogno della presenza di adulti
coerenti e significativi disposti ad ascoltare, aiutare…in particolare i
genitori, e più in generale la famiglia…devono essere coinvolti nella
programmazione e nella verifica dei progetti educativi e didattici posti in
essere dalla scuola”. Facciamo presente che nella scuola,
laddove si riscontrino situazioni di svantaggio socio-culturale, da sempre i
docenti tentano di coinvolgere le famiglie nell’azione educativa e formativa
dei ragazzi, ma tutti gli operatori scolastici sanno che proprio i genitori e
le famiglie di questi ragazzi spesso si sottraggono all’azione di
coinvolgimento posta in essere dalla scuola. Si tratta dunque di una questione molto complessa, che non
può certo essere risolta con un accorato richiamo ai doveri dei genitori.
Inoltre, l’attività di programmazione e di verifica del
processo di apprendimento - di competenza dei docenti e oggi esplicitata nel
Pof - non può essere ulteriormente estesa alla partecipazione di altri soggetti
senza incorrere nel duplice rischio di svilire la funzione docente e di
banalizzare l’impianto culturale della scuola. Né si può condividere la tesi
secondo cui è compito della scuola farsi carico di tutti gli elementi di
criticità presenti nella società.
Non ci convince neppure l’idea secondo cui per risolvere i
problemi degli adolescenti basterebbero la disponibilità, l’ascolto,
l’amore. Fattori tutti condivisibili, ma certamente non risolutivi per
affrontare problematiche complesse la cui soluzione richiede interventi
sinergici di altre istituzioni.
La
scuola dell’educazione integrale della persona.
Troviamo scritto nel testo: la relazione educativa implica “l’accettazione
incondizionata l’uno dell’altro, ci si prende cura l’uno dell’altro come
persone…” infatti in questo “clima gli studenti apprendono meglio”.
Vogliamo sottolineare che non basta quel “clima” per promuovere “apprendimenti significativi
e davvero personalizzati per tutti”. C’è
bisogno piuttosto di più tempo scuola,
di continuità educativa, di collaborazione tra i docenti. Aspetti fondamentali,
che invece i documenti ignorano
In merito agli Obiettivi
specifici di apprendimento delle singole materie valgono le considerazioni già fatte a proposito
della scuola primaria.
Italiano
Dal
testo non emerge una cultura storiografica esplicita, anzi sembra che
l’insegnamento della storia debba rincorrere la “verità oggettiva”,
inevitabilmente parziale e legata alla diversità degli approcci. La visione
eurocentrica non favorisce la comprensione del mondo e non si intreccia
con una necessaria educazione alla “Convivenza civile”. Anche per questa
materia riteniamo che gli obiettivi siano troppo ambiziosi per essere
perseguiti nei tempi previsti. Inoltre, riproporre nell’ultimo anno lo studio
della storia dell’Ottocento e del Novecento significa voler ridurre lo spazio
che aveva consentito agli insegnanti di trattare in tempi più distesi e in modo
più approfondito la storia recente. Mancano infine riferimenti al rapporto, pur
così importante, tra storia e geografia, con il rischio di vanificare una
pratica di apprendimento/insegnamento pluridisciplinare e interdisciplinare
avviata e consolidata da diversi anni proprio nella scuola di base. I richiami
all’inter e alla pluridisciplinarità, pur presenti nel documento, rimangono
perciò solo dichiarazioni di principio.
L’impianto
della disciplina, organizzato rigidamente in un primo biennio e in un ultimo
anno, impone una forzata scansione del percorso di apprendimento che contrasta
con il modello didattico flessibile e ricorsivo previsto dagli attuali
programmi di educazione artistica. Non si fa alcun riferimento allo sviluppo
delle capacità visive relative al saper osservare e descrivere le immagini e le
opere d’arte; sono insufficienti le indicazioni che riguardano l’acquisizione
di competenze sintattico-grammaticali per produrre e comunicare con il
linguaggio delle immagini; c’è un eccessivo sbilanciamento sul versante
dell’arte, che viene intesa, non solo come lettura delle opere, ma anche come
conoscenza cronologica delle epoche storiche.
La quantità delle contenuti risulta veramente eccessiva, alcuni obiettivi sono addirittura specialistici e presuppongono, per essere effettivamente perseguiti, sia uno studente di età maggiore sia un maggior numero di ore. Alcuni contenuti e obiettivi sono più propriamente educativi, andrebbero quindi collocati nelle Educazioni o cancellati. Anche per le scienze si coglie poca organicità nel rapporto che dovrebbe esistere fra conoscenze e abilità.
Matematica
Il
Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo
ciclo di istruzione (6-14 anni)
Riteniamo che parlare di “profilo professionale” a conclusione della scuola di base, in presenza comunque di un obbligo formativo sino ai 18 anni, sia inopportuno ed eccessivamente anticipatorio. Il “profilo” sembra andare nella logica di una scuola finalizzata unicamente all’orientamento, attraverso una precoce differenziazione dei percorsi e un troppo precoce riferimento al cosiddetto “progetto di vita”. Sostenere che l’adolescente, all’uscita dalla scuola di base, sia in grado di costruirsi un personale “progetto di vita”, scommette su una anticipata capacità di scelta scolastico-professionale, quasi a voler giustificare la canalizzazione precoce dei percorsi formativi proposti dalla legge n. 53 del 28 marzo 2003.
Colpisce
la sottovalutazione di quella delicata fase di crescita dei ragazzi che
corrisponde ai 13-15 anni (che gli insegnanti conoscono bene), carica di
incertezze, di inquietudini e di ansie, tali da far parlare di “crisi adolescenziale”.
Si pensa veramente che il nostro/la nostra adolescente (e ci limitiamo a
qualche esempio tra i più clamorosi, nel contesto di una descrizione di
competenze) sia capace “di conferire senso alla vita”, di
ravvisare “la differenza tra il bene e il male”, di maturare, esprimere
e argomentare “un proprio progetto di vita”?
Da tutto il documento emerge un profilo caratterizzato da eccellenti attitudini intellettuali e da eccellenti doti caratteriali, in una prospettiva spiritualistica che travalica il ruolo e i compiti formativi della scuola.
Si
coglie infatti uno sbilanciamento tra affermazioni relative alla maturazione
dell’identità personale e sociale del ragazzo e l’incidenza della formazione
culturale sullo sviluppo personale, obiettivo specifico della formazione
scolastica.
Questa
debole e non esplicitata connessione tra conoscenza, abilità, atteggiamenti
(nella quale si configura il profilo della “competenza”), fa assumere a molte
pagine dedicate ai comportamenti, alla conquista dell’autonomia, alle relazioni
sociali, un risvolto del tutto moralistico, al limite della precettistica.
Ribadiamo
invece la necessità di definire un profilo culturale alla fine del primo ciclo
attraverso un quadro culturale e concettuale di conoscenze/abilità/competenze
da cui si evinca la continuità-coerenza-evoluzione di procedure metodologiche,
di modalità di lavoro, di strumenti culturali, così che ci sia congruenza tra
il progressivo evolversi dei contenuti e lo sviluppo della personalità. A
maggior ragione, essendo il primo ciclo caratterizzato da discontinuità e
separatezze, c’è bisogno di un contesto flessibile che accompagni e contenga
tale andamento.
Ribadiamo
quindi la necessità di un ripensamento del significato formativo e culturale di
tutto il primo ciclo, che dovrebbe trovare adeguata trattazione nel “Profilo
educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo
di istruzione (6-14 anni)”.
Sottolineiamo
inoltre che tale ciclo deve chiamare in causa le migliori tradizioni della
scuola elementare e media, recuperando pienamente il valore formativo della
scuola dell’infanzia; solo in questo modo sarà possibile reinterpetare la
funzione di ambiente di apprendimento dell’intero percorso formativo di
base, in modo da stimolare motivazioni, curiosità e partecipazione degli
allievi, offrendo solidi alfabeti e codici per rappresentare il mondo,
comprenderlo, comunicarlo.